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 2013  gennaio 18 Venerdì calendario

CON ROBOT UMANOIDI, NANOMATERIALI E UN PARCO TECNOLOGICO GENOVA CHIAMA A RACCOLTA I RICERCATORI PER DIVENTARE LA CITTÀ DELL’HIGH TECH

CON ROBOT UMANOIDI, NANOMATERIALI E UN PARCO TECNOLOGICO GENOVA CHIAMA A RACCOLTA I RICERCATORI PER DIVENTARE LA CITTÀ DELL’HIGH TECH –
«A un certo punto della mia ricerca, mi serviva l’aiuto di un paio di ingegneri esperti di applicazioni che non conoscevo. M’è bastato salire al piano di sopra per trovarli e risolvere il problema». Tommaso Fellin («Trentino, anche se il cognome sembra veneto») è un biofisico di 38 anni. Ha studiato a Padova, poi se n’è andato a Philadelphia. Cervello in fuga. Da due anni, però, è rientrato qui, all’Istituto italiano di tecnologia di Genova: porta avanti un progetto per nuove forme di microscopia per lo studio dell’attività delle cellule nel sistema nervoso centrale. «L’Iit ha una marcia in più anche per questo, e non solo per l’Italia: siamo 800 scienziati (in tutto, il personale conta 1100 persone, ndr), di discipline diverse, dalle nanotecnologie alla robotica. In ogni momento puoi confrontarti e collaborare con competenze importanti d’ogni genere». «E ci incontriamo al bar, oppure sul bus navetta – sembra di essere a scuola – che ci porta qui tutti i giorni» (perché di quelli di linea, in zona, non c’è ancora traccia, ma questo è un altro problema, ndr…), aggiunge, accanto a lui, Hanako Tsushima, 33 anni, giapponese di nascita, un ottimo italiano d’adozione: «Ho studiato a Singapore, Milano e Londra. A Genova ora lavoro a un progetto di neuroscienze sull’Alzheimer».
Interdisciplinarità. Chi lo direbbe mai, guardando il blocco grigio dell’Istituto sulla collina di Morego, zona Bolzaneto, alle spalle del centro città. Era la sede dell’intendenza di Finanza, raccoglieva i 740 degli italiani: ed è proprio questo ciò che sembra, ancora, da lontano. Invece, da sette anni, è una delle carte che proiettano il capoluogo ligure nel futuro. E risponde, più in generale, a due parole che difficilmente accosteremmo all’immagine da cartolina della città: Alta Tecnologia. È l’altra Genova, quella di cui non si parla nelle canzoni di De André. Che non c’entra molto con le storie che si incrociano tra porti e sottopassaggi. Ma è una vocazione non nuova, tutt’altro che velleitaria ripresa dal Festival della Scienza che si tiene ogni anno, in autunno. Qui c’era la storica Marconi e qui ci sono stati i grandi insediamenti delle partecipazioni statali con la tecnologia (una volta) fiore all’occhiello di Finmeccanica e Ansaldo. E oggi, a Genova, non c’è solo l’Iit. L’industria dell’high tech cresce in ricavi (a quota 14 miliardi di euro, con un incremento del 6% circa nel 2012, dopo il già ottimo +2,2 del 2011) e in addetti (14mila) in tutta la città. «Una volta i genovesi che si imbarcavano avevano diritto al mugugno, pagando un obolo. Ma non è più il momento di lamentele e sono ottimista sulle possibilità della città», racconta Carlo Castellano, una delle figure storiche della città, presidente di Esaote (fra i principali produttori mondiali di sistemi diagnostici medicali) e del consorzo Dixet, una sorta di club che riunisce 150 aziende del settore. Gli occhi sono puntati su un altro progetto ambizioso che potrebbe essere la scintilla per alimentare questo caos creativo: il Parco Tecnologico agli Erzelli, una collina a pochi minuti d’auto da qui. La stampa locale ne parla spesso, e spesso con toni polemici (in questi giorni è esploso anche un bubbone tangenti sulla costruzione del polo). Ma dopo tante parole ci sono alcuni fatti. Ericsson è stata pioniere insediando i suoi uffici qui dal 2012. Ci lavorano circa 900 persone, molti sono ex dipendenti Marconi che l’azienda ha rilevato anni addietro – anche se c’è stato un piano nazionale di esuberi che qui ha riguardato il 10% della forza lavoro. E ora è già previsto l’arrivo di Siemens, Esaote, Ipa ed Elemaster. In molti iniziano a credere dunque che la previsione di Dixet di un incremento di fatturato del settore del 48% entro il 2021 – battezzato progetto “Genova 2021” da Castellano – potrebbe uscire dalla carta ed entrare sul mercato.

Una città di 5 piani. Intanto basta già camminare nei lunghissimi corridoi dell’Iit, salendo dai laboratori sotterranei, dove si fanno i test in atmosfera controllata, ai piani superiori tra robotica e nanoscienze, per capire perché l’Istituto sia considerato una delle punte di diamante di questa sfida genovese. C’è il post-doc torinese Jody Saglia che ti spiega come ha messo a punto una macchina per la riabilitazione delle caviglie fratturate, con cui i fisioterapisti possono “manipolare” contemporaneamente più pazienti (e valutarne i progressi secondo criteri scientifici). Ci sono i ricercatori dei cosiddetti smart materials, che lavorano – per esempio – sulla retina artificiale biocompatibile “accesa” dalla luce (pubblicata sulla rivista Nature Communications). «Al piano dei nanomateriali si sfornano carta con proprietà idrorepellenti e antibatteriche, e “spugne” trattate in modo da assorbire olii (e petroli) che su larga scala potrebbero ripulire i mari inquinati dai pozzi, come il Golfo del Messico», continua il direttore scientifico, e motore operativo dell’Istituto da sette anni, Roberto Cingolani. «Nel reparto di farmacologia, dove vengono sviluppate medicine innovative, c’è chi sta creando metodi intelligenti di drug delivery, basati sull’utilizzo di particelle estremamente piccole che viaggiano nel sangue e sono modificate per riconoscere le cellule malate e scaricargli addosso il chemioterapico o l’antinfiammatorio». Per non dire, poi, dei laboratori più spettacolari, in cui i robot umanoidi cominciano – novelli Pinocchio – a muovere le gambette e a “sentire” i pizzicotti, diventando ogni giorno più evoluti sotto la guida del sardo – da 20 anni a Genova, dove insegna nell’ateneo – Giorgio Metta.
Italiani eccellenti. «Come il direttore del dipartimento di nanochimica: si chiama Liberato Manna, e a 40 anni è tra i primi 25 migliori chimici del mondo per l’impatto delle loro pubblicazioni secondo Web of Science, davanti a diversi premi Nobel. Ma fin dall’inizio, abbiamo preso anche scienziati stranieri da strutture importanti, da Harvard, da Parigi», spiega Cingolani, un lombardo-marchigiano diplomato in fisica alla Scuola Normale di Pisa, che a sua volta è passato da esperienze super come quella al Max Planck Institute di Stoccarda. «Anche per questo, oggi, il 40% dei nostri ricercatori, con un’età media di 33 anni e mezzo, o è straniero – e ne arrivano perfino dal Vietnam – o è fatto di italiani che tornano dall’estero per lavorare all’Iit».
L’hanno chiamato “Mit italiano”. «I paragoni contano relativamente. Intanto l’istituto di Cambridge è un ateneo, mentre la nostra è una fondazione non profit con finalità di ricerca. Però certo, ci siamo ispirati agli stessi criteri di qualità altissimi. Anche perché gli scienziati stranieri, come i calciatori, che vogliono giocare in squadre iscritte alla Champions, sono attratti solo da ambienti internazionali popolati da top player. Lo stipendio viene dopo, per loro». Allora ha un suo peso, per esempio, che a Humanoids2012, a novembre, in casa dei giapponesi, dei quattro premi in palio, due li abbia presi l’Iit. «Quando mettiamo l’inserzione per un’application sulle riviste scientifiche, riceviamo 80-90 richieste di persone che vogliono venire a Genova». Per la città, il valore è doppio: dei 150 nuovi dottorati che il turnover porta all’Iit ogni anno, un’ottantina vengono presi dall’ateneo locale.

Incubatore di start-up. Sempre più importante, poi, è la voce technology transfer. «Abbiamo registrato più di 150 brevetti, i rapporti con l’industria crescono in maniera costante anche in un periodo difficile come questo», interviene Salvatore Majorana, responsabile del Trasferimento tecnologico, ingegnere catanese 41enne, passato, prima di approdare in Liguria, da Berkeley, da esperienze nel venture capital e corsi all’Insead – tra Fontainebleau e Singapore. «Il fatto è che nella Silicon Valley, se cerchi potenziali investitori, è possibile fissare tranquillamente 20 incontri al giorno. In Italia, per un appuntamento un giovane potrebbe aspettare dei mesi. Così noi raccogliamo le idee per eventuali start-up, valutiamo il progetto, facciamo con i ricercatori il business plan, mentre cerchiamo di intercettare l’interesse del mercato. Organizziamo incontri più ampi diverse volte l’anno: a febbraio, verranno le aziende emiliane, da quelle manifatturiere a quelle che si occupano di auto sportive e di meccanica di precisione». Così dall’Istituto italiano di tecnologia partono anche start-up, sempre più volano dell’economia in ogni Paese. «E quando decollerà il polo tecnologico agli Erzelli, potremmo pensare di incubarle proprio là», conclude Cingolani, chiudendo il cerchio.
Già, perché in fondo, l’Iit è una realtà. Ma per una Genova High Tech a 360°, proprio l’investimento nel nuovo progetto sulla collina degli Erzelli, che è tutta un cantiere (era una zona abbandonata) per raccogliere una parte importante delle aziende ad alto tasso d’innovazione, rappresenta l’altro pilastro. «È una storia lunga, che nasce anni fa da un’idea giusta, da parte di alcuni imprenditori liguri che volevano creare un parco scientifico-tecnologico, ispirandosi a esempi come Sophia Antipolis (tra Nizza e Cannes, ndr)», ricorda Federico Golla, amministratore delegato di Siemens, azienda che sta per fare una scommessa importante nella collina. «Entro Natale, le 850 persone sparse nelle nostre varie sedi cittadine saranno riunite in una palazzina che sta per essere terminata, con un investimento di 20 milioni di euro e affitto ventennale».

Software intelligenti. Investimento immobiliare quindi, con relativo risparmio. «Se è per quello, c’è anche un risvolto importante dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, perché agli Erzelli introdurremo il concetto di e-work, che tiene conto della quota di dipendenti presenti in media, e di conseguenza riduce le scrivanie, aumenta gli spazi comuni, le aree riunioni, il verde. E valorizza l’effetto sinergico di condivisione dello spazio». Un’idea che riverbera anche più in generale. «L’aspetto interessante del Parco, in effetti, sta nell’andare a far parte tutti di una comunità scientifica e tecnologica. Lo vedo come un incubatore, con l’università da un lato, che sarebbe importante avere qui, la filiera delle aziende dall’altro, e la reciproca fertilizzazione delle idee».
E Siemens, di idee, ne metterà. «Qui a Genova c’è l’headquarter mondiale dei software intelligenti per la gestione dei processi produttivi della multinazionale tedesca», spiega Maria Giuseppina Uccelli – «Giuppa», precisa lei stessa, 46 anni, che della divisione Sw Mes di Siemens dirige il gruppo di Ricerca & Sviluppo: 450 persone, «per il 30% donne», precisa – giustamente – orgogliosa, «aspetto per cui siamo termine di paragone per tutto il gruppo». Siemens qui in pratica mette a punto i software che servono alle aziende per decidere al meglio, in tempo reale, dove-come-cosa produrre di volta in volta fra i vari impianti nel mondo. «I nostri interlocutori sono Microsoft, Oracle, Rolls Royce per i motori degli aerei», dice Giuppa, che nell’organizzazione interna è già nel futuro, con la divisione agile, così la chiamano in gergo, dei suoi sviluppatori divisi in team da 10 sempre più autonomi. «Gli Erzelli sono un’occasione vera per la città», conclude, con il cuore genovese.

Il nodo degli ingegneri. La palla, ora, è sul piede del rettore dell’Università di Genova, Giacomo Deferrari. L’ingrediente della facoltà di ingegneria, qui agli Erzelli, è giustamente visto come necessario. Nel corso del 2012, dopo il consiglio dell’ateneo di luglio, la questione sembrava irrealizzabile. Le malelingue dicono che i professori non volessero abbandonare gli agi del centro città, ma ora gli animi si sono rasserenati. «Il trasferimento di ingegneria a Erzelli», ci racconta Deferrari, «è un’opportunità non solo per l’ateneo genovese ma per tutta la città. Consapevoli di questo abbiamo sempre cercato di creare le condizioni perché ciò avvenisse. Per far sì che l’insediamento di ingegneria al Parco Scientifico e Tecnologico contribuisca alla crescita dell’Università di Genova si devono realizzare alcuni presupposti: certezza dei finanziamenti, per non mettere in pericolo il bilancio dell’ateneo – anche e soprattutto in un momento di crisi economica – e condizioni logistiche per garantire agli studenti un sistema di trasporto integrato ed efficiente. Su questi punti stiamo lavorando per perseguire l’obiettivo».
La questione logistica non è banale. Le aziende si attrezzeranno con bus privati. Ma gli studenti? L’ateneo sta trattando con il Polo e con le istituzioni, ma la sensazione è che ci siamo. Alla finestra ci sono anche il Cnr di Genova, altro ufficio storico che starebbe aspettando solo il trasferimento dell’università per seguirne i passi. E, appunto, l’Iit che sarebbe spinto a presidiare in qualche forma la nuova fucina di cervelli.
Sullo sfondo di questi movimenti c’è un cambio di pelle non indifferente dell’anima imprenditoriale della città. «Sicuramente Genova ha ricevuto moltissimo dallo Stato italiano perché le partecipazioni statali hanno permesso di diffondere la cultura della tecnologia e anche le competenze provengono da quelle aziende», ragiona Davide Malacalza, rappresentante della storica famiglia che, partendo dall’acciaio, già da 10 anni ha spostato i propri interessi nel campo dell’innovazione riprendendo in mano il fil rouge che la città rischiava di perdere. «Il punto è che adesso l’imprenditoria locale deve muoversi da sola e la città deve dimostrare che i suoi imprenditori possono creare la città del futuro. Con gli asiatici possiamo competere solo se siamo un passo avanti». Oggi i Malacalza, con le proprie realtà imprenditoriali – dalla Asg Superconductors, che progetta e realizza magneti convenzionali e superconduttori per la ricerca nella fisica delle alte energie e per la fusione termonucleare, alla Columbus Superconductors, una delle poche al mondo in grado di produrre un cavo superconduttivo ad alta temperatura realizzato con un nuovo materiale superconduttore, il diboruro di magnesio, MgB2 – hanno abbandonato l’industria pesante, anche se queste aziende non producono solo software e hanno bisogno di ampi spazi, ragione per cui non è previsto nessuno spostamento agli Erzelli. È un high tech applicato alla grossa manifattura. Il gruppo sta collaborando con il Cern di Ginevra al progetto internazionale di fusione termonucleare Iter, che coinvolge tutti gli Stati del mondo. «Stanno arrivando dei risultati importanti anche se ci vorrà un po’ di tempo. Ma ci sono segnali che abbiamo buone chance».
Altro punto a favore della città è l’attrazione di competenze dall’estero: la tecnologia è un argomento sexy, riesce ad attrarre grandi manager. In Asg c’è l’ex amministratore delegato di Siemens Italia, Vincenzo Giori. Genovese di nascita, ha lavorato in giro per il mondo e la famiglia, comunque, vive a Milano. Mentre Gianni Grasso, il fondatore di Columbus, veniva da Ginevra e dopo 10 anni si sta trasformando in un vero manager.

Se passa il treno (veloce). «Le persone potrebbero pensare: siete matti, come credete di poter crescere con tanto di crisi e con la tensione che si respira anche a Genova?» riconosce Castellano. «Mi rifaccio all’esperienza di Esaote: in questi ultimi anni, l’esportazione è diventata il 70% del totale dei nostri affari, mentre assistevamo alla caduta della domanda interna. I nostri clienti adesso sono i Brics, sfruttiamo la crescita di Cina e Brasile ma anche della Russia. Inoltre investiamo l’8% in Ricerca & Sviluppo, settore dove lavora il 20% dei nostri dipendenti. Bene, l’analisi di Esaote può essere riportata all’intera città. Genova ha un capitale umano importante paragonabile a quello delle capitali europee dell’innovazione. Ha una realtà in cui il porto è una tecnologia, e non solo un transito, ha strutture di formazione importanti come l’Iit e il Cnr. Ha il Parco scientifico degli Erzelli e anche noi, come Esaote, tra due anni saremo lassù. Insomma, ci sono le condizioni affinché questa sia una Città della Tecnologia. De Andrè è lontano, la sua è la Genova del passato. Quella di oggi è una città carsica: sotto il declino emergono forze nuove che, sia chiaro, sono ancora potenziali, è una scommessa tutta da giocare. Dobbiamo rompere queste croste». Culturali, ma anche fisiche. Da Torino o Milano si arriva a Roma in un batter d’occhio. Tra Genova e Nizza c’è ancora il treno dell’Ottocento con binario unico. All’orizzonte c’è il terzo valico, la ferrovia veloce che porterà a Milano in 40 minuti. Finalmente ci sono i primi soldi e si stanno facendo i primi buchi per le gallerie che passeranno sotto l’Appennino. Paradossi del 2013: il futuro ha ancora bisogno del treno. Ma Genova vuole esserci.