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 2013  gennaio 23 Mercoledì calendario

LA SPALLA DEL BOIA

L’immagine della Asso­ciated Press è di quelle che attanagliano il cuore, e su cui ci si ferma, anche se non lo si vorrebbe, perché già al primo sguardo sai che ne trarrai dolore. Teheran, 21 gennaio, pubblica impiccagione di due giovani accusati di rapina.

Dentro una notte senza luci, nera come se non dovesse più sorgere l’alba, solo il flash proietta la sua fredda luce. I condannati, che di­mostrano vent’anni, vengono condotti alla forca, accompagnati ciascuno dal proprio boia col vol­to nascosto da un cappuccio. È un non-volto dunque, una maschera, l’ultima presen­za accanto ai condannati.

Uno dei prigionieri mostra all’obiettivo, sulla faccia da ragazzo, una smorfia di terrore e di angoscia. Sem­bra così giovane che, qual­siasi cosa abbia anche fat­to, chi guarda si ribella: è ancora più intollerabile giustiziare un ragazzo, che avrebbe tutta la vita per cambiare. (Già però, die­tro di lui, sulle spalle del boia si intravede, pronto, il cappio).

Ma è l’altro condannato, che turba più profonda­mente. Nella disperazione di chi si vede davanti la morte, appoggia, inerme come un ragazzino, la te­sta sulla spalla del boia, a domandare, proprio a lui, conforto. E il boia ma­scherato, il non-volto, non si ritrae, anzi con una ma­no gli cinge la spalla. Il carnefice sembra avere pietà della vittima, e desi­derare, forse, che il suo terribile compito gli sia tolto. C’è una umanità struggente, fra i due, nel­l’istante catturato dal foto­grafo; un ritrovarsi, sotto la più feroce legge, per un mo­mento tuttavia fratelli, dentro a una legge anteriore e più grande.

Ma tutto questo dura pochi se­condi; un regime come quello i­raniano non tollererebbe debo­lezze nei suoi boia. La pubblica conferma di un terrore eretto a sistema è del resto la ragione di quella esecuzione in piazza di due, forse, giovani banditi da strada.

Intanto il fotografo si è voltato a riprendere il pubblico: una gran folla da stadio, e come allo stadio eccitata, i pugni alzati a doman­dare vendetta, le facce ansiose che ’giustizia’ sia fatta. L’eccita­zione della folla gela il sangue, e, per contrasto, sottolinea l’istante di pietà del carnefi­ce. Solo tre volti so­no del tutto estra­nei a questa eb­brezza di sangue: quelli di tre donne.

Dietro alle sbarre che separano la piazza dal patibolo, una ha il volto chi­no, nascosto nel pianto; una, giova­ne, si copre la faccia con le mani, per non vedere oltre; una terza, giovanissima, singhiozzante, nel suo strazio ha le fattezze delle donne ai piedi della Croce, nelle tele dei pittori antichi. Una ac­canto all’altra le tre – sorelle, spo­se? – testimoni di un antico fem­minile destino, volti di pietà là dove la violenza e il potere pre­tendono l’ultima parola. Il foto­grafo non può o non vuole co­gliere l’istante della esecuzione.

Solo ci mostra, in un ultimo scat­to, notturno, immoto e appeso al cappio, il corpo del ragazzo che s’appoggia alla spalla del boia.

Tre foto che ammutoliscono. Ed è solo, pensi, uno squarcio aperto su quella grande parte di mondo che sfugge generalmente agli o­biettivi; è solo una tessera nella ferocia che ogni giorno – noi non vedendo – opera in Siria, o in lon­tani Paesi africani. Nell’oggi, in questo istante, contemporanea a noi. Come stare davanti a questo male, da cristiani?

Nel suo ’Diario’ Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz dopo una sbalorditiva maturazione interiore, scrisse, in una delle notti in cui i suoi amici lasciavano Amsterdam per i cam­pi di raccolta: «Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio.

Si dovrebbe soltanto poter prega­re ». La notte più grande e atroce era, allora, sul popolo ebraico, sull’Europa, su noi. Ma quante notti, grandi o ignote, o ignorate, scorrono nell’oggi, in regimi di terrore, in genocidi e stragi, lon­tano dai nostri occhi? Quei tre scatti da Teheran, quei due ragaz­zi, la folla che urla e aspetta il sangue. Forse anche noi dovrem­mo, per tutte le notti che non sappiamo, ogni sera, per un mo­mento non distratti, inginoc­chiarci e pregare.