Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 18 Venerdì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

TARANTO — A sera, l’ultima rissa scoppia dentro il consiglio di fabbrica, nella palazzina A: si litiga sul 12 febbraio, giorno del prossimo stipendio ormai ridotto a miraggio. «Non m’interessa quel giorno ma il futuro dei miei figli!», strilla un ragazzone di Liberi e Pensanti, il comitato post-sindacale che sta cavalcando la protesta tarantina. Consueta diatriba tra salute e lavoro, insomma, tra morire forse di cancro da operai e morire certamente di inedia da disoccupati. Stavolta però gli animi sono roventi come piombo, partono calci, spintoni, è subito bolgia nella sala che pare un anfiteatro.
Nell’attesa che ciò che resta dei Riva (i patron decimati dagli arresti) faccia sapere al mondo cosa intende fare di ciò che resta dell’Ilva (azzoppata dai sequestri giudiziari), a Taranto ci si azzuffa tra poverelli, come capponi di Renzo, tutti contro tutti: siamo a un passo, forse a poche ore, dal blocco della città e del porto, mentre la Fim-Cisl già proclama lo sciopero a oltranza. Tutti parlano ormai apertamente di chiusura della fabbrica che, tanto per fare le prove generali, blinda con catene e lucchetti i cancelli D nel turno pomeridiano, forse temendo l’assalto dei lavoratori inferociti, forse per un ennesimo colpo di teatro. «Situazione drammatica», lascia filtrare qualche anonima vocina milanese vicina all’azienda, ma per un doveroso comunicato che faccia chiarezza c’è tempo. Nella schizofrenia della giornata il direttore della fabbrica Buffo adombra coi sindacati la riapertura di due tubifici. Sembrano due linee, due mondi.
In realtà i signori dell’acciaio, provati dalle ultime sfavorevoli decisioni della Cassazione (il vecchio Emilio resta ai domiciliari nella sua villa varesina), potrebbero avere un interesse perlomeno obiettivo a lasciar salire la tensione, così da trattare da una posizione meno debole su quel miliardo di prodotti bloccati sul molo dai magistrati, l’ultimo tesoretto: «Senza dissequestro, addio stipendi», è il mantra aziendale ormai diventato vulgata popolare. Non è però detto che ci sia qualcuno ancora in grado di trattare, anche se martedì è atteso qui il presidente Ferrante e mercoledì il ministro Clini, assieme a Camusso, Bonanni e Angeletti, per una visita ad alto rischio che già fa sudare freddo la Digos. Martedì e mercoledì sembrano del resto appuntamenti lunari vista l’accelerazione che sta assumendo la crisi.
«Non garantiamo più la sicurezza», dice in prefettura, alla fine di una mattinata tetra e piovosa, Antonio Talò, gran capo della Uilm, uno dei pochi sindacalisti storici ad avere talmente tanto carisma da non rischiare di essere preso a calci nel sedere da capannelli sempre più folti di cassintegrati. Molti vanno dicendo in giro che i sindacati si sono svenduti all’azienda, i veleni del circolo Vaccarella «gentilmente concesso» ai confederali negli anni Novanta hanno intossicato pian piano le coscienze. «Questa gente non ci rappresenta», tuona il libero-pensante Aldo Ranieri, ex Fiom, fresco dall’essersi negato a una candidatura per gli arancioni. E tuttavia Talò è uno che ci mette la faccia, lui lo rispettano. Il prefetto Sammartino lo guarda storto, all’annuncio della resa: nessuno frena più le teste calde.
Sicché il vecchio capo sindacale ci spiega che, senza risposte immediate, lunedì bloccheranno gli imbarchi: in sostanza significa fermare il residuo traffico di materie prime e merci dell’Ilva, togliere al malato l’ultimo ossigeno. Poi, sotto il portone della prefettura confessa: «Prima che diano mazzate a me, le faccio dare a qualcun altro, così che da me arrivano stanchi». Una battutaccia alla fine di una mattina difficile, ovvio. E tuttavia il clima è davvero questo: «Devo evitare che i lavoratori dell’area a freddo si scannino con quelli dell’area a caldo». Già, poiché l’infinito paradosso tarantino prevede la seguente assurdità: l’area a freddo, quella che rifinisce e inquina meno, è ferma perché i prodotti sono sequestrati, mentre l’area a caldo, in gran parte sequestrata perché fonte di inquinamento, non ha smesso del tutto di lavorare. Naturalmente i poveri cristi dell’area a caldo sono molto refrattari all’idea dello sciopero e dei blocchi che appassiona invece i poveri cristi dell’area a freddo.
Si combatte per un pugno di euro, per tirare un altro mese, per pagare un pezzetto di mutuo, le cure di un figlio: caduta la credibilità dei sindacati, svanita nel nulla la politica, invisibili persino i partiti che si richiamano alla tradizione del lavoro, ciascuno è un potenziale nemico su queste sabbie mobili di disperazione. La visione d’un simile inferno viene offerta plasticamente ai cronisti sotto le arcate della prefettura. Mentre i sindacati confederali discutono col prefetto Sammartino al quinto piano, a piano terra qualche centinaio di cassintegrati fa a spintoni con i padroncini dell’autotrasporto, affamati quanto e peggio di loro perché da novembre non vedono un euro. «Voi volete chiudere e basta, io ho due bambini e devo licenziare la gente!», grida Paola Pulpo, combattiva come un’erinni. Tutti le urlano attorno, e ognuno urla per sé: perché la babele tarantina delle mille crisi incistate nella crisi Ilva non prevede più redenzione né vie di salvezza.
Goffredo Buccini
GoffredoB