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 2013  gennaio 18 Venerdì calendario

Paura? Non è il termine più adatto, parlerei piuttosto di un clima di grande attenzione». È questa la sensazione che accomuna il popolo dei villaggi dove si cercano gas e petrolio nel racconto di Andrea Moretti, 29 anni vissuti tra piattaforme e giacimenti, 25 in Egitto come sommozzatore professionista prima di diventare manager e direttore delle operazioni di una grande azienda petrolifera con sede al Cairo

Paura? Non è il termine più adatto, parlerei piuttosto di un clima di grande attenzione». È questa la sensazione che accomuna il popolo dei villaggi dove si cercano gas e petrolio nel racconto di Andrea Moretti, 29 anni vissuti tra piattaforme e giacimenti, 25 in Egitto come sommozzatore professionista prima di diventare manager e direttore delle operazioni di una grande azienda petrolifera con sede al Cairo. Lo raggiungiamo al telefono mentre con la sua jeep sta attraversando il Sahara diretto ad El Alamein per conto dell’Associazione Ricercatori Indipendenti del Deserto Occidentale «Arido» da lui fondata con lo scopo di ritrovare le tombe dei caduti dimenticati della Seconda guerra mondiale. La storia è la sua passione, il greggio la sua professione, il deserto ciò che fonde le sue due anime. Ci racconta dell’esperienza in Sinai, nel campo petrolifero di Belayim, sulle rive del Mar Rosso, di proprietà della Petrobel: «Si forniva assistenza giornaliera agli impianti e alle piattaforme off-shore». La giornata di una base inizia molto presto. «Fino al 1990 bisognava alzarsi alle quattro e mezzo, accendere i generatori e aspettare che arrivasse la corrente al container mensa. Poi, dopo una colazione misurata, si partiva per il lavoro. Con l’arrivo della corrente si è guadagnata un’ora di sonno». In una base petrolifera non sono ammessi ritardi, alle sei e mezza al più tardi si è operativi, qualunque sia il lavoro: la riparazione di un cavo della rete elettrica o di tubature, la manutenzione degli impianti, test e controlli per rinnovare le certificazioni internazionali obbligatorie. «La giornata lavorativa finisce un po’ prima del tramonto perché la legge egiziana prevede che mezz’ora prima del calar del sole si sia lontani dai giacimenti, dentro la zona residenziale». Il resto della giornata è dedicato allo svago, alle attività fisiche - corsa e un po’ di palestra -, poi c’è la cena, la sala hobby, le chiacchiere con i colleghi, mentre il buio avvolge il compound rendendolo apparentemente vulnerabile a tenebrose insidie. E chi vi abita è sempre guardingo. In una base la popolazione cambia secondo i lavori, possono esserci centinaia di persone, talvolta anche migliaia. Gli stranieri sono soprattutto ingegneri, tecnici, disegnatori, sommozzatori, mentre gli addetti ai servizi sono per la gran parte cittadini del Paese che ospita la struttura. Gli alloggi vengono ricavati in container: «Arrivavano dall’Italia smontati, li assemblavamo e installavamo i condizionatori». I periodi di impiego dipendono dagli accordi contrattuali: «Di solito non facevo mai meno di quattro o cinque mesi di seguito, poi tornavo a casa per riposarmi non più di quattro settimane». Con Andrea arriviamo ad affrontare il nodo della sicurezza: «Per accedere al campo di Belayim, all’interno della zona di concessione petrolifera, venivano rilasciati permessi dal Mukhabarat, l’intelligence egiziana». Nella difesa della base, dopo la primavera araba, ai soldati governativi, sono stati affiancati contractor privati. Angeli custodi che scortano persone e convogli anche negli spostamenti esterni. «Situazioni rischiose si sono vissute e si vivono soprattutto al Nord del Sinai, ad Arish», quasi al confine con Israele dove passa il gasdotto che rifornisce lo Stato ebraico. «Lo fanno saltare in aria due e tre volte all’anno e noi lo ripariamo, ormai è diventata quasi un’abitudine».