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 2012  dicembre 16 Domenica calendario

UNITI DA UN CONFINE - L’

idea originaria, già parzialmente attuata con i trattati di Schengen, era quella di sostituire alle frontiere quella forma di condivisione che è potenzialmente insita nel concetto stesso di confine. Ma poi il processo concreto di realizzazione dell’unità europea, soprattutto nel corso degli ultimi due anni, in concomitanza con la tempesta finanziaria, ha fatto risorgere antagonismi sempre più netti fra i diversi Paesi contraenti. Ne è una testimonianza concreta il clima che si è instaurato da alcuni mesi nei rapporti fra gli Stati europei, con il rilancio delle ambizioni egemoniche da parte della Germania, la sofferenza di Paesi come la Grecia, costretti a rinegoziare continuamente le condizioni della loro appartenenza all’Europa, i tentativi di sollevare la testa da parte di Spagna e Italia, per porre un argine al leaderismo di Frau Merkel. Fino al punto da offuscare il significato autentico della nozione di confine, e la sua differenza rispetto alla frontiera.
In un breve trattato intitolato Arie, acque e luoghi, scritto presumibilmente alla fine del V secolo a.C., Ippocrate formulava per la prima volta una teoria, che sarebbe stata poi ripresa e approfondita, soprattutto a partire dal Settecento. Secondo il fondatore della medicina, esiste una correlazione perfettamente descrivibile in termini razionali fra lo stato di salute di un individuo e il luogo nel quale egli vive. Più in generale, secondo Ippocrate la spazialità non è affatto neutrale, né è riducibile esclusivamente a misurazione geometrico-quantitativa, perché invece essa è sempre qualitativa e funzionalmente diversificata, in relazione alle diverse caratteristiche fisiche dei luoghi. In altre parole, lo spazio appare originariamente caratterizzato secondo connotati che trascendono largamente la pura e semplice oggettività fisico-geometrica. Nella seconda parte del trattato, Ippocrate si spinge ad affermare che anche le forme politiche dipendono strettamente dalla specifica «qualità» dei luoghi: mentre in Europa prevalgono sistemi essenzialmente basati sulla libertà e la democrazia, le caratteristiche in senso lato «ambientali» dell’Asia favoriscono, o addirittura determinano, regimi politici che oggi definiremmo di stampo autoritario.

A distanza di quasi due millenni e mezzo, ritornando sul trattato ippocratico, Michel Foucault notava che lo studio e l’utilizzazione dello spazio nascono non come discipline astrattamente teoriche, ma sono incarnate piuttosto nelle pratiche di due professionisti dello spazio: i militari e i medici. Con questa precisazione: mentre i militari pensavano soprattutto lo spazio delle campagne, vale a dire dei transiti, i medici hanno pensato soprattutto lo spazio delle residenze e della città. Resta in ogni caso confermato quanto già prefigurato da Ippocrate, e cioè che lo spazio non è affatto omogeneo o indifferenziato, ma al contrario che luoghi diversi posseggono qualità e funzioni differenti. Di conseguenza, i confini che delimitano un territorio non corrispondono soltanto a ripartizioni convenzionali, di matrice politica, non segnano dunque soltanto un’area geograficamente determinata, ma influenzano anche le forme di vita individuale o associata. Una conferma di questa caratteristica qualitativa dello spazio può essere trovata nell’origine del tempio, vale a dire del luogo a cui vengono attribuiti qualità peculiari, in quanto spazio destinato ad accogliere il divino. Soprattutto nei tempi antichissimi presso le popolazioni nomadi, ma anche successivamente, nella Grecia classica, per individuare lo spazio del sacro veniva tracciato un solco nel terreno, per lo più di forma circolare o rettangolare. Questa semplice operazione — la circoscrizione di una porzione di terreno — conferiva a una parte di spazio caratteri qualitativamente diversi rispetto allo spazio circostante. Qui è da notare che mediante la definizione di un limite, di un confine, si assiste alla trasformazione della quantità in qualità. Tutto ciò che si trova all’interno del confine viene ad assumere una qualità e un valore inconfrontabili, rispetto a ciò che resta fuori dal confine. Lo spazio circondato dal segno tracciato dalle popolazioni nomadi nelle soste serali diventava per il tempo del soggiorno la loro casa, il luogo del loro possesso, protetto dalle divinità che tutelano il focolare domestico.
Soprattutto nelle lingue di matrice indoeuropea il termine che indica il confine è connesso con il verbo «tirare», ad indicare la traccia lasciata nel terreno dal passaggio del vomere. L’esistenza stessa del confine, la possibilità di riconoscerlo, è perciò dipendente dalla presenza di «segni» — un cippus, un albero inciso, un solco, ecc. — capaci di circoscrivere un’area, di indicarne appunto i limiti. A ciò si aggiunga un aspetto decisivo: colui che compie l’operazione di tracciare il solco ottiene con ciò stesso la possibilità di stabilire un possesso, di esercitare un diritto di proprietà. Anche per quanto riguarda la definizione della sovranità, originariamente, rex è chi usa la regula per tracciare una rectus, una linea diritta. Questa semplice operazione istituisce una serie di polarità, separando il sacro dal profano, distinguendo ciò che è dritto da ciò che è storto, ciò che ricade sotto il potere del rex e ciò che invece ad esso è sottratto.

Nella vicenda della fondazione di Roma, Romolo punisce Remo con la morte, perché questi ha osato varcare — negandolo — il confine appena tracciato. D’altra parte, l’enfasi sulla funzione di divisione, di separazione, di distinzione, a cui il confine assolve, dal punto di vista storico, oltre che linguistico e concettuale, conduce spesso a dimenticare un’altra, e non meno fondamentale, accezione del termine stesso di confine. Il confine è il cum. Non è soltanto — e neppure soprattutto — la barriera che mi isola. È quella linea che, nell’atto stesso di separare, mi mette cum, «insieme». Per quanto possa apparire a prima vista paradossale, il confine parla di un rapporto, più ancora che di una separazione, allude ad un luogo di condivisione, anziché ad una separatezza. Ed è inoltre, certamente, anche il luogo nel quale e mediante il quale si definisce l’identità. Ma non si tratta affatto dell’identità «egoistica», contratta in se stessa, quanto piuttosto di quella identità che si definisce mediante il rapporto con l’altro. Sono me stesso, anzi divento genuinamente me stesso, proprio lì dove «tocco» l’altro, dove lo riconosco nella sua alterità, in quello specifico evento che è costituito dall’incontro con l’altro. È sul confine che incontro quello straniero che è sempre hostis-hospes, quell’altro che viene, del quale mai potrò sapere in anticipo se sia ospite o nemico, ma che devo comunque dispormi ad accogliere.
Si può cogliere qui la netta differenza che intercorre fra il concetto di confine così definito e la nozione, solo apparentemente identica, di frontiera. In italiano, ma anche in francese, inglese, spagnolo, il termine «frontiera», in quanto racchiude in sé la radice «fronte», indica l’essere rivolti verso qualcosa — contro qualcosa. Presto o tardi, è inevitabile che su di essa si consumi uno scontro, così come a sua volta la frontiera è la conseguenza di uno scontro avvenuto in passato. Al cum che unisce e pone in relazione, proprio del confine, la frontiera sostituisce l’incombente prospettiva di un affrontarsi che ha il cupo suono della guerra. Alla mobilità e al dinamismo dei confini, si contrappone la fissità e l’insuperabilità della frontiera.
Di altri confini, ancora in gran parte ignoti a noi stessi, scriveva Eraclito nel lontano VI secolo prima di Cristo: «Per quanto tu cammini, e per quante strade tu possa percorrere, non troverai mai i confini dell’anima. Così profonda è la sua vera essenza».
Umberto Curi