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 2012  dicembre 05 Mercoledì calendario

ZUCCHERO HO FATTO UNA PROMESSA 22 ANNI FA

Azúcar non è una bella parola per i cubani. Azúcar è stata la loro maledizione: milioni di ettari – una noia da guardare e da coltivare – per produrre solo quello, per secoli, azúcar, lo zucchero. Ci hanno messo trecento anni a liberarsi dal suo abbraccio economicamente mortale, ma sembrano felici di ricevere da noi l’unica forma di zucchero da esportazione di cui disponiamo, quello che si chiama Adelmo Fornaciari e che l’8 dicembre mantiene una promessa fatta a se stesso («sono le peggiori», dice) ventidue anni fa: suonare a Cuba.
Siccome l’idea gli venne mentre cantava – era, non a caso, l’8 dicembre 1990 – al Cremlino, il tutto assume subito una luce spettralmente ideologica che Zucchero, seduto nel giardino dell’Hotel Nacional dell’Avana – un posto che, se non fosse per le comitive in pullman, saprebbe ancora di calze di nylon e ghiaccio sciolto nei bicchieri – ci tiene subito a ridimensionare con una serie di «no». La sesión cubana è il titolo del suo ultimo disco, registrato interamente lo scorso luglio a Cuba, e sarà anche il titolo del grande concerto che Zucchero ha voluto «come quelli che si fanno da noi». Perché così fosse ha spedito dieci container dall’Italia con dentro tutto: il palco, la scenografia, gli impianti; solo lui e i musicisti sono arrivati all’Avana non dentro le scatole.
Allo spettacolo – «gratuito, ma mi pare ovvio perché è il mio regalo per questa gente che amo e un tributo anche alle vittime che qui ha fatto l’uragano Sandy, di cui non si è parlato per niente» – prenderanno parte una ventina di musicisti, tra la sua storica band e strumentisti e coriste cubani.
L’amore di Zucchero per Cuba non è antico, ma è intenso. «Sono venuto qui la prima volta nel 2003, invitato a un’incredibile cosa che si chiama Festival del sigaro, una specie di notte degli Oscar con donne in abito da sera che 
sorseggiavano rum e degustavano tabacco. Poi ho girato un po’ e ho visto la grazia e l’armonia delle cose e delle persone, ho visto valori che mi piacciono, come il grande rispetto per gli anziani, e anche cose più profane, come l’incredibile sensualità delle donne, la stessa che ho sempre raccontato nelle mie canzoni. Insomma, sono rimasto folgorato».
Forse tutto è successo perché, come canta nella riedizione di Guantanamera, è «un ragazzo sincero, da dove cresce la palma». E non importa se palme, a Roncocesi – dove è nato – non ce n’è neanche una.
Perché ci ha messo 22 anni a mantenere la promessa?
«Perché c’è sempre stato qualche cosa d’altro da fare. Perché è un progetto costosissimo, perché il mio manager di prima mi dissuadeva dicendo che ci sarebbero state delle ripercussioni sul mercato degli Stati Uniti. Ma adesso, cosa vuole, io ho 57 anni, Cuba tra poco – nel bene o nel male – cambierà: il momento è quello giusto. Ora o mai più».
Ci tiene a dire che questo non è un concerto «politico», ma, insomma, il dubbio viene.
«Quando lo immaginai, su quel palco del Cremlino, lo era. Ma in questi 22 anni il mondo è cambiato, la parola comunista non esiste nemmeno più. Adesso è solo un tributo a una popolazione, una cultura e una terra che amo molto».
È un ex comunista?
«Vengo da una terra che è rossa, ma sono cresciuto in una casa davanti alla chiesa, con don Tagliatella a pranzo da noi ogni domenica a litigare con zio Guerrino detto Guerra, il vero marxista della famiglia. Facevo il chierichetto alla messa e suonavo l’organo (il patto con il prete era: ti lascio suonare l’organo se poi fai anche il chierichetto) e poi andavo alla cooperativa del Partito comunista. Da Roncocesi, il mio paese, c’erano le corriere che partivano e andavano a Mosca, in pellegrinaggio. Anche io sono rimasto affascinato dalla leggenda degli eroi giovani e belli che qui hanno fatto la rivoluzione».
Aveva il poster del Che nella sua cameretta?
«Io poster non ne ho mai avuti, nemmeno dei Rolling Stones o degli Azzurri. Non sono fanatico di niente, però da ragazzo mi piaceva immaginare un mondo senza disuguaglianze, in cui ci si aiuta, andare a suonare alla Casa del popolo. Giravo con una ragazza bellissima – che poi sarebbe diventata mia moglie – coi capelli lunghi, vestiti da hippy, con la barba come il Che, e suonavamo le canzoni di Guccini, Gaber, De André. Anch’io avevo scritto un disco impegnato, ma nessuno al tempo lo volle pubblicare. Era tutto molto naïf e romantico. Non vedevamo che l’applicazione pratica di ciò che erano dittature. Per non parlare poi della distanza che ho sentito quando è arrivata la lotta armata in Italia».
Adesso crede nella politica o nell’antipolitica?
«Che cosa vuole dire antipolitica? Che se vedi ingiustizie le vuoi eliminare? Che se vedi le persone schifose che mangiano sulla povera gente vuoi togliergli ogni potere? Se questa è l’antipolitica, allora io sono più antipolitico di Grillo. Sono antipolitico perché non sono politico, sono troppo diretto e schietto».
Però il modello Cuba le piace.
«Mi piace un posto dove si dà valore alla cultura. Dove l’istruzione è ad altissimi livelli, così come la sanità, mi piace un Paese dove le cose non si buttano ma si tengono con cura e si riparano. Che è poi come faceva mio padre, che le sere d’inverno apriva il cofano della Seicento e ci metteva sopra una coperta. L’ho anche detto all’esame della patente e mi hanno bocciato. La risposta giusta alla domanda “Come proteggi l’auto dal freddo?” non era la coperta, era: metti l’antigelo».
Ma secondo lei i cubani sono felici?
«Non si capisce, perché non ne parlano. A volte faccio domande un po’ sibilline, ma non ti rispondono. Ho trovato solo pochissimi che hanno detto di volere andare via. Risposte coraggiose perché c’è una forma di controllo: uno ascolta l’altro. Io non vivo qui e non so, vengo a Cuba da musicista benestante, come posso avere un’idea di come sia la vita? L’unica cosa di cui mi sono potuto rendere conto organizzando il concerto è che la burocrazia è una cosa sfinente: per mettersi d’accordo su dove farlo ci sono voluti mesi».
Dove avrebbe voluto farlo, il concerto?
«Davanti al Campidoglio, ma è protetto dalle Belle Arti. Oppure sul Malecón, il bellissimo lungomare, ma da luglio c’è una circolare che vieta le manifestazioni pubbliche in luoghi totalmente aperti. Credo che sia perché Fidel sta male e, se arrivasse la notizia della sua morte durante una manifestazione pubblica, potrebbero scoppiare disordini. Mi avevano proposto la Fortezza, ma è piena di cannoni e non mi sembra il posto migliore per lanciare un messaggio di serenità e pace. Allora lo facciamo nel parco all’Istituto superiore d’arte, una bellissima scuola che ospita diecimila studenti di tutte le forme d’arte. Questo è quello che mi piace di Cuba. Io sento una grande mancanza di cultura nel nostro Paese: non riesco più ad accendere la televisione, a casa».
Che cosa l’ha uccisa, la nostra cultura?
«Sarebbe facile dire quel signore che ci ha governato per vent’anni e che adesso non c’è più. La sua mania di contornarsi solo di roba giovane e bella ha contribuito a creare un certo tipo di pensiero, ma non è solo quello. L’hanno uccisa le apparenze, e anche la voglia di apparire, la logica che se non sei abbronzato, ricco e famoso sei poca roba. Ci sono persone che conosco che mi chiamano e mi chiedono: “Dai, mi aiuti a partecipare ai reality, ai talent show?”. Io? A me lo chiedi? A parte che non conosco nessuno, ma poi mi fanno anche orrore».
Davvero, anche i talent musicali?
«Ci sono anche ragazzi bravi, ma poi i coach che hanno gli insegnano a cantare tutti allo stesso modo: identico tempo, identico modo di aprire la bocca. E infatti il primo disco va benissimo, il secondo bene, il terzo così così e il quarto non lo fanno. È anche colpa delle case discografiche che vogliono sempre la novità, che hanno creato il sistema dell’usa e getta. Però questi ragazzi non sono cose, sono persone, e io credo che anche psicologicamente questa parabola del successo facile li destabilizzi, tanto più che non hanno alle spalle la fatica e le porte in faccia della gavetta. Non vedo storie felici, con l’unica eccezione di Noemi. Ma la smania di apparire e del successo non è solo del mondo dello spettacolo, io quando vado in giro per il mondo rimango sempre sconvolto quando incontro gli italiani. Ha notato che si riconoscono subito?».
Lei da che cosa li riconosce?
«Sono sempre firmati dalla testa ai piedi: l’occhiale, la borsa, la scarpa. Palestrati, lisci, curati. Ma c’è un dettaglio che mi fa impazzire: quelle maledette sciarpette intorno al collo, portate pure in spiaggia. Quanto sono più belli i tedeschi che se ne fregano di tutto, di come sono vestiti, di avere la pancia».
Che cosa c’è di sbagliato nel curarsi?
«Niente, se non fosse che ti toglie la libertà. È una dittatura dell’apparire, dell’omologazione, conta solo quello. Così ci sono italiani che vengono anche qui, a Cuba, e stanno due settimane solo in spiaggia, ad abbronzarsi e incremarsi come farebbero a Rimini, perdendosi l’incanto della scoperta di un’isola piena di storia e di vita».
Qui ci si viene anche per le belle donne, lei no?
«Le donne qui hanno visi bellissimi».
Visi?
«Beh sì poi magari anche dei bellissimi culi».
Mai stato sedotto da una cubana?
«Una sera una ragazza mi si avvicina: “Che fai dopo?”, mi chiede. E io: “Oggi sono cotto, se vuoi domani sera ti porto a cena”. Mi ha girato le spalle e non mi ha più guardato. Mi sa che non era proprio amore».