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 2013  gennaio 23 Mercoledì calendario

SIAMO TUTTI DON CHISCIOTTE

Quando, il 12 ottobre 1936, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico dell’Università di Salamanca, un generale franchista pronuncia in maniera sprezzante il motto della Legione Spagnola «Viva la morte», Miguel de Unamuno, rettore di quell’Università, gli risponde a muso duro «Viva la vita». Così, dopo essersi opposto alla monarchia, e poi alla dittatura di Primo de Rivera, pagando queste scelte con l’esilio, egli rompe anche con il regime cui in un primo momento si era avvicinato. Ma tale riferimento alla vita, al di là del significato politico che assumeva in quel contesto, può essere assunto come l’epicentro semantico dell’intera attività di uno dei più significativi intellettuali europei del primo Novecento.
Narratore, drammaturgo, poeta, autore di testi filosofici come Del sentimento tragico della vitaeAgonia del cristianesimo, egli è noto soprattutto per l’appassionato commento al Don Chisciotte, considerato il suo capolavoro. Mancava, però, ancora un volume che raccogliesse i suoi interventi, scritti lungo quasi un quarantennio, sul grande libro di Cervantes che egli stesso considerava come la Bibbia nazionale degli spagnoli.
Questo vuoto è ora riempito dalla pubblicazione, egregiamente curata da Enrico Lodi per l’editore Medusa, di una ampia scelta di suoi saggi e articoli con il titolo In viaggio con Don Chisciotte.
Essa comprende un testo, come quasi tutti gli altri, mai tradotto finora, Il cavaliere dalla triste figura. Saggio iconologico — in cui l’autore confronta le descrizioni di Don Chisciotte presenti nel romanzo con i ritratti che i pittori gli hanno poi dedicato. Già in esso si profilano i tratti di un’interpretazione magistrale, che oltrepassa i confini tradizionali dell’ermeneutica, per configurarsi come un vero corpo a corpo con il proprio oggetto d’analisi. Egli stesso sempre in lotta con se stesso, diviso tra ricerca della concretezza ed aspirazione all’universale, Unamuno proietta questa contraddizione sul Cavaliere Solitario, facendone un simbolo vivente non solo dell’anima spagnola, ma anche dell’uomo contemporaneo, sospeso tra angoscia e fede. Contro l’accademismo erudito di quelli che chiama “masoreti” — come i rabbini interpreti delle Sacre Scritture persi dietro minuziose ed inutili ricerche filologiche — Unamuno cerca la perenne attualità del Chisciotte nel contrasto che lo oppone a se stesso, sdoppiando la sua esistenza tra la saggezza inerte di Alonso Quijano e la follia utopica del suo stralunato alter ego.
Contrariamente ai buoni propositi del primo, è proprio lo sguardo stravolto e allucinato del secondo a gettare un inedito fascio di luce sulle cose, riscattandole dalla loro insignificanza. Solo dimenticando la propria identità, sacrificata alla più sublime delle follie, egli ritrova il significato profondo della vita aldilà della linea del nulla che, prima o poi, è destinata ad avvolgerci tutti. È perciò che la sua figura allampanata, i suoi baffi spioventi, il suo naso aquilino, tutt’altro che emblemi luttuosi, traducono una estrema energia vitale. Lo stesso culto della morte, che si è voluto vedere nell’anima spagnola, piuttosto che attestare un distacco nei confronti della vita, ne determina la continua ricarica. Come appare dal sorriso tragico dell’hidalgo, quella malinconia non è che la faccia in ombra di una ricerca di immortalità destinata ad esser sempre delusa, ma perciò anche rinnovata. In questo senso Unamuno può richiamare perfino l’idea, diversamente declinata da Spinoza e Nietzsche, che la vita ha una inestinguibile tendenza a perseverare nel proprio stato ed anzi a potenziarsi. Nonostante le sconfitte che sperimenta, Chisciotte incarna questa potenza storica, capace di restituire alla Spagna un primato spirituale che da secoli ha perduto. Per cogliere il senso di tale affermazione, che Unamuno contrappone al parere di chi ne sottolinea la decadenza culturale e civile, bisogna attivare una doppia prospettiva, di tipo teoretico ed esegetico. Intanto intendere per storia non la semplice successione dei fatti, situati in maniera indifferenziata nello spazio e nel tempo, ma quegli eventi, anche di ordine intellettuale, capaci di modificare le coscienze lungo il filo delle generazioni. Qui Unamuno si rifà alla distinzione di Kierkegaard tra semplice memoria e ricordo di qualcosa che resta nel tempo. Si può avere memoria di un episodio senza ricordarne il significato pregnante.
L’altro presupposto, attuale al punto di richiamare una metodologia strutturalista, sta nel privilegio assoluto del romanzo rispetto al suo autore. La tesi di Unamuno è che Don Chisciotte sia molto più avanti di Cervantes. Che, una volta pubblicato, la sua proprietà sia sfilata di mano all’autore, per appartenere al suo popolo e all’umanità intera. Come la Bibbia, o l’Iliade, il Chisciotte ha una vita autonoma che sta appunto nella durata dei suoi effetti storici. Da questo lato Unamuno tocca un vertice della riflessione contemporanea. La vera opera d’arte, come quella del pensiero, è sempre impersonale, di nessuno perché di tutti. La genialità di Cervantes sta nel dileguarsi dietro la propria opera, mandando il suo protagonista avanti, nel tempo e nello spazio, fino a naufragare nell’oceano dell’impossibile. Ma non avevano fatto naufragio, in questo senso, anche i grandi condottieri spagnoli, da Cortes a Pizarro, quando, perdendo il contatto con la propria terra, avevano scoperto nuovi mondi?