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 2012  dicembre 16 Domenica calendario

METTIAMOCI UN PUNTO

Deserto del dopopunto. È così che Giorgio Manganelli chiama quel vuoto che prende dopo la fine della scrittura. Lo stop dopo il quale ogni cosa è possibile. Il tutto ancora da fare dopo il già fatto. Una sensazione che solo il punto può dare tra tutti i segni a nostra disposizione. Non così la rapidità della virgola, la lucidità dei due punti, l’inchiodata della lineetta, la mezzamisura del punto e virgola. Anche l’euforia del punto esclamativo o l’incertezza di quello interrogativo sono una cosa del tutto diversa. Lì non c’è nessuna desolazione: l’eco della frase si perpetua abbastanza da coprire ogni possibile timore da horror vacui. Senza parlare delle rassicurazioni delle parentesi (tonde, graffe, quadre) che si aprono all’interno del testo come grandi rotatorie, allargamenti di orizzonte: zone dell’introspezione e della precisazione, dell’aggiunta e della moltiplicazione.
Niente di più piacevole di una buona punteggiatura quando si scrive: dà il senso del pieno controllo della situazione, come un chiodo ben piantato, una maniglia montata alla perfezione. Chi fa questo per mestiere lo sa bene. Mi illudo che sia questo piacere per una cosa ben fatta a rendere la punteggiatura oggi un tema di moda nell’editoria. Non la paura che vige in altri comparti dell’italiano e alimenta la trattatistica del genere: il terrore di sbagliare un congiuntivo, l’uso di una parola per l’altra, lo stravolgimento della sintassi. C’è una differenza marcata tra i tanti manuali per salvare l’italiano dal ridicolo (a partire dalla brillante serie creata da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota per la Sperling & Kupfer: Salvalingua, Salvastile eccetera) e quelli dedicati alla punteggiatura. I secondi stanno ai primi come un manuale per ebanisti a un corso di falegnameria.
Negli ultimi dieci anni i libri sulla punteggiatura si sono moltiplicati. Le case editrici ci investono volentieri: sanno che c’è un pubblico che va oltre quello degli studenti universitari, degli addetti ai lavori. Qualche anno fa il libro di Lynne Truss, Eats, shoots and leaves (tradotto in Italia da Piemme col titolo Virgole per caso, 2005) ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Questo spiega perché una casa editrice come Laterza abbia scelto di puntare su questo tema per uno dei volumi delle sue collane mainstream (la stessa in cui escono anche alcuni dei libri di Zygmunt Bauman, per intenderci). E questo nonostante abbia in catalogo alcuni tra i testi più importanti sull’argomento (il Prontuario di punteggiatura di Bice Mortara Garavelli; la Storia della punteggiatura in Europa, con saggi di vari studiosi raccolti dalla stessa Mortara Garavelli). Qui si guarda a un pubblico diverso. Basta vedere la quarta di copertina in cui non c’è un profilo accademico o le solite dieci righe di descrizione. C’è questa frase (famosissima) di Isaak Babel’: «non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto». Difficile trovare di meglio. Anche la scelta di affidare la stesura a una penna brillante come quella di Francesca Serafini - solida base scientifica unita a un’esperienza di sceneggiatrice (tra gli altri, della Squadra) - va nella stessa direzione. La Serafini aveva già scritto un volumetto sul tema per la scuola Holden di Baricco (2001). Ha una scrittura agile, smonta vecchi luoghi comuni (tipo: la punteggiatura come indicatore delle pause della voce), sostituendoli con un’impostazione moderna (la punteggiatura come indicatore dei rapporti logico-sintattici tra le parti di una frase o di un periodo). Con una scrittura sempre in anticipo sul lettore, dà consigli pratici sugli usi specifici dei singoli segni, mostra la differenza tra le scelte obbligate di un italiano neutro (mai la virgola tra soggetto e verbo, ecc.) e quelle, di stile, degli scrittori (Aldo Nove che inizia il suo Puerto Plata Market con una frase da cartellino rosso: «L’amore, ha lo stesso meccanismo del gratta e vinci»). Una licenza d’uso, d’altronde, che può andare ben oltre nel caso degli scrittori. Non solo infrazioni nel posizionamento di questo o quel segno per esigenze di ritmo ma anche scelte più radicali. Gadda, ad esempio, usa quattro puntini di sospensione invece dei tre regolamentari, per rifarsi all’uso ottocentesco. Una questione di collezionismo, insomma. Viene in mente la scena di un libro (bellissimo) di Michele Mari, Tutto il ferro della Torre Eiffel (Einaudi, 2002). Uno dei personaggi principali, Walter Benjamin (sì, proprio lui), entra in un negozio di antiquario. Cerca oggetti letterari. Parla sottovoce con il proprietario, un nano dall’aspetto sinistro. Lo segue nel retrobottega. Il nano prende una scatoletta in cui è conservato uno dei suoi pezzi più rari. La apre. Dentro, adagiate sulla bambagia, ci sono tre minuscole sfere nere, ognuna non più grande di un pallino da caccia. Li riconoscete?, dice. Benjamin rimane a bocca aperta («Non ditemi che...»). Sì, gli dice il nano: sono i tre puntini di Céline. Gli originali, mica una copia.