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 2012  dicembre 05 Mercoledì calendario

PERCHÉ SIAMO PIÙ STUPIDI DI UN UOMO DELLE CAVERNE


Forse siamo meno intelligenti di quel che pensiamo. Forse la nostra specie, un po’ alla volta, si sta incamminando verso un percorso che ci porterà ad essere sempre meno Sapiens. A crearci questi dubbi è un articolo provocatorio e controcorrente, pubblicato su «Trends of Genetics», dal direttore del Laboratorio di Genetica dell’Università di Stanford, California, Gerald Crabtree: lui sostiene che il nostro picco intellettivo è stato raggiunto in epoche passate e che da allora viviamo in un lento declino.
Professore, partiamo dall’inizio: che cosa è per lei l’intelligenza?
«E’ difficile da stabilire, ma io credo che la miglior definizione possa essere la seguente: l’abilità di risolvere i problemi. Ad esempio, nell’epoca preistorica, l’intelligenza poteva essere determinante per risolvere i problemi legati alla ricerca del cibo, alla caccia o all’allevamento dei figli».
Su quali basi sostiene che le nostre abilità emotive ed intellettuali siano sorprendentemente fragili?
«Prima di tutto bisogna capire quanto, del nostro Dna, è coinvolto nelle abilità cognitive ed emotive. Da recenti studi sul genoma umano, risulta che dai 2 mila ai 5 mila geni siano implicati nella risoluzione dei nostri problemi quotidiani, come leggere un libro, occuparci delle persone che amiamo, guidare un’auto oppure comporre una sinfonia. Più sono i geni coinvolti in un processo e maggiore sarà la possibilità che qualche evento genetico casuale, come una mutazione, possa colpirlo. Se consideriamo che, negli ultimi 3 mila anni, le mutazioni del nostro Dna sono state circa 5 mila è facile immaginare come la nostra intelligenza possa cambiare velocemente, se non viene “controllata” da un’adeguata pressione selettiva».
E lei crede che la pressione selettiva sia progressivamente diminuita nel corso della storia?
«Per risponderle le faccio un esempio. Se nella preistoria un uomo non fosse stato in grado di risolvere correttamente un problema per l’approvvigionamento di cibo, probabilmente sarebbe morto e con lui la sua progenie. Trasportando il problema oggi, se un dirigente di Wall Street commettesse un analogo errore, invece di essere punito, riceverebbe un bonus. Scherzi a parte, credo che la pressione selettiva sull’intelligenza sia diminuita migliaia di anni fa, quando l’uomo è passato da cacciatore ad agricoltore. Questo cambiamento ha portato l’uomo, abituato a vivere in piccole tribù, a radunarsi in società ad alta densità. Ciò ha sicuramente portato a tanti vantaggi, quali il supporto reciproco e la collaborazione, ma anche ad un aumento delle malattie. A questo punto la pressione selettiva si è concentrata maggiormente sulla resistenza alle malattie, piuttosto che sull’intelligenza».
Diverse teorie, però, sostengono che l’intelligenza dell’uomo sia legata proprio allo sviluppo della socialità e ai fenomeni quali la nascita del linguaggio e della scrittura. Lei non è d’accordo?
«L’origine dell’intelligenza è uno dei dibattiti più importanti dell’antropologia. Un fatto certo è che sia il linguaggio sia la scrittura sono apparsi ben dopo l’espansione della corteccia prefrontale e del volume endocranico, che si crede abbia dato all’uomo la capacità di pensare in modo astratto. A quell’epoca, circa 50 mila anni fa, l’uomo viveva di caccia e raccolti, in piccole bande e non in gruppi sociali complessi».

«Da ciò si deduce che la vita in quell’epoca doveva essere più “viva” intellettualmente di quanto pensiamo e che la pressione selettiva che ha permesso la sopravvivenza dell’uomo preistorico abbia portato alle nostre attuali abilità, compreso quelle complesse come il comporre sinfonie».
Come pensa sia possibile paragonare la nostra intelligenza, che ha portato ad innovazioni incredibili in tutti i campi, con quella dell’uomo preistorico?
«Questa domanda si basa sull’assunzione che costruire una casa, cacciare animali grandi e pericolosi, sopravvivere nella natura e allevare dei figli sia più semplice che far funzionare un computer. Ma non è affatto così. Le attività che noi consideriamo molto evolute, come guidare un aereo oppure giocare a scacchi, richiedono solo una piccola frazione del potere computazionale richiesto per assolvere a compiti che, erroneamente, consideriamo banali, come per esempio lavare dei piatti. Basta pensare al fatto che anche i computer meno potenti sono in grado di battere campioni mondiali di scacchi e di guidare un aereo. Al contrario, nessun computer è stato ancora in grado di venire a capo dell’enorme complessità computazionale richiesta da compiti comuni come le faccende domestiche. Ciò vuol dire che, molto probabilmente, l’invenzione dell’arco e della freccia, avvenuta circa 40 mila anni fa, è stata una prova intellettuale difficile quanto formulare la teoria della Relatività».
Steve Jobs diceva: «Baratterei tutta la mia tecnologia per una serata con Socrate». Lo farebbe anche lei?
«Assolutamente sì. Anche perché sono pronto a scommettere che, senza arrivare a menti eccelse come quella di Socrate, se un cittadino di Atene del 1000 a.C. apparisse nella nostra epoca, sarebbe il più brillante e il più emotivamente stabile di tutti i nostri amici e colleghi e rimarremmo stupiti dalla sua memoria e dalla visione molto ampia delle sue idee».
Quale futuro prevede per la nostra specie? Il declino cognitivo sarà costante?
«Credo di sì, ma non penso sia un problema di cui preoccuparsi, in quanto questi cambiamenti genetici sono incredibilmente lenti e avvengono in centinaia, o meglio, nel corso di migliaia di anni. In questo arco di tempo, considerando la rapida evoluzione scientifica umana, probabilmente saremo in grado di intervenire sulle mutazioni genetiche, correggendole, e inoltre la nostra società futura sarà così avanzata da produrre una tecnologia robotica talmente sofisticata che risolverà e compenserà i problemi al posto nostro».