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 2013  gennaio 19 Sabato calendario

IMMINENTE IL PERICOLO LIQUIDITÀ

L’Ilva non è soltanto un grosso problema ambientale, industriale e occupazionale. È anche una bomba finanziaria. C’è l’aria respirata dagli abitanti di Taranto. Ci sono le ricadute sulle forniture di acciaio alla manifattura italiana. Incombe, su tutto, la tragedia delle 12mila persone che, in caso di chiusura dell’impianto, perderebbero il lavoro. Ma non vanno sottovalutati gli aspetti finanziari di una vicenda che rischia di avere, nei prossimi mesi, effetti devastanti per le società coinvolte – la Ilva Spa (posseduta al 90% dalla famiglia Riva, il 10% è degli Amenduni) e la capogruppo Riva Fire – e conseguenze imprevedibili per il sistema bancario italiano, che ha sempre finanziato con abbondanti provviste le attività della famiglia lombarda nel core business siderurgico, nelle diversificazioni (il trasporto marittimo) e nelle attività collaterali dal non irrilevante significato politico (la cordata di salvataggio di Alitalia, congegnata da Silvio Berlusconi e organizzata da Corrado Passera, allora in Banca Intesa).
L’ex prefetto Bruno Ferrante, che non sarà un tecnico dell’acciaio o della finanza aziendale ma che in quanto uomo d’ordine e delle istituzioni conosce il peso delle parole, già lo scorso 11 agosto era stato chiaro: «Se non produco, banalmente, come faccio a pagare 12mila persone?». L’8 gennaio scorso ha garantito che gli stipendi di gennaio sarebbero stati corrisposti: «L’azienda ha messo in atto un grandissimo sforzo finanziario per procedere regolarmente al pagamento degli stipendi. Mi auguro che la situazione possa evolvere positivamente per fare altrettanto il prossimo mese. Lo sblocco della merce è imprescindibile per continuare la vita aziendale che è gravemente danneggiata». Lo sblocco della merce (un miliardo di euro il valore) da parte della magistratura non si è verificato. Sono iniziate le cancellazioni delle commesse: la scorsa settimana un cliente ha rinunciato a prodotti necessari per costruire un gasdotto in Oklahoma (contratto da 25 milioni di euro). Ecco che le tensioni finanziarie incominciano a concentrarsi e a crescere di intensità. Con effetti poco prevedibili. Gli ultimi documenti disponibili, convalidati poche settimane prima che Taranto diventasse una polveriera, forniscono un quadro eloquente. È vero che l’Ilva Spa ha un patrimonio netto di quasi 3,8 miliardi. Ma è altrettanto vero che di soldi liquidi, soldi veri, ce ne sono pochi. Prendiamo il bilancio consolidato al 31 dicembre 2011, firmato il 25 giugno del 2012 da Nicola Riva, che di lì a poco sarebbe finito agli arresti domiciliari, provvedimento confermato giovedì dalla Cassazione. Le disponibilità liquide sono 5,1 milioni. In particolare, i depositi bancari valgono 5 milioni.
Una cifra minima, buona per rifare le aiuole e pagare le società che sistemano le buche nel parcheggio aziendale. Peraltro, in un anno, questi soldi in cassa sono calati: al 31 dicembre del 2010 le disponibilità liquide erano pari a 84,9 milioni (83,5 i depositi bancari).
I debiti bancari sono rilevanti. E, soprattutto, sono per lo più scaduti. Al 31 dicembre del 2011 Ilva Spa aveva debiti bancari per 295 milioni di euro: tutti esigibili entro il 31 dicembre del 2012. Un’altra voce preoccupante sono i debiti verso i fornitori: 952 milioni. Di questi, quanti esigibili dal 2013 in avanti? Zero. Dunque, tutti e 952 milioni da tirare fuori sull’unghia già entro il 31 dicembre del 2012. La famiglia Riva e l’Ilva – contattate dal Sole 24 Ore in merito all’effettivo pagamento dei debiti (in particolare quelli bancari, più "stringenti") – hanno comunicato di avere finora onorato ogni impegno. Una assicurazione confermata dal regolare rimborso, verificato dal Sole 24 Ore, di tre finanziamenti della Bei scaduti il 15 settembre scorso: il primo da 100 milioni di euro e il secondo da 60 milioni di euro veicolati da Intesa San Paolo, il terzo da 40 milioni di euro veicolato dalla Popolare di Bergamo. Le incognite potenziali gravano sui debiti la cui scadenza è compresa fra uno e cinque anni, che valgono per l’Ilva poco meno di 421 milioni di euro.
La capogruppo Riva Fire, non avendo dirette attività manifatturiere, ha debiti verso fornitori molto bassi (4,7 milioni di euro). Significativi, invece, i debiti verso le banche: 1,8 miliardi di euro (il 100% con banche italiane), di cui addirittura 1,6 miliardi di euro scaduti nello scorso esercizio. Le linee di credito da cui dovranno rientrare nei prossimi cinque anni valgono invece 185 milioni di euro. È vero che il patrimonio netto è di 812 milioni. Ma è altrettanto vero che le disponibilità liquide, registrate a fine 2011, sono poca cosa: i depositi bancari valgono 12 milioni di euro (erano 150 milioni a fine 2010). Dunque, i soli debiti bancari scaduti lo scorso anno ammontano al doppio del patrimonio netto. Anche in questo caso, la famiglia Riva e la società Riva Fire hanno assicurato al Sole 24 Ore di avere rimborsato tutti i prestiti scaduti. Il problema, dunque, è di tenuta complessiva dei bilanci. Soprattutto a fronte di quanto sta capitando all’Ilva. La fisiologia della finanza di impresa dell’Ilva e di Riva Fire, dunque, appare estremamente delicata. E può essere compromessa da un momento all’altro. Questo elemento di potenziale criticità veniva ravvisato già prima che la situazione, a Taranto, si incancrenisse. Basta leggere il verbale dell’ultima assemblea dell’Ilva, lo scorso 25 giugno, quando insieme al presidente Nicola Riva c’erano il padre Emilio (a cui la Cassazione ha peraltro confermato gli arresti domiciliari) e il fratello Fabio (su cui pende un mandato di arresto internazionale).
Il gruppo si avvale della gestione centralizzata della tesoreria del gruppo Riva Fire, che avviene tramite la capogruppo Riva Fire e le sue controllate Centre de Coordination Siderurgique Sa e Stahlbeteiligungen Holding Sa». Nel verbale, prima che Taranto esplodesse, si scriveva che «a oggi non esistono motivi per non ritenere che i fondi e le linee di credito attualmente disponibili presso la capogruppo, oltre a quelli che saranno generati dall’attività operativa di finanziamento, consentiranno il soddisfacimento dei fabbisogni derivanti dalle attività di investimento, di gestione del capitale circolante e di rimborso dei debiti alla loro naturale scadenza».
I debiti bancari, appunto. A naturale scadenza. Fanno il paio con i soldi da trovare per le bonifiche interne e gli ammodernamenti degli impianti. È vero che, adesso, per il conflitto magistratura-politica e magistratura-azienda, le prescrizioni dell’Aia si sono incagliate. In ogni caso, la famiglia lombarda ha sempre fatto sapere che le risorse finanziarie (i soldi) si sarebbero dovute trovare nel perimetro della controllata. Ma quale banca finanzierebbe lavori per 3,5 miliardi di euro (la stima minore) in una impresa paralizzata?
In queste ultime settimane, però, le parole di Ferrante hanno assunto il peso dell’acciaio. Anche perché la partita finanziaria – dato che la famiglia ha più volte dichiarato di non avere intenzione di fare arrivare soldi dai piani superiori – si gioca tutta fra l’Ilva e, al massimo, la capogruppo italiana Riva Fire. Per ora la Centrale Rischi della Banca d’Italia non ha registrato alcuna anomalia.
La situazione, però, è da monitorare con attenzione. Il rischio è che ad accorgersi per primi che qualcosa davvero non va nelle casse delle società italiane dei Riva siano i lavoratori di Taranto, in attesa delle loro buste paga.