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 2013  gennaio 19 Sabato calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - FINE DEL SEQUESTRO DI IN AMENAS


REPUBBLICA.IT
ALGERI - Sette ostaggi stranieri e 11 sequestratori morti: è drammatico il bilancio al termine del blitz finale lanciato dalle forze algerine all’impianto di estrazione di gas naturale di In Amenas, attaccato mercoledì scorso da un commando di estremisti islamici che hanno sequestrato diversi stranieri e centinaia di lavoratori algerini.

L’edizione online del quotidiano ’El-Watan’ spiega che, vistisi perduti, i miliziani avrebbero giustiziato uno dopo l’altro gli ultimi sette ostaggi rimasti in vita. A quel punto le unità speciali dell’esercito di Algeri avrebbero tentato un’ultima operazione in extremis, giungendo però troppo tardi: le esecuzioni sommarie dei civili stranieri erano già state completate. I guerriglieri superstiti, che sarebbero stati in tutto undici, si stavano preparando a un suicidio collettivo, ma sarebbero stati abbattuti dai soldati.

Norvegia e Gran Bretagna hanno confermato che l’operazione è terminata. "La crisi è conclusa e ha provocato ulteriori perdite di vite" ha detto il ministro della Difesa britannico Philip Hammond.

Gli artificieri dell’esercito algerino hanno cominciato l’operazione di bonifica dell’impianto di In Amenas da eventuali ordigni esplosivi piazzati dai terroristi.

LE FOTO

Sedici ostaggi, non si sa di quale nazionalità, sono stati trovati vivi nel sito: si erano nascosti nei macchinari degli
impianti di estrazione all’inizio dell’attacco. Nel sito le forze speciali algerine hanno anche rinvenuto 15 corpi carbonizzati. Dopo il blitz di giovedì, quando l’esercito algerino aveva attaccato gli estremisti che tentavano di allontanarsi dal sito assieme ai lavoratori presi in ostaggio, con la morte di 12 ostaggi e 18 terroristi - bilancio ancora da verificare - il commando era rimasto asserragliato nella struttura.

Il capo degli estremisti, un guerrigliero che ha detto di chiamarsi Abderrahman Neikheri alias Abu Douhana, aveva minacciato, al telefono con l’agenzia di stampa privata mauritana al-Akhbar, che il gruppo si sarebbe fatto saltare in aria insieme agli ostaggi superstiti in caso di un nuovo attacco da parte dell’esercito. L’uomo aveva spiegato che il complesso era stato interamente minato e che anche lui e i suoi compagni indossavano giubbotti o cinture esplosivi.

Abu Douhana aveva parlato di sette ostaggi ancora nelle mani del commando, di nazionalità britannica, norvegese, statunitense e giapponese, ma le notizie sulla nazionalità e sul numero esatto degli stranieri in mano agli estremisti sono state contraddittorie sin dall’inizio del sequestro.

Fonti locali hanno intanto riferito che 16 ostaggi stranieri sono stati liberati: fra loro ci sarebbero due americani, un portoghese e due tedeschi. Alcuni ostaggi occidentali liberati sono stati portati nelle basi Nato di Sigonella e di Ramstein, in Germania.

Crisi allargata. Per gli Usa, la nuova crisi aperta nel Mediterraneo tocca da vicino interessi nazionali. E infatti, di ritorno dalla visita in Europa in cui ha toccato anche l’Italia, il segretario dalla Difesa Leon Panetta ha annunciato che gli Stati Uniti prenderanno "tutte le iniziative necessarie per proteggere la popolazione" dalla minaccia dei terroristi nel Nordafrica. Parlando alla Bbc ha aggiunto: "Se questo comporti o meno assistere gli altri con operazioni militari, se questo comporti o meno sviluppare in modo cooperativo operazioni laggiù, questi sono campi che ritengo restino da decidere".

La Francia, che ieri, attraverso il ministro degli Esteri Laurent Fabius aveva annunciato la morte di un connazionale rivelandone l’identità, Yann Desjeux, oggi afferma di non essere a conoscenza di altri francesi tra gli ostaggi. "Per quanto ne sappiamo oggi, un francese è morto, purtroppo, mentre altri sono stati liberati", ha dichiarato a France 3 TV il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian.

Anche gli Usa confermano la morte di un cittadino americano tra gli ostaggi degli estremisti islamici a seguito del blitz delle forze militari algerine nell’impianto per il trattamento del gas di In Amenas, nel Sahara a sud dell’Algeria. E’ stato il portavoce del dipartimento di Stato, Victoria Nuland, a dare la notizia: il texano Frederick Buttaccio è stato trovato morto nel complesso.

Tre romeni liberati. Tra chi invece è riuscito a tirarsi fuori dalla drammatica situazione figurano tre romeni, come annunciato dal ministero degli Esteri di Bucarest. "Un ostaggio è riuscito a contattare l’ambasciata romena ad Algeri utilizzando un telefono cellulare e ha ricevuto assistenza per quanto riguarda i passi successivi, che gli ha permesso di salvare la vita", ha indicato il ministero. Altri due ostaggi sono stati liberati ieri sera e sono sotto protezione delle forze algerine, ha precisato il ministero, sono in corso le iniziative necessarie per agevolare il loro rimpatrio e Bucarest ha inviato ad Algeri due consulenti che forniscono assistenza agli ostaggi liberati. Il ministro degli Esteri romeno, Titus Corlatean, ha avuto un colloquio telefonico con il suo omologo algerino Mourad Medelci in merito agli "eventi drammatici in corso nel complesso petrolifero di In Amenas", ha indicato la stessa fonte.

La condanna delle Nazioni Unite. Nella serata di ieri il Consiglio di sicurezza dell’Onu, con un comunicato approvato all’unanimità dai suoi 15 membri, ha condannato "nei termini più severi" l’attacco "atroce" contro il complesso algerino e ha fatto appello agli altri Stati affinché "cooperino attivamente con le autorità algerine". Il comunicato sottolinea come le misure prese per combattere il "terrorismo" debbano rispettare "le leggi internazionali" relative "ai diritti dell’uomo" e ai "rifugiati", dopo l’appello fatto da molti paesi all’Algeria per proteggere la vita degli ostaggi.

Trattativa difficile. Il commando jihadista aveva chiesto un negoziato per mettere fine all’intervento militare in Mali e il rilascio di due prigionieri degli Stati Uniti. Si tratta di Omar Abdel-Rahman, egiziano, meglio noto come lo ’sceicco cieco’, ispiratore del primo attentato al World Trade Center di New York, quello del 1993, in cui morirono 6 persone e un migliaio rimasero ferite. Il secondo nome fatto dai sequestratori è quello di Aafia Siddiqui, neuroscienziata pachistana conosciuta come ’Lady Al Qaeda’ e condannata a New York a 86 anni di carcere per aver cercato di attaccare militari americani mentre era detenuta in Afghanistan.
(19 gennaio 2013)
CORRIERE.IT

CERCAVANO GLI AMERICANI (CORRIERE.IT)
Tentativi di fuga, nascondigli improvvisati per sfuggire ai jihadisti, il tentativo di salvare gli altri compagni. Dopo il blitz delle forze algerine nell’impianto di gas di In Amenas, dove sono tutt’ora tenuti in ostaggio numerosi lavoratori, continuano a giungere le testimonianze dei sopravvissuti.

GLI ACCENTI - «Ci minacciavano urlando, "venite fuori, venite fuori", gridavano in inglese contro noi». A parlare è un operaio inglese sfuggito per miracolo alla morte. Darren Matthew ha raccontato al Daily Mail: «I terroristi a un certo punto hanno catturato un inglese davanti ai mie occhi, poi l’hanno lasciato andare. Volevano gli americani». Darren cerca in tutti i modi di salvarsi e con altri si rifugia sul tetto della mensa, mentre i jihadisti rastrellano altri ostaggi. E sono anche i francesi a confermare l’odio verso gli statunitensi. «L’obiettivo erano gli occidentali. Gli islamisti cercavano gli stranieri, volevano loro e solo loro. Ci hanno detto: “Fratelli algerini, non abbiate paura, uscite in pace, tornate a casa, siamo dei fratelli, siamo tutti dei musulmani», spiega un algerino a Le Monde. Un’altra testimonianza ai quotidiani inglesi arriva da uno degli inservienti della mensa, che preferisce rimanere anonimo: «Mi sono nascosto fuori da una finestra e li ho sentiti parlare tra loro, gli accenti erano di varie nazionalità, egiziani, libici, tunisini.

L’ETA’ DEI RAPITORI - Sono momenti concitati, difficile capire cosa stia succedendo. «Un americano è caduti dal tetto ma senza farsi male e per sua fortuna senza essere notato. Un altro è stato ucciso a sangue freddo». Il racconto ancora una volta è a Le Monde. «Non so se avessero visto che era americano o se hanno avuto paura quando ha fatto un movimento. In ogni caso, non è morto sul colpo, ma si è vuotato del suo sangue e, secondo quello che ho saputo, non è sopravvissuto». Per un ostaggio algerino intervistato da France Info, i rapitori sono giovani, «30-35 anni». «Erano armati fino ai denti, anche con bombe», aggiunge. E ancora: "Uno di loro parlava inglese con un accento perfetto"». I racconti si moltiplicano. Da Stephen McFaul, l’irlandese costretto a indossare un giubbotto imbottito di esplosivo Semtex e a fare da scudo umano ai terroristi fino al francese Alexandre Berceaux, rimasto nascosto sotto il letto della sua camera per quaranta ore.

LE BOMBE AL COLLO - A gelare il sangue è infatti il racconto della moglie di un lavoratore filippino: «Mio marito era da pochi giorni arrivato nel sito per lavoro», ha sottolineato la signora Ruben Andrada in un’intervista a una radio di Manila. «Mi ha raccontato - dopo essersi riuscito a liberare e condotto in ospedale - che gli avevano messo una bomba addosso, una sorta di collana e costretto a salire su un bus imbottito di esplosivo: fortunatamente, la bomba sul camion non ha funzionato mentre altre sono esplose, causando diversi morti», riferisce la donna spiegando che il marito è riuscito a fuggire.
Marta Serafini

PEZZO DI GUIDO OLIMPIO STAMANE SUL CORRIERE
Il guercio punta al conflitto
globale. Ecco come si spiega il prezzo impossibile fissato da Mokhtar Belmokhtar, detto «il guercio», per liberare due ostaggi americani. Washington, è la richiesta, deve rilasciare lo sceicco egiziano Omar Abdel Rahman e la pachistana Aafia Siddiqui, due icone islamiste.

WASHINGTON — «Il guercio» ha ambizioni transnazionali, da jihadista vero, che non riconosce confini e Stati. Punta ad un conflitto globale. Si spiega così il prezzo impossibile fissato da Mokhtar Belmokhtar, detto appunto «il guercio», per liberare due ostaggi americani. Se Washington li vuole, ha fatto sapere, deve rilasciare lo sceicco cieco egiziano Omar Abdel Rahman e la pachistana Aafia Siddiqui. Due icone islamiste. Un modo per Belmokhtar di conquistare consensi in Nord Africa e in Oriente sposando la causa di personaggi per i quali si sono mobilitate piazze e leader. Vorrà dire qualcosa se, nel suo primo discorso, il presidente egiziano Morsi ha speso parole per sollecitare la liberazione dello sceicco. Ancora più duro Ayman Al Zawahiri che ha suggerito i rapimenti di stranieri per proporre lo scambio. Ci provano pur sapendo che la risposta degli Stati Uniti è negativa: «Non trattiamo con i terroristi», hanno ribadito ieri.
La mossa di Belmokhtar è in linea con la sua lunga storia di militante che si è dipanata dal ventre dell’Algeria fino all’Afghanistan. Andato giovanissimo a combattere i sovietici, Belmokhtar è tornato in Algeria portandosi dietro la menomazione all’occhio sinistro e qualche legame. Dimissionato più volte dai capi gelosi delle sua forza, Belmokhtar ha retto grazie alla base di potere personale. I sequestri degli occidentali e i traffici (armi, droga, sigarette) gli hanno portato palate di denaro. I legami con tuareg e popolazioni nel Sahel gli hanno garantito supporto. I rapporti sotterranei con alcuni governi africani gli hanno permesso di navigare in un’area difficile. Le armi acquistate a più riprese in Libia hanno portato un buon arsenale alla sua falange, «quelli che si firmano con il sangue». Una realtà temuta perché fin dal 2002 ha cercato di avere un filo diretto con la casa madre qaedista. Un link contestato da alcuni esperti e confermato da altri, convinti che le notizie sui viaggi di emissari nel Sahel siano fondate. Di sicuro Belmokhtar ha tenuto conto dei consigli di questi anni.
Colpendo il sito della Bp, i terroristi hanno attaccato un bersaglio che simboleggia lo sfruttamento delle risorse energetiche da parte dell’Ovest. Proprio uno dei target consigliati, nel tempo, da Osama e Al Zawahiri. Un piano affidato da Belmokhtar a Lamine Muhamad Bouchanab, un militante che sarebbe stato ucciso a In Amenas. Sempre in sintonia con la vecchia guardia è la richiesta di rilascio dei due prigionieri. Abdel Rahman, arrestato a Brooklyn dopo il primo attentato alle Torri Gemelle (1993), è una guida spirituale molto ascoltata della Jamaa Islamya. Una stella dell’integralismo le cui cassette sono ascoltate a Islamabad come a Milano. Più controverso il profilo di Aafia Siddiqui, «Lady Al Qaeda». Quarantenne, ex studentessa al Mit di Harvard, laureata, sposata ad un nipote della mente dell’11 settembre, madre di 3 figli, è stata accusata di far parte di Al Qaeda e per questo condannata a 86 anni di galera. Sospettata di far ricerche su sostanze tossiche, coinvolta (forse) nello smercio di pietre preziose per l’autofinanziamento, è scomparsa verso la fine del 2002. Arrestata, è stata rinchiusa nella prigione di Bagram (Afghanistan), dove era conosciuta — sembra — come il «prigioniero 650». Per i suoi familiari, invece, è una vittima innocente.
Due biografie perfette per il piano di Belmokhtar che, secondo un testimone, avrebbe guidato personalmente gli assalitori. Presenza possibile anche se sembra strano abbia rischiato una pallottola. Il «principe» del Sahel, convinto di poter andare molto lontano, ha sempre evitato le trappole. Almeno fino a ieri.
Guido Olimpio

I SOPRAVVISSUTI RACCONTANO (LORENZO CREMONESI)
Cominciano ad arrivare i racconti dei sopravvissuti. Chi si è nascosto in un buco del soffitto dei dormitori, chi è rimasto sotto il letto per oltre 40 ore aiutato da un collega algerino che di tanto in tanto passava un boccone di pane e la borraccia dell’acqua approfittando di un momento di distrazione dei rapitori. Il radio operatore dell’impianto, Azedine, 27 anni, ha detto ai media locali di aver visto il corpo senza vita del suo caporeparto francese: «L’hanno ucciso a colpi di mitra. Non ho assistito all’esecuzione. Ho solo sentito la raffica. Poi, scappando, l’ho visto sdraiato a terra nel sangue». Alcuni tecnici inglesi parlano della loro fuga disperata nel caos del blitz delle teste di cuoio algerine giovedì mattina. Qualcuno testimonia di aver udito centinaia di colpi. Molti all’inizio manco avevano capito si trattasse di un attacco terroristico. «Pensavamo fosse un’esercitazione. Solo più tardi ci siamo resi conto che volevano prenderci davvero», dicono alle radio occidentali. «Cercavano gli stranieri. A noi algerini hanno ordinato di prendere la nostra roba e andare via subito», spiegano i locali di questa primitiva e spiccia selezione imposta dai terroristi.
Sono le prime testimonianze dei lavoratori stranieri e locali nel grande impianto di estrazione del gas di In Amenas, nel cuore del deserto algerino, poco distante dal confine con la Libia. E sono conferme della situazione di caos, violenza e morte che ancora impera sul posto. Ci si salva per puro caso, non è strano, sull’impianto lavorano oltre 700 persone, circa un quinto stranieri: la barba lunga, i capelli scuri e magari una rudimentale conoscenza dell’arabo, possono rappresentare la vita al posto della morte. Ieri sera ancora non era chiaro il bilancio delle vittime. Nonostante giovedì sera ad Algeri la tv di Stato avesse annunciato «la fine del blitz», ieri è stato evidente che le operazioni continuavano e dunque il numero finale delle vittime potrebbe essere molto diverso. Comunque, questi i dati forniti nelle ultime ore dalla agenzia stampa algerina Aps: il blitz lanciato giovedì mattina dai commando governativi (24 ore dopo l’attacco di una trentina di qaedisti) avrebbe liberato oltre 670 lavoratori, di cui 100-130 stranieri. «Tra i morti accertati vi sono 18 terroristi e 12 ostaggi tra stranieri e algerini», ha sostenuto l’Aps senza fornire dettagli sulla nazionalità. Altre fonti indicano che sino ad ora gli stranieri morti sarebbero tra 4 e 6. Però sarebbero ancora 32 quelli nelle mani dei qaedisti.
Chi sono? Difficile specificare. Il Giappone segnala 14 cittadini mancanti e solo 3 salvi. Per la Norvegia i dati sono rispettivamente 8 e 5. Parigi parla di 2 francesi salvi, confermando una vittima (tra i morti anche un americano). Tra gli ostaggi liberati ci sarebbero 5 cittadini Usa, un irlandese e un austriaco. A conferma che i terroristi hanno comunque nelle loro mani degli americani sta la loro proposta per uno «scambio di prigionieri»: due ostaggi Usa in cambio di Omar Abdel Rahman, lo sceicco in carcere per il tentativo di attentato al World Trade Center nel 1993, e della scienziata pachistana Aafia Siddiqi, condannata nel 2010 per aver cercato di assassinare cittadini americani. La risposta da Washington non si è fatta attendere. «Gli Stati Uniti non trattano con i terroristi», replica il Dipartimento di Stato, in accordo con la politica di inflessibilità adottata dal governo di Algeri. A rincarare la dose c’è anche il segretario alla difesa Usa, Leon Panetta, che, dopo aver incontrato il premier britannico David Cameron a Londra, ha aggiunto: «Non daremo tregua ai terroristi di Al Qaeda in Algeria e in Nord Africa». Ma ciò non significa che a In Amenas il pericolo sia cessato. Tutt’altro: ad Algeri i giornalisti locali sottolineano che i combattimenti continuano. «Siamo preoccupati per gli ostaggi», ha dichiarato il segretario di Stato uscente, Hillary Clinton. A sottolineare l’emergenza sono stati istituiti aerei speciali per evacuare le migliaia di lavoratori stranieri da tutto il Paese.
L. Cr.

INTERVISTA A MOISI DI STEFANO MONTEFIORI (CDS)
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI — Professor Moïsi, non trova un po’ ironico che i valori della «guerra al terrorismo» proclamati un tempo dalla vituperata America di Bush siano difesi oggi dalla Francia di Hollande? E che sia Parigi, oggi, a chiedere aiuto militare a alleati riluttanti, proprio come a lungo è capitato a Washington?
«La storia sta cambiando. La Francia si trova in guerra da sola, in prima linea, per tre ragioni. La prima è che gli Stati Uniti non sono più quelli di una volta. Leading from behind, guidare ma un passo indietro, è la nuova dottrina dell’America, lo si è visto anche in Libia. Ma, vista da Parigi, c’è una differenza fondamentale tra Iraq 2003 e Mali 2013: quella fu una guerra per scelta, questa è per necessità. A Bagdad non esistevano armi di distruzioni di massa; a Timbuctù i terroristi ci sono davvero». Il politologo francese Dominique Moïsi dice di comprendere le ragioni dell’intervento di Hollande. «Ma, come si è visto subito, basta guardare all’Algeria, è una mossa carica di rischi».
Per quali altre ragioni la Francia è sola?
«Oltre al basso profilo degli Stati Uniti, c’è quello dell’Europa. In materia di sicurezza e difesa l’Ue è ancora meno presente che in passato. Nessuno vuole aiutare la Francia, e il caso più spettacolare è la Germania».
Un nuovo colpo all’asse franco-tedesco?
«E proprio nei giorni in cui celebriamo il 50° anniversario del Trattato dell’Eliseo che ne è all’origine. In realtà oggi assistiamo all’insensato divorzio tra Francia e Germania».
E il terzo motivo dell’isolamento della Francia?
«L’Africa non è ancora quel che vorremmo, cioè un continente in grado di fronteggiare da solo il pericolo terrorista. La forza africana non sarebbe stata pronta prima di settembre. Per questo la Francia ha agito subito, da sola».
Non c’è anche un silenzioso cambiamento ideologico? E’ una paradossale vittoria in Europa della visione neocon, come dice furibondo l’ex premier Villepin?
«Non andrei così lontano, l’intervento francese è basato sul principio di realtà. Già in Afghanistan, e dal 2001, Parigi conduceva la guerra al terrorismo di cui oggi parla Hollande. A Kabul si trattava di combattere uno Stato terrorista; ora la Francia cerca di impedire che ne nasca un altro, in Mali, alle porte di casa».
Non contano anche ragioni economiche? Petrolio, gas, uranio?
«Io penso di no. E’ una mentalità diffusa, ci si sente smaliziati a denunciare inconfessabili ragioni nascoste. La Francia non combatte in Mali per l’uranio, ma neanche per vaghe ragioni ideali: la necessità di stroncare sul nascere uno Stato terrorista che potrebbe minacciare l’Europa è una motivazione sufficiente e molto concreta».
L’opinione pubblica europea e gli intellettuali anti-guerra per il momento non si mobilitano. C’è un pregiudizio favorevole a Hollande perché francese, e di sinistra?
«In Francia, l’opinione pubblica è dietro Hollande oggi. Vedremo domani se ci sono molte perdite o attentati in patria. Gli europei non protestano, ma neanche chiedono ai loro governi più decisione nel sostenere un’azione a difesa di tutti».
Ma se fossero stati gli Stati Uniti a intervenire in Mali? Non si sarebbe già gridato all’assalto imperialista?
«E’ una vecchia storia. La Francia suscita meno impressione, è un Paese più debole. Un suo intervento è percepito come più accettabile. Se l’opinione pubblica europea è indulgente, non credo lo saranno i fondamentalisti islamici. La Francia oggi rischia di soppiantare gli Stati Uniti nel ruolo di Grande Satana».
Ieri Lione, la seconda metropoli francese, è rimasta paralizzata per ore, il metro bloccato per un allarme bomba.
«Inviando gli aerei e le truppe in Mali la Francia ha deciso di correre dei rischi. Bisogna prepararsi a una certa "israelizzazione" della nostra vita quotidiana».
Stefano Montefiori

BERSANI E VENDOLA DIVISI
ROMA — Il governo dovrebbe riferire ufficialmente martedì prossimo alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato in che cosa consisterà il «supporto logistico» all’offensiva francese contro i guerriglieri fondamentalisti islamici in Mali, annunciato mercoledì scorso dal titolare della Farnesina Giulio Terzi. Il decreto di finanziamento sulle missioni all’estero che sarà esaminato a Montecitorio in aula il 22 gennaio prevede già la spesa di 1.900.524 euro «per la partecipazione di personale militare» alla missione dell’Ue «Eucap Sahel-Niger» e «alle iniziative dell’Unione europea in Mali». Da lì potrà venire l’autorizzazione a mandare un massimo di 24 istruttori per le forze armate maliane, ma anche altro servirebbe per realizzare il proposito di aiutare Parigi e gli Stati africani autorizzati dall’Onu a intervenire in Mali con aerei da trasporto C130-J, C-271 e con Boeing 767 capaci di rifornire in volo di carburante caccia amici. Un emendamento aggiuntivo? Un ordine del giorno? Entrambi? O strumenti ulteriori?
Dettagli per addetti ai lavori, se non ci fosse di mezzo una campagna elettorale. L’Italia rischia di sperimentare che la propria condizione di bagnomaria — governo in carica per gli affari correnti, legislatura in agonia e una guerra non troppo lontana da casa — può essere urticante dentro e fuori, in politica internazionale e interna.
Dalle informazioni arrivate al governo di Mario Monti risulta che i francesi si trovano davanti a nemici abili, da contrastare con un impegno militare di lungo periodo. Sarebbe formato da duemila uomini addestrati e ben armati il nocciolo duro dei combattenti di al Qaeda del Maghreb, Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, Movimento per l’unità e la Jihad nell’Africa occidentale e Ansar Dine. Intorno a loro, altri tre-quattromila guerriglieri. Ansar Dine è stato descritto da nostri alleati abile nel raggirare mezzo mondo negoziando con Stati africani per poi favorire, prima della reazione francese, l’espansione dei più radicali nel Mali del Nord.
Benché tutti oggi a Roma escludano invii di soldati, è ipotizzabile che nella prossima legislatura militari tolti via via dall’Afghanistan potrebbero servire in Africa.
Senza clamore, il governo ha in corso contatti con i partiti per capire quanto è in grado di fornire adesso a Parigi senza attirarsi troppi attacchi dalle forze politiche. Tra Partito democratico e Sinistra ecologia e libertà si vedono crepe. «Non possiamo lasciare sola la Francia», ha dichiarato il segretario del Pd Pierluigi Bersani. Ci sono «cinquemila chilometri di Sub-Sahara in instabilità» con «infiltrazioni di jihadisti e trafficanti di droga, ha aggiunto, e «bisogna fermare questa cosa». Nichi Vendola, Sel, ha definito invece «errore clamoroso» l’intervento francese.
Il Consiglio dei ministri ha ascoltato una relazione del ministro della Difesa Giampaolo Di Paola e comunicato di aver «condiviso» la linea dell’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri. Che cosa aveva detto Catherine Ashton? «La Francia non è sola (...) ha agito esattamente come doveva. (...) Un certo numero di Paesi ha informato che sarebbero pronti a sostenerla con tutti i mezzi». Come, per l’Italia, resta da vedere.
Maurizio Caprara

LORENZO CREMONESI SU CDS
È di lunga data la storia dell’inflessibilità delle autorità algerine nei confronti dell’eversione islamica. Le sue radici risalgono agli anni della guerra di liberazione contro i francesi. Ottenuta l’indipendenza nel 1962, i vecchi dirigenti del Fronte di Liberazione Nazionale avviarono una proficua collaborazione con i militari dell’ex nemico. Il nuovo socialismo autoritario di Houari Boumédiène con pragmatica spregiudicatezza facilitò i rapporti tra le sue unità dell’antiterrorismo e quelle francesi. «Con i terroristi non si tratta. Nessun cedimento a costo di mettere a repentaglio la vita dei civili», hanno metodicamente ripetuto da allora i responsabili della sicurezza nazionale. Slogan che divenne prassi quotidiana dopo il colpo di Stato militare del gennaio 1992 volto a impedire il secondo turno delle elezioni legislative, dove era data per scontato il trionfo dei partiti religiosi legati al Fronte Islamico di Salvezza (Fis). Poi sino almeno alla fine del 1997 fu guerra civile senza esclusione di colpi. Gli estremisti musulmani del Gia (il Gruppo Islamico Armato) lanciarono una lunga serie di gravissimi attentati. I loro prigionieri venivano metodicamente sgozzati. I militari risposero per le rime arrestando e facendo sparire le loro vittime (si calcolano almeno 15.000 desaparecidos). La peggiori torture furono adottate su larga scala. Si affinò la tecnica dei massacri di civili imputandoli poi agli islamici per ingraziarsi la popolazione. Mohammed Samraoui, ex numero due dell’antiterrorismo, in un libro del 2003 («Cronache di un anno di sangue») citava una frase che usava ripetere il suo capo diretto, Smail Lamari: «Sono pronto ad eliminare tre milioni di algerini pur di mantenere la legge e l’ordine». In pochi anni il numero dei morti sfiorò quota 200.000. Ma il regime è rimasto al suo posto.

RENZO GUOLO SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
L’AFRICA profonda e le sue enormi risorse naturali sono la nuova posta del
great game
jihadista. Per vincerlo i qaedisti devono penetrare tra i subsahariani: come già hanno fatto con i nigeriani di Boko Haram, ideologizzati da anni di predicazione del wahhabismo radicale. E la
Black Al Qaeda,
un’organizzazione non più di soli arabi, è il presupposto perché il fronte del Sahara non si arresti sulle immense sponde del mare di sabbia che si infrange dove inizia l’Africa nera.
L’attacco alla raffineria di In
Amenas per mano di un gruppo legato a Moktar Belmoktar, sino a qualche mese fa emiro della brigata di Al Qaeda nel Maghreb Islamico che opera nell’area sahariana, va letta anche in questo quadro. Belmoktar è stato allontanato dall’Aqmi dopo un duro scontro con il leader dell’organizzazione, l’emiro Droukdel e con l’altro comandante del fronte sahariano Abu Zayd. Il “ guercio”, così chiamato dopo aver perso giovanissimo un occhio in combattimento in Afghanistan, si è mostrato sin troppo autonomo: anche per una struttura a rete come quella qaedista. Belmoktar si è dedicato alla caccia al “
walking money”,
turisti, cooperanti, giornalisti, occidentali sequestrati e liberati dopo il pagamento
di lauti riscatti. Ma non ha tralasciato il contrabbando di sigarette o, recentemente, il più redditizio traffico di stupefacenti provenienti dal Sudamerica e destinati al mercato europeo. Una deriva criminogena, non troppo gradita ai duri e puri dell’Aqmi, che ha ulteriormente accentuato i contrasti con la leadership dell’Aqmi.
Un dissidio che ha anche una radice maliana. Una volta penetrato in Mali il signore della guerra del Sahel ha cercato di radicare la presenza dei suoi uomini, in un contesto in cui le solidarietà tribali sono essenziali per garantire assistenza e sicurezza, attraverso una politica di matrimoni con tuareg e arabi. Egli stesso ha quattro mogli di diversa etnia.
Insediatosi a Gao dopo la conquista del Nord, Belmoktar ha stabilito rapporti preferenziali con il Movimento per l’Unicità e il Jihad in Africa Occidentale, a sua volta prodotto di una precedente dissidenza dall’Aqmi. Il Mujao, fondato dal mauritano Hamada Kheirou, recluta già molti militanti non arabi e non disdegna a sua volta sequestri di
occidentali e traffici illeciti. L’Aqmi ha, invece, preferito tenere rapporti con i tuareg islamisti di Ansar Eddine, pur nutrendo dubbi sulle convinzioni del suo ambiguo leader Ag Ghali.
Dopo la rottura con l’Aqmi, la katiba dei “Molulethenin” fondata da Belmoktar aveva bisogno di legittimazione nella galassia qaedista. Con l’attacco al campo di idrocarburi, ha realizzato più obiettivi. Ha colpito l’Algeria che ha concesso lo spazio aereo ai francesi per trasportare truppe in Mali e lo scorso anno aveva attaccato l’alleato Mujao che aveva sequestrato il console algerino a Gao; ha anticipato possibili azioni dell’Aqmi contro
l’intervento francese proponendosi come avanguardia del jihad antioccidentale; ha mostrato al mondo come il fronte della Sahara sia divenuto, al pari del teatro afghano-pachistano, scenario strategico per la jihad. Insomma, Belmokhtar si è proposto come leader di un gruppo con il quale la stessa Al Qaeda dovrà fare i conti. Lo scenario maliano è, dunque, strettamente connesso con quello algerino, oltre che con quello libico. Ma il progetto è ancora più ambizioso. Guarda verso sud, alla Nigeria e al Niger. E vede nell’espansione oltre le dune, l’agognata conquista di una massa critica capace di mutare i rapporti di forza nel continente.

ZUCCONI SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
WASHINGTON
— Benvenuta come un attacco di appendicite il giorno del matrimonio, la nuova micro guerra nel Mali piomba sul “Te Deum” laico di Barack Obama. Risolleva un incubo che da quattro anni il presidente cerca invano di esorcizzare: la guerra al terrorismo islamico e gli interventi americani nel mondo distante per annientarlo. La decisione di rendere pubblico il sostegno logistico, in realtà già in atto, all’operazione di guerra lanciata da Parigi contro le bande organizzate da Al Qaeda nel Maghreb è dolorosa non soltanto per tutti i dubbi strategici e i rischi materiali che ogni spedizione del genere solleva. Più ancora, riporta alla realtà un’America che dopo il ritiro dall’Iraq e la smobilitazione in atto dall’Afghanistan vorrebbe tornare a ignorare questi mondi torbidi e violenti, per ripiegare, come lo stesso Obama aveva ripetuto in campagna elettorale, sulla «ricostruzione degli Stati Uniti» piuttosto che sulla «costruzione di nazioni lontane».
Il coinvolgimento degli Usa in uno scontro che vede in campo aperto mille e 400 soldati francesi e bande irregolari ma bene armate con i resti degli arsenali libici, di predoni, fanatici, mercenari, professionisti dei rapimenti, terroristi, che intreccia fanatismo
e interessi, giacimenti di gas e ostaggi anche americani, è avvenuto secondo i dettami della “Dottrina Obama”. È quella che i critici hanno soprannominato sprezzatamente il «condurre da dietro» e Leon Panetta, il segretario alla Difesa ancora per pochi giorni, preferisce descrivere come «poche e mirate azioni di sostegno con forze
speciali», mai da soli e con l’avallo della comunità internazionale. Ma dietro la prudente «dottrina», gli interventi armati degli Stati Uniti nella guerra continua e a bassa intensità sono continuati durante il regno di Obama. I droni, gli aerei robot, hanno intensificato i bombardamenti in Pakistan colpendo insieme obiettivi legittimi come campi e quadri militari dei Taliban e vittime innocenti, con ovvie ricadute negative sulla guerra psicologica e propagandistica. L’intervento in Libia, sia quello scoperto, con navi, aerei, elicotteri, come quello coperto,
di squadre speciali e borse di dollari ai capibanda, manovrate dalla Cia per organizzare la rivolta e rovesciare il Rais, sta ancora trascinando i postumi e le ricadute, con le inchieste aperte dal Parlamento sul massacro di americani a Bengasi.
E ora si riaccende con la scoperta che l’arsenale dei terroristi e dei banditi che
controllano il Mali settentrionale, confinante con la Libia (non è vero - ndr), era quello di Gheddafi. Per complicare il quadro, se nessuno può ragionevolmente schierarsi con gli irregolari di Aqim, che stanno replicando in quella regione e nella leggendaria Timbuctu gli orrori e le nefandezze perpetrati dai Taliban in Afghanistan.
La micro guerra in questo immenso scatolone di sabbia con una superficie quattro volte l’Italia nata dalla necessità di non lasciare la Francia, con gli altri alleati Nato a sprofondare in duello militare proprio alle porte dell’Algeria teatro del primo “Eurovietnam” è esattamente una di quelle spine africane nella zampa delle quali il Re leone, il presidente Obama, non aveva bisogno. Non soltanto per l’ombra che getta sulla sua festa dell’insediamento, ma per i nuovi conflitti interni e politici che aggiunge a quello cruciale sul debito pubblico.
Riapre tutto il dossier libico, mai davvero chiuso nonostante la morte di Gheddafi. Risolleva tutti i dubbi su quella primavera araba che Washington ha entusiasticamente sostenuto, ma che sta producendo anche molti frutti avvelenati. Ripropone la ben più grave questione siriana, con la domanda sul perché Washington sia pronta a intervenire in Mali per ragioni umanitarie e di bonifica antiterrorismo, ma lasci che Assad
e i ribelli, anche loro sostenuti dal fondamentalismo, si massacrino reciprocamente e impunemente.
Una delle accuse più agitate dagli avversari di Obama fu la sua scarsa qualità di leader e il suo esitante decisionismo, giustificati con il rifiuto di condurre campagne militari unilaterali e di buttarsi in avventure, preferendo seguire piuttosto che guidare e affidarsi ai telecomandi dei droni anziché agli stivali del soldati sul terreno. Il Mali non diventerà un nuovo Vietnam e neppure un nuovo Iraq, perché il terreno, il deserto, le difficoltà logistiche, rendono impensabili spedizioni in forza di truppe che andrebbero rifornite, come in tutte le operazioni nei deserti, di ogni necessità elementare.
«Per ora», dice Leon Panetta, niente stivali americani in questa sabbia. Ma anche per questa microguerra, che da ieri ha il suo primo morto americano (almeno uno degli ostaggi uccisi nell’impianto di gas in Algeria sarebbe statunitense) valgono le stesse domande che il generale Colin Powell, reduce del Vietnam, pose, prima di acconsentire alla prima Guerra nel Golfo del 90/91: «Qual è il nostro obiettivo? Come definiamo la vittoria? Come ne usciamo?». Facile sempre lanciare spedizioni. Difficilissimo districarsi.

MARTINOTTI SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI
— Un centinaio di ostaggi stranieri liberati insieme a circa 547 algerini, una trentina di stranieri dati per dispersi, sette in mano ai terroristi che ancora si nascondono nell’impianto di In Amenas. La confusione sulle circostanze dell’assalto dato l’altroieri dall’esercito algerino non è stata dissipata, il regime filtra tutte le notizie, tanto da far apparire in tv solo ex ostaggi che fanno l’elogio dei soldati. Secondo un’agenzia di stampa mauritana, i terroristi chiedono la liberazione di due di loro, detenuti negli Stati Uniti: Aafia Siddiqui, la scienziata pachistana chiamata “Lady Al Qaeda” che tramava attentati negli Stati Uniti, e Omar Abdel-Rahman, lo “sceicco cieco” considerato l’ispiratore dell’attacco al World Trade Center del 1993. Una domanda subito respinta dall’amministrazione americana. Un integralista sarebbe stato catturato vivo e avrebbe rivelato che l’operazione sarebbe stata effettuata da un commando composto da 32 uomini. Ieri sera, l’agenzia ufficiale algerina
Aps
ha fornito nuove cifre: 12 ostaggi, algerini e
stranieri, avrebbero perso la vita dopo il blitz dell’esercito, mentre sette (3 belgi, 2 statunitensi, un giapponese e un britannico) sarebbero in mano ai terroristi ancora asserragliati nell’impianto della Bp. Diciotto fondamentalisti sarebbero stati uccisi.
I dettagli del blitz restano molto sfuocati. Gli scampati hanno parlato soprattutto dell’arrivo dei terroristi, mercoledì mattina: «È successo tutto all’improvviso. Abbiamo sentito delle esplosioni. Hanno fatto irruzione nelle sale, spaccavano le porte, dicevano di cercare solo gli stranieri, quando li trovavano li legavano». Alcuni si sono salvati per puro caso: un francese, per esempio, è riuscito a nascondersi sotto il letto, dove è rimasto per 40 ore: «Avevo un po’ di cibo, qualcosa da bere». Anche altri stranieri sono riusciti a nascondersi in tempo e sono usciti dai nascondigli solo dopo l’assalto dell’esercito. Quando le sirene di allarme sono entrate in funzione, molti hanno pensato a un’esercitazione, ma sono rimasti nelle loro stanze, seguendo le regole di sicurezza. «I terroristi avevano l’aria di conoscere molto bene la base. Hanno tagliato l’energia elettrica e bloccato la
produzione di gas». I terroristi avevano fra i 30 e 35 anni, quasi tutti maghrebini, secondo gli ostaggi liberati. Uno di loro parlava perfettamente inglese.
Gli interrogativi sul blitz restano insomma numerosi. David Cameron ha ripetuto ai Comuni che avrebbe voluto essere informato prima della scelta di dare l’assalto, ma al tempo stesso ha riconosciuto che gli algerini hanno dovuto agire con rapidità. Il governo nipponico ha convocato l’ambasciatore algerino per chiedere spiegazioni. Gli altri paesi sono stati cauti: l’assenso di Algeri alla guerra francese in Mali è considerato essenziale (ieri 200 simpatizzanti del fondamentalismo hanno manifestato nella capitale contro l’intervento militare transalpino).
In Mali, nel frattempo, le truppe francesi continuano ad andare avanti, affiancate dall’esercito maliano che ha ripreso il controllo di Konna. Resta invece in mano agli integralisti Diabali,. Il ministro degli Esteri Fabius arriva oggi ad Abidjan per assistere al vertice degli Stati dell’Africa occidentale, che devono fornire truppe alla forza multinazionale nel Mali.
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Hanno fatto irruzione nelle sale. Spaccavano le porte. Dicevano di cercare solo gli stranieri. Quando li trovavano li legavano
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Sono riuscito a nascondermi sotto il letto Sono rimasto rannicchiato lì per 40 ore. Avevo un po’ di cibo e qualcosa da bere

MASTROLILLI SULLA STAMPA
L’intelligence occidentale si aspettava da tempo un attacco terroristico come quello di In Amenas: poteva avvenire due mesi fa, o la settimana prossima, ma era in preparazione prima dell’intervento francese in Mali. Rientra nel tentativo che i vari gruppi locali del Maghreb stanno facendo, per sfruttare la crisi allo scopo di compiere un salto di qualità internazionale. Il rischio ora è che questi attentati colpiscano in Europa, grazie a cellule o individui autonomi, presenti legalmente sul territorio. Al momento, le priorità operative sono quattro. Nell’ordine: impedire ai jihadisti di prendere il Sud del Mali, costruire la coalizione militare che deve scacciarli, prevenire attentati, e pensare un programma di sviluppo economico e politico che riempia il vuoto, una volta disinnescata la miccia.

L’Algeria è il cuore del problema, perché molti dei potenziali eredi al trono di Osama bin Laden operano nel suo territorio. Dai tempi della prima affermazione politica del Fis, il governo locale ha scelto questa linea di contenimento che tollera la loro presenza, nella speranza di poterli controllare. Algeri infatti era scettica sull’intervento in Mali, perché considerava la crisi quasi come un problema interno, che poteva risolvere grazie alla propria influenza. La situazione, però, è sfuggita di mano.

Mokhtar Belmokhtar, considerato la mente dell’attacco ad Amenas, è solo uno dei tanti protagonisti di questa guerra. Nasce trafficante, persino contrabbandiere di sigarette, ma ora la jihad gli dà l’occasione per elevare il suo profilo, come offre l’elemento unificante a tutti i gruppi della zona, che altrimenti operano ognuno per sé. Così si spiega la richiesta di scambiare gli ostaggi con prigionieri detenuti negli Usa, tipo lo sceicco cieco Abdel Rahman e Aafia Siddiqui: un trafficante non condivide i profitti, perché sono la sua ragione di vita, ma usare la jihad costa poco per cementare le truppe e alzare il profilo.

L’azione lanciata dall’Algeria contro i rapitori è fuori da qualunque protocollo, e infatti non aveva informato nessuno in anticipo. Si calcola che nel complesso preso di mira dai terroristi ci fossero fino a mille persone: in una situazione del genere, con la potenzialità di un numero altissimo di «danni collaterali», nessun governo occidentale condurrebbe una simile operazione militare. L’Algeria l’ha fatto per due motivi: primo, chiarire ai jihadisti che ogni azione del genere riceverà una risposta finalizzata ad annientarli, ostaggi o no; secondo, dimostrare ai paesi occidentali che le previsioni del governo locale erano giuste, e rivendicare il diritto di gestire a modo suo tali crisi. Washington e Londra hanno protestato per la mancanza di informazioni, ma in maniera meno aperta di come avrebbero potuto fare, perché hanno bisogno dell’aiuto dell’Algeria in Mali e non possono permettersi di spaccare il fronte che deve combattere i terroristi.

Ora il problema è come procedere, a partire dal Mali. Le operazioni francesi servono solo a segnare il confine invalicabile per gli estremisti, evitando che prendano Bamako. La coalizione di paesi africani che poi dovrebbe respingerli, lanciando la vera offensiva di terra prevista inizialmente a settembre, è ancora sulla carta. Nelle prossime settimane si dovrà lavorare per capire chi partecipa, con quali forze, e in cambio di cosa. Prospettiva lunga, mesi di intervento. Gli americani restano incerti sul tipo di assistenza da fornire, perché usare ufficialmente i droni in collaborazione col governo golpista del Mali sarebbe legalmente complicato. Serve una soluzione originale, per dare alle forze sul campo l’indispensabile mappatura aerea dei target.

Nel frattempo bisogna prevenire altre Amenas, e questo è molto difficile, perché i gruppi capaci di colpire sono parecchi e frastagliati, e gli obiettivi potenziali sono molti, inclusi alcuni italiani. Quando attacchi queste formazioni, spesso si dividono, e poi ricompaiono altrove sotto altre sigle, leadership, basi geografiche. «Cellule tumorali», è come le descrivono gli operativi dell’antiterrorismo. Il pericolo è che qualcuna colpisca per procura, ispirazione, o franchising in Europa, dove vivono legalmente decine di potenziali sostenitori. I servizi sono in allerta da sempre su questo rischio, ora aumentato.

Sullo sfondo, poi, bisogna pensare anche al dopo. Se e quando l’operazione militare avrà successo, scacciando i jihadisti o riportandoli al precedente ruolo di predoni, servirà un processo politico ed economico che colmi il vuoto, evitando le ricadute.

LADY AL QAEDA SULLA STAMPA DI STAMANE
Conosciuta come «Lady di Bagram» o «Lady Al Qaeda» o ancora «Prigioniero 650», Aafia Siddiqui sconta a Fort Worth, in Texas, una condanna a 86 anni per terrorismo. Neuropsichiatra, ha studiato al Mit di Boston e ha sposato in seconde nozze una delle menti degli attacchi dell’11 settembre, Ammar al Baluchi. Nel 2003 viene arrestata in Afghanistan, con dell’esplosivo. Passa cinque anni nella prigione della base militare vicina a Kabul, Bagram. Per l’Fbi la donna era uno dei più pericolosi fiancheggiatori di Al Qaeda; secondo i familiari è stata torturata e incastrata da una falsa testimonianza. Il governo pachistano ne ha chiesto più volte l’estradizione e a Islamabad si svolgono periodicamente manifestazioni in suo favore.

LO SCEICCO CIECO SULLA STAMPA DI STAMATTINA
Lo sceicco egiziano Omar Abdel Rahman, 74 anni, sconta l’ergastolo negli Stati Uniti, ma gode di un sostegno amplissimo in Egitto e nel mondo arabo. Ne hanno chiesto il rilascio il leader di Al Qaeda Al Zawahiri, egiziano pure lui, ma anche, prima di essere eletto presidente, Mohammed Morsi. Va detto che Rahman, che ha perso la vista da bambino ed è conosciuto come lo «sceicco cieco», non ha compiuto atti di sangue in proprio. Durante il lungo e per certi versi inspiegabile soggiorno negli Usa all’inizio degli Anni 90, ha però esortato i suoi seguaci ad «affondare le navi, abbattere gli aerei, distruggere le banche» degli americani. Predicava in arabo e nessuno se n’è accorto. Fino all’attentato alle Torri Gemelle del 1993. È stato condannato nel ’96.

I FRANCESI AVANZANO E RIPRENDONO KONNA
L’esercito maliano, sostenuto e sospinto dai francesi che ormai nel Paese sono 1800, avanza nel Nord, strappando ai ribelli jihadisti Konna, considerata un caposaldo sulla strada per Bamako. Al momento tutta la zona è inaccessibile a giornalisti e fotografi. L’esercito maliano ha fatto sapere che «il nemico ha subito pesanti perdite» e i francesi hanno confermato: i jihadisti sembravano poter resistere a lungo, ma ieri mattina l’aviazione francese ha bombardato consentendo ai maliani di entrare in città. A Diabali invece, il cui controllo era finito nelle mani dei ribelli islamici, c’è ancora resistenza: i jihadisti si sarebbe «rasati, camuffati e confusi con la popolazione». Jean-Yves Le Drian, ministro della Difesa francese, ha parlato di un migliaio di terroristi a Diabali che sarebbero «i più duri, i più fanatici, i meglio organizzati».

RACCONTI DI TESTIMONI
Quaranta ore sotto il letto di camera sua, mentre gli jihadisti davano la caccia agli stranieri. Alexandre Berceaux, responsabile dei servizi di ristorazione della base, è uno dei francesi che si sono salvati grazie alla prontezza di spirito e all’aiuto dei colleghi algerini: liberi di muoversi, comunicavano con lui attraverso parole in codice. «Tutto è cominciato quando ho sentito dei colpi d’arma da fuoco - racconta in televisione ed è scattato l’allarme. Non sapevo se fosse una prova o no, ma la consegna in questi casi è di restare dove si è. E così ho fatto io. Mi sono nascosto sotto il letto, ho sistemato delle assi di legno intorno. Avevo qualcosa da mangiare e da bere e nessuna idea di quanto sarebbe durato. Tre inglesi si sono salvati nascondendosi nel sottotetto. Io sono rimasto lì per quasi 40 ore cercando di fare meno rumore possibile. Mi hanno salvato tre algerini in divisa verde, credo dei militari. Ma prima di venire fuori ho aspettato di sentire la voce dei miei colleghi».

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Stephen McFaul ce l’ha fatta. La moglie Angela ha ricevuto la telefonata per cui aveva pregato per due giorni interi di angoscia: «Sono libero, amore... sono libero». McFaul, 36 anni, manager irlandese di Belfast, veterano dei pozzi petroliferi del Kazakistan, l’ha scampata grazie a un classico mix di fortuna e prontezza. Gli avevano messo una collana di esplosivi intorno al collo e lo stavano portando via, allora sono arrivati gli algerini. Racconta il fratello Brian: «Era in un convoglio di cinque veicoli quando è cominciato l’attacco, la sua jeep è andata a sbattere». Stephen si è messo a correre ed è riuscito a scappare ai suoi sequestratori. Due giorni prima Stephen aveva mandato un Sms che diceva soltanto: «Mi hanno preso quelli di Al Qaeda». Durante la breve prigionia era riuscito a mandare altri Sms, persino a telefonare. «Li trattavano bene - racconta il fratello l’ultima telefonata - volevano farsi pubblicità, chiedevano che i soldati algerini se ne andassero dalla base».

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«Sin dall’inizio i terroristi ci hanno detto che non avrebbero torto un capello ai musulmani perché erano interessati solo ai cristiani e agli infedeli, ripetevano che li avrebbero uccisi» La storia a lieto fine dell’impiegato algerino 53enne Abdelkader, raccolta dalla Reuters, tranquillizza la moglie e i figli che l’hanno riabbracciato nella casa di In Amenas dopo la sua fuga dallo stabilimento di Tigantourine. Ma proietta ombre minacciose sulla sorte al momento ancora oscura degli altri ostaggi stranieri in mano agli islamisti. «Sono ancora sotto shock, posso solo dire che sono stato fortunato, temo che molti miei colleghi internazionali siano morti» continua. Alcuni analisti sostengono che l’azione fosse stata pianificata assai prima dell’intervento francese in Mali, ma Abdelkader sa solo che i rapitori avevano le idee chiare: «Sembrava che conoscessero bene l’edificio, si muovevano mostrando di sapere dove andare. Dicevano di volere che Hollande richiamasse le truppe dal Mali e l’Algeria smettesse di cooperare con Parigi».