Lirio Abbate, l’Espresso 18/1/2013, 18 gennaio 2013
I SETTE MISTERI DI PALERMO
Ci sono i depistatori e i collusi. Gli eroi e i malfattori. Oggi come trent’anni fa, Palermo non cambia. Perché è la mentalità della gente che non cambia. Vive ancora fra misteri irrisolti di cui la storia di Cosa nostra è piena, come lo è pure questa città che ogni volta che qualcuno dentro il palazzo di giustizia alza la testa per portare avanti un’inchiesta importante, ecco che arriva il solito corvo, con la sua lettera anonima, che sparge veleno mettendo l’uno contro l’altro, creando così un corto circuito dal quale si esce solo feriti. I corvi sanno quando entrare in azione. Prediligono le stagioni di cambiamento, quando gli assetti politici ed economici vengono rimessi in discussione. E si gettano sulle piaghe ancora aperte, perché la storia di Cosa nostra degli ultimi trent’anni è storia di misteri irrisolti. Resta sempre il dubbio: non c’è mai stato omicidio "eccellente" chiarito in tutte le sue dinamiche, individuando globalmente mandanti, esecutori e scopi. E spesso è prevalsa l’opinione che Cosa nostra, in certi casi, non sia stata altro che il braccio armato di poteri occulti: basta pensare alle uccisioni di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
È TORNATO IL CORVO Proprio dal delitto La Torre del 1982 parte la ricostruzione contenuta nelle due missive che da un paio di mesi stanno sconvolgendo la vita giudiziaria dei magistrati di Palermo e Trapani. Una è arrivata a casa del pm Nino Di Matteo che si occupa dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia; l’altra è diretta al procuratore di Trapani Marcello Viola. Due lettere che si incrociano ed hanno punti in comune. Ai pm palermitani viene segnalato che sarebbero controllati e spiati da "uomini delle istituzioni"; ci sono pesanti giudizi su alcuni magistrati della procura e si sostiene che in alcune «catacombe»dello Stato molte verità sarebbero «sepolte e ricoperte di cemento armato». L’autore è considerato un uomo delle forze dell’ordine: forse un investigatore deluso per qualche indagine non andata a buon fine. Il procuratore di Trapani viene messo sull’avviso che «qualcosa è arrivato per lei»: la stessa frase che alla vigilia di via D’Amelio annunciò a Borsellino l’arrivo dell’esplosivo destinato a colpirlo. Nessuna delle due lettere è però definita intimidatoria. Contengono fatti che in qualche modo sono collegati, in particolare all’attività di Viola su un presunto riciclaggio che lo ha portato fino allo Ior, la banca del Vaticano. Ora i pm di Palermo hanno aperto un’indagine, coordinata dall’aggiunto Vittorio Teresi, che punta a verificare le notizie di reato contenute nell’anonimo. Mentre la procura di Caltanissetta vuole individuare l’autore delle missive. Perché dietro a tutto ciò potrebbe nascondersi la mano di un depistatore, interessato a distogliere lo sguardo degli inquirenti da fatti precisi su cui stanno lavorando.
Il parallelo con il passato è forte: fa ricordare le lettere del "corvo" contro Giovanni Falcone e Gianni De Gennaro. A coronamento di quell’anonimo, il 21 giugno 1989, arrivò l’attentato all’Addaura contro Falcone. Su questo mistero, gli inquirenti di Caltanissetta dopo ventitrè anni stavano per arrivare ad una svolta. La speranza era racchiusa in un polsino di una tuta da sub trovata accanto alla dinamite, sulla scogliera di fronte alla villa di Falcone. In quel reperto un biologo della polizia scientifica, con tecnologie che nel 1989 non esistevano, era infine riuscito a estrarre il Dna di una persona. Una scoperta importante che avrebbe portato a dare un nome all’uomo che aveva indossato quella muta. Ma nei mesi scorsi, durante gli accertamenti nei laboratori romani della scientifica, quel reperto è stato contaminato ed è diventato inutilizzabile. E tornano alla mente i verbali dei pentiti che hanno parlato di un’intesa tra apparati deviati e mafiosi dietro l’attentato.
IL DELITTO DEL POLIZIOTTO Il 5 agosto 1989 vengono uccisi alle porte di Palermo il poliziotto Nino Agostino e sua moglie incinta Ida Castelluccio. Un omicidio anomalo, di cui ancora oggi si ignorano movente, esecutori e mandanti. Agostino lavorava a Palermo e la sua attività è stata collegata proprio all’Addaura. Un pentito sostiene che Nino insieme ad un collaboratore del Sisde, Emanuele Piazza, ucciso nello stesso periodo, avrebbero evitato l’esplosione dell’ordigno salvando la vita a Falcone. Di questo duplice omicidio i collaboratori di giustizia non hanno mai parlato: eppure un’esecuzione così importante non poteva passare sotto silenzio fra le famiglie di Cosa nostra. All’epoca venne immediatamente fatta circolare la voce che si trattasse di un delitto passionale, avvalorata da un rapporto firmato dall’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. Come mai? Tra l’altro, Ida Castelluccio era nipote di un imprenditore di San Giuseppe Jato: uno degli uomini di fiducia di Giovanni Brusca, all’epoca potente boss dei corleonesi, e oggi pentito. Come è possibile che Brusca non ne sappia nulla?
KILLER DALLA FACCIA DA MOSTRO A cavallo degli anni Ottanta e Novanta a Palermo apparati deviati dello Stato avrebbero utilizzato per effettuare lavori "sporchi" un ex poliziotto il cui volto era stato deformato da una ferita di arma da fuoco. Lo avevano chiamato il "mostro" e di lui hanno iniziato a parlarne alcuni pentiti. Secondo gli inquirenti l’ex poliziotto avrebbe avuto un ruolo nelle vicende che riguardano l’Addaura e nell’omicidio dei coniugi Agostino. I pm di Caltanissetta hanno indagato a lungo su di lui: dagli accertamenti sono venuti a galla contatti tra il "mostro" e mafiosi, imprenditori e funzionari dell’Alto commissario antimafia.
NEL COVO DI RIINA La mancata perquisizione della villa in cui si rifugiava Totò Riina, subito dopo l’arresto del 15 gennaio 1993, rimane un enigma. Che - come hanno sostenuto i giudici - ha prodotto inconsapevolmente un vantaggio a Cosa nostra: i corleonesi hanno potuto svuotare il covo e portare al sicuro l’archivio del capo dei capi. Il capitano Sergio De Caprio "Ultimo" che ammanettò Riina e l’allora vice comandante del Ros, Mario Mori, sono stati processati per questi fatti e assolti. «Ma quel che più rileva», scrivono nella sentenza i giudici di Palermo, «è che non è stato possibile accertare la causale delle condotte degli imputati». Secondo il pentito Nino Giuffrè, nella villa Riina aveva un archivio con documenti importanti che, come ha appreso da Provenzano, furono affidati al latitante Matteo Messina Denaro. L’anonimo arrivato due mesi fa sostiene invece che l’archivio sarebbe stato preso dai carabinieri e nascosto in una caserma. Potrebbe essere una calunnia, ma i pm di Palermo hanno riaperto l’inchiesta, andando alla ricerca di tutti i militari che parteciparono all’arresto di Riina per interrogarli.
BRUSCA SA E TACE Dell’ex boss di San Giuseppe Jato si sa soltanto che ha premuto il pulsante del telecomando della strage di Capaci. Giovanni Brusca non ha però raccontato quello che accanto a Cosa nostra si muoveva per preparare l’attentato. Non ha detto nulla sugli uomini esterni all’organizzazione che, secondo altri pentiti, avrebbero aiutato il clan di Riina. Il pentito dice e non dice. Due anni fa è stato intercettato mentre parlava con i cognati: si vantava di non aver dichiarato tutto sulla politica, assicurava che su Berlusconi e Dell’Utri non avrebbe aggiunto altro.
MALEDETTA TRATTATIVA La procura di Palermo ha appena chiesto il processo per undici imputati tra capimafia, ufficiali dei carabinieri e politici che avrebbero avuto un ruolo nella trattativa che ci sarebbe stata fra Stato e mafia nel ’92. Il pm Nino Di Matteo rappresenta così al giudice l’impianto accusatorio: «Una parte delle istituzioni, anche in nome di una ritenuta ma inconfessabile, e pertanto mai dichiarata, ragion di Stato, ha cercato ed ottenuto il dialogo con l’organizzazione mafiosa. Una condotta, a nostro parere sciagurata, utile ad arginare le manifestazioni più violente, e come tali destabilizzanti l’ordine pubblico nel nostro Paese». E ancora: «Cosa nostra si è mossa per rinegoziare l’equilibrio dei suoi rapporti con la politica, da poco entrato in crisi; ricorso alla violenza che quindi Cosa nostra ha attuato solo in determinati momenti, o per scopi e finalità contingenti, o per eliminare gli ostacoli - e noi crediamo che il giudice Borsellino possa essere stato eliminato anche per questo motivo - che via via si frapponevano, anche solo potenzialmente, alla realizzazione dell’obiettivo ultimo di Cosa nostra».
MESSAGGI A BERLUSCONI Contrariamente a quanto sostenuto nella relazione della commissione parlamentare guidata da Giuseppe Pisanu, per la procura c’è stato un coinvolgimento dei vertici istituzionali nella trattativa, che avrebbe avuto un input politico. Il pm ha anche parlato del "papello", la lista con le richieste a favore dell’organizzazione mafiosa che Riina presentò durante la trattativa. «La predisposizione di inoltro del papello ai destinatari della minaccia costituì un ulteriore momento esecutivo della condotta tipica, che si è dispiegata negli anni successivi attraverso ulteriori gravi messaggi minacciosi che si succedettero nel ’93 e all’inizio del ’94, anno in cui al governo presieduto dall’onorevole Berlusconi, in particolare Brusca e Bagarella fecero recapitare, attraverso il canale Mangano-Dell’Utri, l’ultimo messaggio intimidatorio prima della stipula definitiva del patto politico mafioso». Quello delle relazioni intessute alla vigilia del successo elettorale di Forza Italia resta un altro mistero che ha resistito fino a oggi, nonostante i numerosi procedimenti avviati e chiusi sempre con l’archiviazione. Storie datate, che però nel tempo continuano a provocare reazioni allarmate. Come quella di Silvio Berlusconi che nel 2009 dichiarò: «So che ci sono fermenti in procura a Palermo e a Milano. Si ricominciano a guardare fatti del ’92, ’93, ’94. Follia pura. Mi fa male che queste persone, con i soldi di tutti, facciano cose cospirando contro di noi, che lavoriamo per il bene del Paese». Era il periodo in cui Gaspare Spatuzza cominciava a collaborare con la giustizia, riferendo proprio le parole dei boss stragisti sul Cavaliere e su Marcello Dell’Utri.