Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 16 Domenica calendario

AMERICA. OBAMA A CACCIA DEL TESORO DI APPLE E SOCI

Anche negli Stati Uniti le manovre delle multinazionali per eludere le tasse sono nel mirino delle autorità politiche. E nel tentativo di far rimpatriare l’enorme tesoro da loro accumulato all’estero è comparsa la proposta di rivedere il sistema di tassazione dei profitti aziendali, come moneta di scambio nelle trattative fra il presidente Barack Obama e l’opposizione Repubblicana per evitare il fiscal cliff di fine anno, ovvero il rialzo delle tasse sugli individui per la scadenza degli sconti di Bush e lo scatto automatico di tagli della spesa pubblica, che potrebbero provocare la recessione nel 2013.
Forzieri
La liquidità nei forzieri esteri delle grandi aziende americane è arrivata a livelli record: oltre mille miliardi di dollari secondo Victor Fleischer, professore di Legge alla University of Colorado ed esperto di politica fiscale. Il colosso farmaceutico Johnson & Johnson, per esempio, tiene offshore il 100% dei suoi 24,5 miliardi di cash, nonostante il 46% del suo fatturato sia prodotto negli Usa, ha rivelato un’analisi del Wall Street Journal (vedi tabella). General Electric ha meno di un terzo dei suoi 85,5 miliardi di liquidità negli Usa, che pure rappresenta il 45% del suo fatturato; e Microsoft tiene in patria una quota ancor minore, solo il 14% dei 66,6 miliardi di dollari cash. Mentre per Apple la liquidità tenuta negli Usa è circa il 40% del totale — 38,6 miliardi su 121 —, così come il 40% delle vendite è domestica.
Tutti questi liquidi sono mantenuti all’estero perché sarebbero tassati al 35% se tornassero in patria. Spiega Fleischer: «Molte multinazionali usano il trasferimento dei prezzi di beni e servizi venduti fra filiali dello stesso gruppo per minimizzare la loro tassazione globale. Dopo aver trasferito la proprietà intellettuale in giurisdizioni con tasse minime come Portorico, l’Irlanda o Singapore, le aziende manipolano gli accordi per le licenze e la condivisione dei costi per evitare o ridurre le imposte Usa. Poi il cash resta parcheggiato offshore fino a quando i professionisti fiscali trovano un modo per riportarlo in America senza pagare le tasse».
Manovre
Queste manovre provocano anche distorsioni sui bilanci aziendali, dove l’eventualità di dover pagare delle tasse se e quando il cash viene rimpatriato non viene citata se l’azienda dichiara che non ne ha bisogno in America e che lo reinvestirà tutto all’estero. Con il paradosso che per distribuire dividendi o realizzare buy-back (riacquisti di azioni proprie) a favore degli azionisti, alcune aziende ricorrono all’indebitamento negli Usa, ottenuto a tassi convenienti: l’ha fatto per esempio Emerson electric, che tiene tutto il cash — 2 miliardi di dollari — in Europa ed Asia, in ossequio a una «politica fiscale conservativa» (definizione dell’azienda stessa).
Un modo per incentivare il ritorno dei capitali negli Usa è abbassare la tassazione dei redditi aziendali, che negli Stati uniti è il 35%, la più alta al mondo. Una proposta di qualche mese fa della Casa Bianca era di farla scendere al 28%. Il Business roundtable, lobby delle grande aziende, la settimana scorsa per la prima volta si è detto favorevole e disponibile, in cambio, ad appoggiare un aumento delle tasse sugli individui. Ma contro questa misura si sono già levati i piccoli imprenditori, che pagano le tasse sui loro business come fossero redditi individuali e non hanno i mezzi per nasconderli offshore.
Maria Teresa Cometto