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 2013  gennaio 19 Sabato calendario

TERRORISMO, IL MUSEO CHE SPAVENTA [C’è

chi propone di conservare le celle di Baader e Meinhof] –
Un museo per i terroristi della Baader-Meinhof? Il passato continua a non passare in Germania, non bastano le ruspe per cancellarlo, a Berlino o altrove. I tedeschi continuano ad avere paura dei simboli. Che fare del carcere di Stammheim, vicino a Stoccarda, di cui è stata decisa la demolizione? All’edificio, costruito nel 1960, fu aggiunta una dependance nel ’73 per ospitare i terroristi, che qui vennero giudicati in un’aula protetta come un bunker atomico.

E nell’ottobre del ’77 furono trovati morti in cella i tre capi storici del gruppo.

Un’espressione volutamente ambigua, per spiegarla senza malintesi occorrerebbe un saggio: si tolsero la vita o furono eliminati? E il loro fu un gruppo o una banda? A rispondere, si corre il rischio di venir considerati dei simpatizzanti della Rote Armee Fraktion. Ma definire «Banditen» i terroristi equivale a cancellare le ragioni politiche. Che le loro idee fossero sbagliate non ha alcuna importanza. Eppure, anche quarant’anni dopo, a pronunciare «die Gruppe» si è guardati con sospetto.

Stammheim è sempre un nome che scuote le coscienze in Germania. Qualcuno ha proposto di conservare le celle come testimonianza di quel che avvenne, qualunque cosa avvenne. Il fotografo Andreas Magdanz ha eseguito una serie di grandi foto in bianco e nero che vengono esposte al Kunstmuseum di Stoccarda. Cristianodemocratici e liberali protestano, i verdi (che sono al governo nel Land) sono favorevoli, anche alla ricostruzione delle celle nel Museo della Storia.

La storia del terrorismo in Germania e in Italia scorre parallela. Credo che non ci fosse collaborazione tra italiani e tedeschi, a parte qualche contatto sporadico. Erano troppo diversi. In Germania, un’élite di intellettuali e borghesi senza alcun rapporto con la classe lavoratrice. All’inizio, motivati dalla protesta contro la guerra in Vietnam. I loro bersagli furono scelti con cura: mettere una bomba nella base Usa a Francoforte è cosa ben diversa e molto più difficile che sparare a un caporeparto della Fiat, o gambizzare un giornalista. Erano appoggiati dai servizi segreti della Ddr e si addestravano in Medio Oriente. Ma da noi si voleva credere a una stretta alleanza tra Brigate rosse e Raf.

Quando, il 17 maggio del ’72, fu ucciso il commissario Calabresi mi telefonò ad Amburgo un collega della cronaca del Giorno: alla polizia sostengono che sia stato Andreas Baader. I testimoni dicono che il killer era molto alto e biondo. Dunque un tedesco. Baader è alto quanto me, ed è bruno, obiettai. Mi telefonò una seconda volta: potrebbe essere Baader. Il commissario, che era alto, si è piegato appena colpito, e il killer è sembrato sovrastarlo. Comunque mi sembrava improbabile. In Germania era in atto una colossale caccia all’uomo, e pensavo fosse impossibile che i terroristi braccati se ne andassero in trasferta a Milano. Giunse una terza telefonata: non era Baader, ma Holger Meins, lui sì alto e biondo. Subito dopo, l’Interpol trasmise l’identikit del killer, una copia di una vecchia foto di Meins. Il tedesco fu catturato il 1° giugno, insieme con Baader, dopo uno scontro a fuoco con la polizia a Francoforte. Sfoggiava una barba di oltre un anno, cresciuta in clandestinità. Non si parlò più di Meins come assassino di Calabresi. Morì in carcere nel ’74, a 33 anni, in seguito a uno sciopero della fame.

I miei colleghi del Giorno erano molto motivati, e furono loro a rivelare le incongruenze sulla fine di Pinelli, ma come dovevano reagire a quelle che sembravano precise notizie provenienti dalla Questura?

Rimane la domanda: Baader, Gudrun Ensslin e Jan Carl Raspe nella notte del 18 ottobre del ’77 si uccisero o furono eliminati? Io penso che si tolsero la vita. Quando lo scrissi quel giorno, da Milano mi chiamò un membro del comitato di redazione per avvertirmi: «Pubblichiamo il tuo articolo perché sei tu, noi siamo convinti del contrario». I tedeschi saranno cattivissimi ma anche stupidi come nei film di Hollywood? Perché ucciderne tre, e lasciare in vita la quarta, Irmgard Möller, una gregaria e la meno motivata, trovata con qualche ferita superficiale sul petto, perché raccontasse la sua versione di quella notte? Sulla fine di Ulrike Meinhof, impiccata in cella il 9 maggio del ’76, invece ho i miei dubbi. A questa domanda non si potrà mai rispondere, non del tutto. Penso, dunque, sia una buona idea conservare le celle di Stammheim in un museo.