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 2012  dicembre 06 Giovedì calendario

DRAMMA SLOT

[due pezzi]

Totò sorride dal fondo di uno schermo piatto e coloratissimo. Fiori, frutta, stelline e cornucopie non ci sono più, ora per azzeccare la combinazione giusta devi mettere in fila tre principi della risata. Il vecchio però non sembra avere troppa voglia di ridere. Sta appeso a un trespolo nero e sudicio in un angolo buio, lontano ma non troppo dal viavai adrenalinico di clienti di un bar del centro di Genova. E sta cercando di comprarsi un sogno a buon mercato. Preme un bottone luminoso alla sua destra e resta in sonnolenta attesa. Preme ancora qualche tasto. Solleva la testa. La scuote. Infila una moneta da 1 euro. E poi un’altra, un’altra, un’altra ancora.
Messi in fila, i vecchi come lui e le monete come le sue valgono quasi 44 miliardi l’anno: esattamente la stessa cifra, per dare un ordine di grandezza, di cui la Grecia avrà bisogno entro fine 2012 per non fallire. Qui, invece, di fallire proprio non se ne parla: il settore è in salute, se è vero che le slot da sole raccolgono oltre la metà dei soldi destinati dagli italiani al gioco d’azzardo.
Azzardo di Stato, beninteso, visto che dietro ogni apparecchio ci sono una concessione pubblica, un sistema di controllo centralizzato e soprattutto 4 miliardi annui di gettito fiscale, senza contare quelli incassati per le licenze. Il resto della torta è diviso tra gli operatori, i locali dove sono installate le slot e naturalmente le vincite: il 77 per cento della raccolta ritorna nelle tasche degli scommettitori.
Gianluca Ferraris


QUELLI CHE SI SONO GIOCATI UNA VITA ALLE SLOT–
Antonio, 35 anni, ex caposala in un ristorante, oggi è senza lavoro. «Quello che ti rovina è vincere. La prima vincita. I giocatori patologici cominciano tutti così. Io non faccio eccezione. Ero un ragazzo tranquillo, avevo una compagna, una laurea, un buon lavoro come caposala in un ristorante. Quando lei è rimasta incinta, sette anni fa, ho cominciato a giocare al gratta e vinci. Pensavo: sto per diventare padre. Volevo fare il colpaccio, comprarmi la casa, sistemarmi. Lavoravo tanto, fino a mezzanotte. Invece di tornare subito a casa, cominciai a passare dalle sale bingo, per giocare alle slot. Le macchinette hanno un potere ipnotico, schiacci quei tasti, il tempo vola, poi la macchina comincia a pagare e tu non riesci più a staccarti. Dicono: è un vizio. No, è una malattia, peggio di un tumore: ti distruggi, fai male a chi ti circonda. Io prendevo lo stipendio e lo giocavo tutto, subito. Chiedi i soldi agli amici, poi ai non amici. E cominci a raccontare bugie, fino a quando non distingui più la realtà dalla fantasia. Non ti importa più nulla di niente, non riesci neppure più a lavorare: la testa è sempre lì, al gioco. E ai soldi: a quelli che devi restituire, a quelli che devi procurarti per giocare ancora. È durato quattro anni. Mia moglie si è allontanata, gli amici li ho tenuti io alla larga. Ero pieno di debiti, non ricordavo neppure più a chi e quanti soldi dovevo. Tre anni fa ho lasciato il lavoro: non c’ero più con la testa. Ma ho avuto la forza di fermarmi, seguo un programma terapeutico della Siipac. Ora devo ricostruire la mia vita. E vedo con pena, nelle sale, minorenni e anziani che la loro vita, col gioco, la stanno distruggendo. Bisogna proteggerli, curarli».

Valerio, 19 anni. «A 13 anni ho lasciato la scuola e ho cominciato a spacciare. I miei lavoravano, stavano fuori tutto il giorno, io facevo quello che volevo. Spacciavo in un bar del mio paese, c’erano le macchinette là dentro. Al primo sguardo, non mi sono neanche piaciute. Ma un giorno ho sentito i soldi cadere e mi sono fatto l’idea che si potesse vincere. Così ho cominciato a giocare. All’inizio, 10, 20 euro. Poi più forte, sempre più forte. Avevo la mia macchinetta preferita, mi piacevano i suoni, le animazioni. Se le slot fossero in bianco e nero, non so quanti ci starebbero dietro. E invece, a Milano, a Monza, a Pavia, i miei coetanei giocano, e giocano forte. Per me era diventata una catena: giocavo per avere i soldi per la coca e la coca mi spronava a giocare. Giocavo cercando l’impossibile: sognavo, con 1 euro, di tirarne giù 1.000. Non dormivo più, non mangiavo più, non so neanche quanti soldi ci ho buttato. A 17 anni ho pensato che non ce la facevo più a fare quella vita. Sono entrato in comunità, alla Casa del giovane di Pavia. Ora le macchinette non mi fanno né caldo né freddo».

Patrizia, 39 anni, impiegata. «L’azzardo mi è sempre piaciuto. Da bambina, la tombola mi annoiava, andavo pazza per il 7 e mezzo. Da adulta mi piaceva organizzare weekend con tappa al casinò, sempre in compagnia. Alle macchinette non mi mettevo: un gioco troppo solitario per tentarmi. Finché una sera, nella città in cui vivo, sono entrata con amici in una sala bingo e mi sono seduta a una videolottery. C’era un’atmosfera speciale: le luci, i colori, l’aperitivo offerto. Ci sono tornata, ed ero sola. È cominciato così, cinque anni fa. Ed è stato un vortice senza ritorno. All’uscita dal lavoro, andavo a nascondermi nella sala bingo. Entravo alle 6 del pomeriggio, uscivo alle 2 del mattino. Non sentivo fame, sonno, stanchezza. Smettevo di giocare perché chiudevano, o perché non avevo più un euro. E ogni volta, appena mi alzavo, mi cadeva addosso il disprezzo di me: per i soldi sprecati, per il tempo buttato. Tornavo a casa disperata. Il giorno dopo ero di nuovo lì. È un richiamo ipnotico, non puoi sottrarti. Non puoi parlarne con nessuno: troppa vergogna. Mi sono giocata tutti i miei risparmi e anche di più. Inseguivo la vincita, sperando sempre di rifarmi. Un paio di anni fa ho trovato la forza di sfogarmi con un’amica. «Fatti aiutare» mi ha consigliato. Ho cominciato una psicoterapia. Oggi dico: mi sono fermata prima di commettere gesti pericolosi. Ma la dipendenza dalle macchinette è un mostro difficile da combattere. Ho salvato il mio lavoro, questo sì. Faccio sacrifici e vado avanti. Ma sono a rischio e lo so».

Giovanni, 70 anni, militare in pensione. Quattro anni fa comincia a soffrire della sindrome delle gambe senza riposo: la notte non riesce a dormire, deve alzarsi, camminare per casa. È un tormento. Il medico gli prescrive un farmaco adottato per i disturbi da morbo di Parkinson. La medicina funziona, torna la quiete notturna, torna il riposo. Ma Giovanni, che in vita sua ha messo piede una volta soltanto in un casinò e non ci è più tornato, comincia a giocare alle slot machine. Davanti alla macchinetta perde la nozione del tempo. La sua pensione, poco più di 1.000 euro al mese, svanisce. Giovanni si gioca i soldi per le spese del condominio, poi una macchina, poi chiede un prestito a una finanziaria. Con la moglie, con la figlia, comincia a mentire. «Mi hanno rubato la bicicletta, vado a cercarla» annuncia una domenica mattina. E sparisce. Ore dopo, risponde alla figlia sul telefonino con voce ubriaca: è davanti alla slot, come in estasi. La figlia legge il bugiardino del farmaco: tra le controindicazioni figura il gioco d’azzardo patologico. Il medico prova a cambiare il farmaco: non funziona. Tornano le notti inquiete, i dolori. Ma il vecchio farmaco significa precipitare nell’inferno delle slot. «Voglio uscirne» dice Giovanni alla figlia. Tornano dal medico, che prescrive lo stesso principio attivo in un nuovo farmaco. Chiedono l’aiuto di uno psicologo, Simone Feder, specializzato in dipendenze. Faticosamente, a settant’anni, pieno di debiti, Giovanni prova a ricostruirsi una vita.

Renzo, 52 anni, geometra. «Oggi sono 508 giorni che non gioco. Li conto uno per uno. Io non bevo, non fumo, mai toccata la droga. Fino ai 38 anni sono stato quel che si dice «un giocatore sociale»: poker con gli amici, qualche puntata ai cavalli, niente di più. Un giorno, in una sala corse, ho visto una macchinetta: ho giocato, ho vinto, è cominciata così. Avevo una bella famiglia, due figlie, un ottimo stipendio come direttore di cantiere. Ho perso tutto: lavoro, soldi, serenità. Non so come succede, ti siedi, metti i soldi, pigi i pulsanti, si accendono le luci ed esiste solo la slot. Sono entrato come in una nebbia, ho fatto cose fuori dal mondo: ho venduto l’oro di famiglia, sono arrivato a rubare in casa di mio cognato. E mia moglie mi ha buttato fuori. Ho capito che, se andavo avanti, mi sarei ammazzato. Su internet ho cercato i Giocatori anonimi: siamo tutti ex, nessuno giudica nessuno. Contiamo i giorni da quando abbiamo smesso di giocare. Arrivati a un anno, facciamo una gran festa».
(Bianca Stancanelli)