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 2013  gennaio 19 Sabato calendario

I PUNTI OSCURI DI UNA CORSA A TAPPE SENZA TRAGUARDO

Il primo atto della confessione del cowboy con la passione per le vittorie facili non è piaciuto a nessuno, o quasi. Solo ad Aigle, sede in Svizzera dell’Unione ciclistica internazionale, sono soddisfatti: «Perché Armstrong ha confermato che non ci furono né collusione né complotto tra lui e l’Uci. Non ci sono stati controlli positivi camuffati e le sue donazioni erano destinate a sostenere la lotta al doping. E l’americano ha anche detto che oggi il ciclismo è uno sport completamente differente da quello di dieci anni fa».
Per il grande accusatore Travis Tygart, il capo dell’agenzia antidoping americana che ha incastrato Armstrong, quello di ieri è stato «un primo passo verso la giusta direzione. Finalmente Armstrong ha ammesso che la sua carriera si è basata su menzogne e doping. Se è sincero nel suo desiderio di rettificare gli errori del passato, testimonierà sotto giuramento e racconterà completamente il suo doping». Per la serie: grazie Lance, apprezziamo lo sforzo, ma puoi (e devi) fare molto di più. Perché tra cose non dette, risposte evasive e menzogne rivestite a nuovo, il caso Armstrong è tutto ancora da sviscerare. E chi meglio del diretto interessato, in cambio di una squalifica più mite e di un carcere evitato, può aiutare a fare chiarezza?
Il sistema creato da Armstrong («che non era aggressivo, anzi, e non era certo come quello dei Paesi dell’Europa dell’Est negli anni 80....») si appoggiava su due pilastri: quello tecnico manageriale, rappresentato dal belga Johan Bruyneel, e quello medico, incarnato dal dottor Mito, alias Schumi, alias Testarossa, Michele Ferrari. «Ci sono persone in questa storia — ha detto ieri Lance in riferimento al dottore sotto inchiesta a Padova — che hanno fatto degli errori ma non sono dei mostri. Io vedevo Ferrari come una brava persona e lo penso ancora». Ma era lui il capo e l’artefice del programma di doping come testimoniano gli ex compagni pentiti? «No. Ma a me non piace parlare di altra gente...» taglia corto il texano dagli occhi di ghiaccio.
Armstrong non era molto amato dai compagni. Che hanno ricambiato raccontando tutto sotto giuramento. Christian Vande Velde ha parlato di minacce di licenziamento per chi rifiutava il programma di doping. Lance smentisce, senza essere convincente: «Ero il leader e davo l’esempio. Ma non c’è mai stato un ordine diretto, eravamo tutti uomini e facevamo le nostre scelte. C’erano compagni di squadra che non si dopavano». Che però guarda caso non correvano mai il Tour con il boss: «C’era un livello di competitività da soddisfare. Volevamo ragazzi che fossero in grado di gareggiare a un certo livello. L’unica cosa che ci interessava era quella ma non è mai successo che io spingessi qualcuno a doparsi». La contraddizione anche in questo caso sembra evidente, ma qualche ammissione Armstrong la fa comunque: la positività a un corticoide durante il primo dei suoi Tour trionfali (1999) fu effettivamente cancellata grazie a un certificato medico comparso successivamente. Con l’Uci e i francesi osservatori distratti. L’episodio era stato raccontato agli investigatori dalla massaggiatrice irlandese Emma O’Reilly, vittima per anni delle minacce di Armstrong e soci: «Con lei mi devo scusare, l’abbiamo travolta e maltrattata. Ci sono persone con cui mi dovrò scusare per il resto della mia vita...».
Il caso più scottante è quello riguardante un’altra presunta positività finita nel cestino, quella all’Epo al Giro di Svizzera 2001. E soprattutto le «donazioni» successive (per un totale di 125mila dollari) fatte da Armstrong all’Uci: «È una storia falsa, Non ci fu alcun meeting segreto con il responsabile del laboratorio (che ha confermato l’incontro ndr) e l’Uci, di cui non sono un fan, non ha fatto sparire quel test. Le donazioni? Non erano un modo per ricambiare l’aiuto ricevuto. Mi avevano detto che non avevano molti soldi per la lotta al doping. Io li avevo e mi chiesero una donazione. Ma senza nulla in cambio...». Anche se poi il generoso Armstrong è tornato a gareggiare nel 2009 (terzo al Tour) e nel 2010. «In quegli anni non ero dopato, l’ultima volta fu nel 2005». Anche qui i documenti e i dati in possesso dell’agenzia antidoping americano (in questo caso del passaporto biologico, con alcuni valori ritenuti più che sospetti) raccontano un’altra verità. Quella di un dopato che l’ha sempre fatta franca. E ora è costretto a reinventarsi una nuova corsa a tappe, senza sapere qual è il traguardo.
p.tom.