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 2013  gennaio 19 Sabato calendario

L’OMICIDIO DI UN MARESCIALLO NELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA — C’è

un nuovo omicidio nella trama della trattativa fra Stato e mafia, avviata — secondo l’accusa — nella primavera del 1992 con l’assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima. È quello del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, ucciso la mattina del 4 aprile ’92 (vigilia di elezioni politiche), sulla strada tra Agrigento e Porto Empedocle. Il sottufficiale era un buon conoscente dell’allora ministro dc Calogero Mannino, e l’avrebbe messo in contatto con l’ex generale Antonio Subranni, all’epoca comandante del Ros; Mannino e Subranni sono oggi imputati nel processo sulla trattativa, e la morte di Guazzelli diventa, per la Procura, un elemento in più per sostenere la loro responsabilità.
Quel delitto venne spiegato come un tentativo mafioso di bloccare le indagini dell’Arma sugli appalti, ma ora i pubblici ministeri ritengono che fu un avvertimento per Mannino, che proprio a Guazzelli aveva confidato di sentirsi in pericolo dopo l’omicidio Lima. E ieri hanno inviato al giudice Morosini — che deve decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per l’ex ministro, l’ex generale e altri nove imputati — nuovi atti che sosterrebbero questa interpretazione.
Innanzitutto la rivendicazione di quel delitto, mai presa sul serio prima d’ora. È una telefonata alla sede dell’agenzia Ansa di Bari, alle 11.25 del 5 aprile ’92: «La Falange Armata si assume la paternità politica e la responsabilità morale dell’azione condotta ieri in Sicilia contro il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli». La sigla Falange Armata è sempre rimasta misteriosa, ha costellato decine di rivendicazioni e avvertimenti in quella stagione di sconvolgimenti politici e criminali che ha segnato il passaggio dalla cosiddetta Prima Repubblica alla seconda. Compresa la strage di Capaci e quelle del 1993. Attribuite a Cosa nostra, ma sempre sospettate di altre complicità e adesso inserite nella complessa vicenda della «trattativa», dove compaiono apparati e rappresentanti delle istituzioni.
Secondo i pm è molto rilevante, nella nuova lettura del delitto Guazzelli, anche un’altra telefonata arrivata alla stessa redazione barese dell’Ansa due giorni prima dell’agguato, il 2 aprile. «È la Falange Armata» disse la voce anonima prima di leggere un comunicato in cui si affermava che «l’attuale momento di tregua è figlio necessario di una convenzione strategica unitaria e di un compromesso politico a termine», promettendo una «legittima rappresaglia» da eseguire «al momento propizio». Quarantottore dopo venne assassinato il maresciallo Guazzelli e nella rivendicazione del 5 aprile il sedicente «falangista» spiegò che l’omicidio era stato fatto per «tenere fede all’annuncio fatto in margine al comunicato qualche giorno fa a questa stessa sede».
Dunque ci sarebbe consequenzialità tra le due telefonate, inframmezzate dal delitto e da un altro avvenimento: la visita di Guazzelli a Subranni, per la quale il maresciallo si recò appositamente a Roma, alla vigilia della sua morte. E tra le carte trasmesse al giudice c’è pure un verbale del figlio di Guazzelli, reso nel dicembre ’92, in cui il ragazzo dava conto del «rapporto molto intenso» tra il generale e il sottufficiale, specificando che suo padre aveva rinviato di qualche giorno la missione romana proprio per «far coincidere quel viaggio con un incontro con Subranni».
Secondo l’accusa in quell’occasione Guazzelli avrebbe rivelato (o ribadito) al generale i timori di Mannino, all’indomani dell’eliminazione del vecchio referente politico Salvo Lima, di essere la vittima designata successiva. Subito dopo la mafia uccise il maresciallo per rafforzare l’intimidazione agli esponenti democristiani siciliani più potenti dell’epoca; di lì la richiesta di Mannino al Ros «di acquisire informazioni da uomini collegati a Cosa nostra e aprire la trattativa con i vertici dell’organizzazione mafiosa, finalizzata a sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra per far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista già avviata», come recita il capo d’accusa. Fu allora che i carabinieri cercarono i contatti con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il corleonese con il quale cominciò la ricerca del presunto «patto scellerato».
Giovanni Bianconi