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 2012  dicembre 05 Mercoledì calendario

DA BELFAST A MOSTAR, LE CITTA’ DIVERSE CERCANO UN FUTURO

Qualche tempo fa ho provato l’emozione di attraversare la linea di confine che divideva due città che erano state la stessa: Gorizia e Nova Gorica, una «partizione» simbolo della guerra fredda. Oggi questa linea non ha più peso e si attraversa senza nem­meno pensare alla storia che si porta dietro. Jon Calame ed Esher Charle­sworth, autori di Città divise. Belfast, Beirut, Gerusalemme, Mostar e Nicosia (Medusa, pp. 302, euro 21), un urbani­sta e un architetto, hanno invece vis­suto delle green lines , partizioni che non sembrano accennare a una spari­zione. Come incaricati di pensare a un futuro per Mostar hanno deciso di approfondire l’esperienza per capire se le «città divise» possano essere ana­lizzate secondo parametri e costanti ricorrenti. Belfast racconta una storia di divisione religiosa e di violenza e la conseguente costruzione di muri e barriere destinati ad arginare quella violenza. Racconta anche qualcosa che si rintraccia nelle altre città e cioè che, se i muri e le barriere danno una provvisoria sicurezza alle parti in cau­sa, alla lunga diventano segni che pro­vocano frustrazione e nuove violenze.

E queste si producono proprio lungo le linee di «partizione». Nicosia narra un processo che poteva essere evitato: una popolazione con una buona tra­dizione di convivenza, quella greco­cipriota e quella turco-cipriota, votata dalla gestione divide ed impera del commissariamento britannico a dive­nire conflitto etnico. Gerusalemme racconta una storia analoga, frutto dei calcoli astratti delle potenze alleate su un territorio complesso. Una città riu­nita militarmente da Moshe Dayan, ma oggi di nuovo divisa da un muro sulla stessa green line decisa dagli in­glesi alla caduta dell’impero ottoma­no. Beirut racconta lo strazio di una città multireligiosa e multietnica da parte dei signori della guerra e il gioco delle superpotenze sulla pelle dei suoi abitanti. Storie terribili e attualissime.

Se ne evince che le partizioni, concre­tizzatesi in cemento armato e filo spi­nato e muri sempre più alti, hanno un costo che spesso supera quello per cui sono state messe in opera. Un costo in vite umane, in malattie psichiche e fisiche, in cicatrici nelle generazioni a venire e un costo economico altissi­mo per entrambe le parti. «Le barriere fisiche risolvono i sintomi piuttosto che le cause delle rivalità tra i gruppi», affermano gli autori del volume, che sarà presentato domani alle 11.30 al Politecnico di Milano, presenti Vitto­rio Gregotti, Gabriele Basilico, Ilaria Valente, Gabriele Pasqui e Guido Mor­purgo (che firma la prefazione al volu­me). Essi cercano di capire cosa si po­teva evitare e cosa si potrebbe fare, e si chiedono se c’è un ruolo che archi­tettura e urbanistica possono giocare.

Ad esempio per Mostar la ricostruzio­ne del ponte – pur non significando la riunione delle due parti della città, bosniaca e croata – ha avuto grande valore simbolico. Per Nicosia è stata la costruzione concertata di una rete fo­gnaria e di utilizzo delle acque reflue a unire gli interessi e a fare sperare in al­tre imprese comuni. Per Beirut la rico­struzione della zona del suk e la sua trasformazione in città degli affari ha dato l’esempio della possibilità di uni­re effettivamente le diverse compo­nenti delle città. Il discorso per Geru­salemme e Belfast è molto più com­plicato. Nel lavoro comparativo dei due autori quello che risalta è che la «partizione» di una città è spesso l’ef­fetto nefasto di decisioni che poco hanno a che fare con la tradizione di convivenza in uno stesso luogo. Le strategie di contiguità tra etnie e reli­gioni non prevedevano spesso la me­scolanza o l’ibridazione, bensì la ca­pacità di separarsi secondo linee e in­teressi invisibili ma altrettanto reali, e di avere luoghi in comune definiti da interessi di scambio ed economici. È la grande tradizione delle città-mon­do del Mediterraneo, quella attaccata per prima dai nazionalismi che hanno infettato – dalla Grande guerra in poi – l’Europa e l’intero globo.