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 2013  gennaio 18 Venerdì calendario

MILANO —

Comincia con l’analisi. Fuori dalle polemiche. Senza il minimo accenno alla Fiom, alla Cgil, alla sinistra radicale, al polverone montato sull’inesistente «caso Melfi». La risposta Sergio Marchionne ovviamente ce l’ha, e certo comprende anche loro, ma non li degna neppure di un riferimento indiretto quando scandisce: la scelta di restare in Italia non era la più facile né la più conveniente, però l’abbiamo fatta, «non ci tireremo indietro», Fiat-Chrysler andrà avanti con gli investimenti nel Paese e «questo ci permetterà di ottenere già nei prossimi 24 mesi un significativo aumento della produttività e di arrivare nel giro di tre-quattro anni a un pieno impiego di tutti i nostri lavoratori». Promessa impegnativa (e lo sa). Toni comunque normali, niente enfasi, nessuna angolatura anche solo minimamente provocatoria. Poi però Sergio Marchionne scende dal palco. Solita ressa-stampa, mentre esce dal Quattroruote Day. E lì, sulla scalinata di Piazza Affari, alle domande seguono gli affondi. Tanto per dare un assaggio: «Ho trovato oscene le dichiarazioni dei politici su Melfi».
Succede che, martedì, lo stabilimento lucano abbia annunciato due anni (al massimo: è la legge che stabilisce la durata della richiesta) di cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione. Nulla di inatteso, nulla che non fosse già stato annunciato, soprattutto nulla al di fuori dello schema di investimenti previsti per «17 nuovi modelli e sette aggiornamenti da qui al 2016». La mission di Melfi, in questo progetto che presto sarà completato con Mirafiori (primavera?) e Cassino (un po’ più in là), è chiara e definita. Passerà dalla produzione della «domestica» Punto, che comunque non si ferma, a quella di due mini Suv «da esportazione» (uno Fiat, uno Jeep). Per farlo, e produrre auto in grado di andare oltre l’asfittica Europa, Fiat dovrà anche rifare completamente la fabbrica, le linee, i macchinari. Occorrerà buttare giù tutto e ricostruire, ed è ovvio che nel frattempo il vecchio impianto sarà inagibile. I lavoratori? Come già a Pomigliano e Grugliasco, e come peraltro previsto dalla normativa, finiranno in cassa integrazione. Che in questo caso, e nei due precedenti, significa però investimenti: l’avvio della Cig (a rotazione, qui) è la conferma che il miliardo sul piatto è già in fase di spesa. «Ci si ferma per ripartire», insomma.
Il dettaglio è che, a cominciare dalla Fiom di Maurizio Landini per arrivare ad Antonio Di Pietro, passando per Nichi Vendola e per il responsabile economico del Pd Stefano Fassina, nei commenti gli investimenti sono spariti. È rimasta solo la Cig. Si è parlato di «ennesimo imbroglio» (con accusa di complicità a Mario Monti, presente al Melfi Day). Si è tornati (ancora ieri, con Susanna Camusso) all’accusa-principe: «Non si capisce quale sarà il piano di investimento». Non si capisce? Marchionne, appena sbarcato da Detroit e subito in ripartenza per gli Usa, prima la butta sullo sferzante-ironico: «Può darsi che quello che non hanno capito è di che cosa si sta parlando». Già. Può darsi. Ma il leader Fiat-Chrysler arriva dagli States, non da Marte. Gli sarebbe difficile dire se, nel caso, l’ipotesi di cui sopra sia davvero peggio dell’altra (comunque legata): cioè che ci sia molto di elettorale, nel vento che ancora soffia a gonfiare il polverone Melfi. Così, intanto puntualizza, secco: «Uno che capisce un minimo di auto sa benissimo che per passare da una vettura all’altra bisogna ristrutturare lo stabilimento». Lo ha riconosciuto martedì persino Giorgio Airaudo, uno dei critici più feroci (ieri da numero uno auto Fiom, oggi da candidato Sel con Vendola). E dunque è evidente, ripete Marchionne, «non ho scelta: io non faccio panini, io devo cambiare i macchinari, i robot, le installazioni». Non si fa in un giorno. Ma, se a farlo si comincia sotto elezioni, e se il protagonista si chiama Fiat, gli «effetti collaterali» sono quasi scontati: «Il vero problema è che in questo Paese siamo un oggetto politico. Negli Stati Uniti lo siamo diventati brevemente durante le presidenziali, ma è stato un caso strano, non succede mai». Al contrario che in Italia: «Qui siamo il football politico di tutti quanti». Qualche volta (o spesso) in quel campo ci scende direttamente Torino? Come negli Usa, «solo per difendere l’azienda».
Raffaella Polato