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 2013  gennaio 23 Mercoledì calendario

RE LANTERNA SULLE ORME DI COLA DI RIENZO

Re Lanterna batte le ribalte televisive racimolando voti, e qualche salmista l’applaude: ai bei tempi gli reggevano la coda; che i conti siano riaperti, non l’hanno ancora detto ma pare sottinteso; i recidivi se l’augurano. Lo cantano geniale commediante dell’arte: «Oscura Totò»; con quanta maestria cattura il nemico trasformato in «spalla» (Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 16 gennaio 2013). Giudizio estetico molto opinabile, vari essendo i gusti (trivialmente manipolati in tanti anni d’egemonia televisiva). Qui interessa il merito politico, e siccome corrono delle similitudini, il quesito è: miracolo della Fenice o rictus d’una mummia? Cominciamo dalla cronologia. L’uomo naviga nel settantasettesimo anno e in politica esordiva 19 anni fa suonando tre pifferi: primo, diventa oro quel che tocca (promette un milione di posti a chi cerca lavoro); secondo, inalbera il trinomio famiglia, patria, buoni costumi; terzo, muove guerra agl’inesistenti «comunisti», apportatori d’odio, oppressione, miseria. La sorpresa gli riesce ma quel gabinetto dura appena sei mesi (dicembre 1994): sconfitto alle urne, aprile 1996, trova nelle file avversarie chi lo salva; aveva le stelle dalla sua. Indi rivince, marzo 2001, ma governa talmente male da perdere d’un filo la terza partita elettorale. Nella quarta trionfa, aprile 2008: non s’erano mai viste due Camere così servili: ed è un capolavoro negativo dilapidare vorticosamente tale patologica fortuna, finché, incombendo la bancarotta, i dignitari d’una corte da due soldi lo persuadono a dimettersi: «buffone», gridano i manifestanti sabato 12 novembre 2011, quando sale al Quirinale; adepti stralunati invocavano passi estremi, conformi all’anima piratesca, ma non conveniva. La mistica della fine eroica (stile Hitler 1945) ha poco appeal in casa d’Arcore: la visione berlusconiana del mondo non è nichilismo ma appetito senza fondo, servito da fraudolenta versatilità sotto maschera ilare. L’unica via d’uscita era dimettersi, lucrando l’immagine del politico sensibile al bene collettivo.
Il governo cosiddetto tecnico, le cui dolorose misure scongiurano la bancarotta, nasceva da una maggioranza anomala, a parti incompatibili, ed era presumibile che qualcuno la rompesse. Siamo al sesto atto della guerra elettorale in cui Sua Maestà d’Arcore ha vinto tre volte: vittoria stretta, 1994, e due Austerlitz. L’ordalia è scena, corpo, gesto, quindi consideriamola: gli gravano addosso i 19 anni dalla discesa in campo; pletorico, grosso, rifatto dalla testa ai piedi, spesso torvo, quasi irriconoscibile, solo cortigiani, parassiti, baiadere venali fingono l’estasi. L’organetto suona i vecchi refrain, logori e smentiti. Erano tre: astutissimo negli affari suoi, quale statista vale un beccaio che irrompa in camera operatoria e, impugnati i ferri, tranci; pubblica essendo la notizia delle sue gesta, lasciamo caritatevolmente da parte valori e questioni morali; quanto all’idra comunista, il cui punto debole è non esistere, l’unico amico e forse socio che abbia fuori casa, è Vladimir Putin ex Kgb (l’altro era Gheddafi buonanima, al quale baciava la mano). Infine, ha perso l’esclusiva: era comodo raccogliere tutti i voti negati alla sinistra; adesso fa i conti con un centrodestra ostile all’affarismo da preda in veste populistica. L’impresa somiglia a quella d’un Mussolini che domenica 26 luglio 1943 chieda agl’italiani guerra suicida contro Inghilterra, America, Russia.
Qualcosa salta fuori se lo paragoniamo al Nicola nato tra i mulini del Tevere nel rione Regola (primavera 1313), figlio dell’oste Lorenzo (Cola de’ Rienzi). Costui pratica l’ars notaria, latinista, magnifico parlatore, scenografo, maestro d’immagini, umanista forbito, quanto intellettualmente sordo appare l’impresario 2013. Li divora l’Io ipertrofico, i cui impulsi determinano le rispettive storie. Sono scaltri, indenni da scrupoli, abili nella cattura psichica dei pazienti. Dalla Quaresima 1347 l’ancora giovane Cola governa, forte del sèguito popolare, racconta l’Anonimo d’una Cronica in volgare romanesco, ma presto i segni indicano manie psicotiche: inscena fastose cerimonie a San Giovanni, 24 giugno; poi assume titoli fiabeschi e lancia proclami al mondo, sul quale vanta un’autorità radicata nella storia romana (l’attuale partner guarda dall’alto il presidente Usa e sappiamo in quale conto sia tenuto extra fines).
A settembre sfida i baroni. Martedì 20 novembre coglie una vittoria piovuta dal cielo. Qui gli manca lo spirito animale: «A pena poteva favellare»; teme «d’essere occiso», senza motivo perché «nessuno se palesao rebello»; e sabato 15 dicembre se ne va; «nello settimo mese descenno de mio dominio ». Passano sette anni, in eremo fratesco sulla Maiella, poi a Praga e Avignone, prigioniero del papa, dal quale si fa rispedire in Italia: nei giochi verbali è ancora forte; en route incanta i due fratelli del ricchissimo fra’ Moriale, terribile condottiero, mungendo il denaro con cui assolda una compagnia; e venerdì 1° agosto 1754 entra nell’Urbe sotto archi trionfali, senatore, ma non lo riconoscono più, così «gruosso sterminatamente». L’ultima impresa è l’agguato nel quale attira fra’ Moriale, decapitato mercoledì 20. La fine viene improvvisa, mercoledì mattina 8 ottobre. Lo svegliano delle grida: tumultua gente dai rioni Trevi, Colonna, Sant’Angelo, Ripa; sono spariti tutti dal Campidoglio, meno un parente traditore e due famigli. Invano s’affaccia, bardato d’armatura e gonfalone. Vanno a fuoco le opere in legno. Allora sforbicia la barba, tinge il viso, s’intabarra e passato tra le fiamme, corre gridando con accento campagnolo «suso, suso a gliu tradetore»; ma nello spogliarsi aveva dimenticato i braccialetti d’oro. L’hanno scoperto sull’ultima porta. Cala un gran silenzio, quasi un’ora, finché due fendenti lo stendono morto. Appeso a San Marcello, davanti al Palazzo Colonna, «pareva uno esmesurato bufalo»: vi rimane due giorni e una notte; consuma i resti un falò nel Mausoleo d’Augusto. L’analisi comparata spetta al lettore. Emergono cospicue diversità e altrettanto notevoli aspetti simili: ritentando la scena romana, Cola commette l’errore capitale; e l’Olonese dev’essersi domandato se non convenisse chiudere al meglio la partita mandando al diavolo l’infida compagnia.