Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 05 Mercoledì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

KATI (Mali)
Bastano 15 chilometri in taxi dal centro di Bamako per arrivare a Kati, la città-guarnigione dove si è asserragliato il capitano Amadou Sanogo, il piccolo golpista. Le strade tutte intorno ma anche dentro al grande villaggio armato sono parte della caserma. Le mogli dei militari cucinano e vendono sui banchetti; quella processione di ragazzini che entra nel campo di calcio dell’Armèe sono i figli degli ufficiali, le galline che saltano giù dal blindato stasera finiranno arrosto sui tavolacci dei loro soldati. Il capitano Sonogo sta lì dentro, oltre i blindati, oltre le mitragliatrici pesanti appoggiate in terra, oltre la guarnigione semi-addormentata sotto il sole d’autunno.
Questi sono i militari che dovrebbero ritornare a combattere al Nord, salire verso Mopti per poi battagliare a Gao, Timbuctù e Kidal. Dovrebbero liberare le città conquistate da Al Qaeda. Per ora dormono o inseguono le galline. La notte del 21 marzo il capitano Sanogo, un ufficiale passato per le scuole militari americane, si presentò con un battaglione di fedelissimi davanti alla “casa bianca”, il palazzo del presidente Amadou Toumani Tourè. Da qualche settimana il Nord del paese era sotto l’attacco dei tuareg “laici” dell’Mnla: il capitano aveva appena perso suo fratello, tanti altri
ufficiali e soldati protestavano con lui perché i corrotti capi dell’esercito maliano avevano mandato i loro soldati al fronte allo sbaraglio, con poche armi, senza logistica e supporto.
La protesta quasi sfugge di mano. L’ammutinamento diventa un golpe vero e proprio che pochi giorni dopo la Francia e i paesi africani dell’area riescono a “congelare”, convincendo il capitano a rinchiudersi in questa caotica cittàguarnigione, mentre il presidente del Parlamento Dioncoundà Traorè viene nominato capo dello stato provvisorio e un astrofisico che ha lavorato anche alla Nasa diventa premier.
Da allora il Mali è immobile, guarda crescere “Al Qaeda nel Maghreb Islamico” come noi seduti in un bar libanese di Bamako seguiamo il maestoso fiume Niger scivolare inesorabile proprio verso
il Nord, verso le terre di Al Qaeda. Fino a pochi giorni fa Almouser Yattara, 31 anni, etnia tuareg, conduttore alla radio di Timbuctù, era ancora lì: «Ricordo ancora quei giorni: capimmo che sarebbero arrivati in città quando vedemmo poliziotti e militari che fuggivano:
alle 4 del mattino partivano gettando via le divise. Le prime 4x4 del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, i tuareg “laici”, sono entrate alle 3 del pomeriggio: si sono piazzati immediatamente nelle stazioni di polizia,
negli uffici del governo. Sono venuti da noi alla
Ortm,
la radiotelevisione maliana dove lavoravo. I tecnici erano tutti fuggiti, la radio era inutilizzabile. Dopo i tuareg dell’Mnla, sono arrivati quelli di Ansar Eddin, i tuareg islamici, e poi quelli di Al Qaeda e del Mujao. Gli islamisti hanno chiesto ai tuareg di tirare giù la loro bandiera, e hanno issato quelle nere della Sharia. L’Mnla ha lasciato il centro della città, si è spostato a Kabarà dove ci sono i depositi di carburante e al porto fluviale di Koroame ».
In pochi giorni di occupazione fra marzo e aprile, i tuareg dell’Mnla hanno devastato, saccheggiato, violentato donne. Il loro odio decennale per lo stato maliano si è concentrato su un popolo innocente. I tuareg di Ansar Eddin invece sono stati furbi, se ne sono andati a
Radio Buctoù,
la radio locale,
lì i tecnici c’erano ancora, i loro appelli alla radio dicevano: «Siamo venuti a proteggervi, rimetteremo le cose a posto, ristabiliremo la legge e l’ordine». Hanno aperto i depositi dei cereali, hanno distribuito a tutti miglio, grano e carburante per i gruppi elettrogeni, hanno fatto assemblee con la popolazione che chiedeva protezione dalle violenze dell’Mnla. Hanno incontrato gli imam, i
kadi,
i capi di Timbuctù. Ed è andata avanti così per qualche settimana.
Almouser continua il suo racconto senza respirare: «Poi, di colpo, i nuovi capi hanno deciso di far capire chi comandava: hanno iniziato a far chiudere i parrucchieri, a distruggere i bar in cui trovavano birre e alcool; entravano nelle case per imporre il velo alle donne, le hanno frustate; hanno tagliato mani e piedi ai ladri; hanno saccheggiato e depredato, magari
senza distruggerle, le poche chiese protestanti, cattoliche ed evangeliche di Timbuctù». Fra maggio e giugno la Sharia quindi è legge: l’Mnla è fatto fuori, la “polizia islamica” si insedia nel palazzo della Banque Malienne de Solidarietè, il tribunale islamico lavora nella sede della gendarmeria. Ancora un po’, e tra giugno e luglio iniziano a fare quello che tutti sanno: Timbuctù era la città dei 333 santi islamici, i santoni e marabutti sufi, gli uomini pii e devoti che per mille anni hanno guidato lo spirito di questa città. Avevano le loro tombe, i loro santuari. Gli islamisti distruggono e devastano, tagliano perfino la testa all’innocuo monumento di El Farouq, lo spirito del “cavaliere bianco”, il “folletto” che secondo la leggenda compare di notte per proteggere i poveri.
Così gli islamici di Ansar Eddin e Al Qaeda si sono presi il Nord; co-
sì l’esercito paralizzato e diviso si è ritirato, i “golpisti” rinchiusi qui a Kati. I vecchi generali e le truppe più vicine al presidente, i “berretti rossi” avevano provato un controcolpo di stato, ma Sanogo era blindata nella base più fornita e attrezzata del paese, i suoi “berretti verdi” sbaragliano i rossi del presidente e distruggono la base lealista.
Storia complicata, ma poi lineare: con i tuareg “laici” che avevano combattuto in Libia con Gheddafi che rientrano in Mali e conquistano il Nord, il mitico Azawad dei tuareg. Con la loro vittoria che innesca il golpe a Bamako. Ieri i ribelli tuareg, quelli islamici di Ansar Eddin e gli “sconfitti” dell’Mnla, hanno accettato una mediazione in Burkina Faso col governo di Bamako: hanno promesso di “cessare le ostilità” e provare a rispettare l’integrità del paese.
I jihadisti però non perdono tempo, sanno che prima o poi un attacco potrebbe arrivare dalla Francia e dagli stati dell’Africa Occidentale. Ogni giorno gli sfollati a Bamako parlano con le famiglie rimaste nel Nord. «Mio figlio mi ha detto che oggi sono arrivati altri 30 algerini, li hanno visti fare acquisti al mercato» dice madame Diallo, che a Timbuctù aveva un ristorante. «Arrivano rinforzi dall’Algeria, dalla Nigeria, dagli altri paesi dell’Africa dove ci sono jihadisti, e tra l’altro iniziano anche a reclutare soldati-bambini»: chi parla adesso è uno sfollato di rango, un deputato dell’Assemblea nazionale maliana. El Hadji Baba Haidara è figlio del primo presidente dell’Assemblea dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960; Baba è di Timbuctù come tutta la sua famiglia. «Io non sono tuareg, ma anch’io sono del Nord, conosco tutto della mia regione, sono anche il coordinatore di tutti gli eletti, deputati, consiglieri provinciali e comunali della regione. Voglio dire
una cosa chiaramente, anche all’inviato dell’Onu Romano Prodi che crede si possa aspettare fino al settembre del 2013 prima di un’azione militare: non c’è alternativa a un intervento subito. Questa parte del mondo diventerà davvero il nuovo Afghanistan. Questi tagliano le mani dei nostri cittadini proprio così come sgozzano i montoni. Ogni semplice dichiarazione di incertezza della comunità internazionale, dell’Onu, della Ue, è un successo per Al Qaeda, perché impaurisce i suoi avversari e rafforza i terroristi».
Se però fate notare al deputato Baba che ci sono paesi come Algeria o Burkina Faso, che preferiscono una lunga “mediazione” perché a loro fa comodo avere i jihadisti concentrati in Mali invece che dentro casa, Baba reagisce con forza. «Posso capire alcuni elementi dello stato algerino», dice il deputato, «o chi si illude di liberarsi di Aqmi spingendolo nel deserto verso il Mali. È sicuro che ci sono anche personaggi algerini che lavorano col traffico della droga, ma l’Algeria sa bene che quello che accade oggi va al di là di ogni possibile tolleranza per uno stato come il loro».
Per Al Qaeda era un sogno, conquistare uno regno africano immenso, smisurato, un’area più grande della Francia in cui scorrazzare e trafficare. Una base alle porte di un’Europa stanca di troppe guerre e sfinita da molte crisi. Baba, il deputato, chiude con la sua ultima profezia: «State attenti, il regno africano di Al Qaeda è pronto a mangiarsi i nostri poveri stati africani, ma a minacciare anche i vostri. Voi siete stanchi, noi africani siamo impotenti, per la nostra povertà, le nostre divisioni, i nostri limiti. Loro, quelli di Al Qaeda, sanno bene quello che vogliono. E stanno per venire a prenderselo.
Tutto».


RENZO GUOLO
Il Nord del Mali è oggi il cuore dello spazio geopolitico islamista radicale in Africa. Vi si muovono gruppi dalle capacità militari, dalla composizione etnica, dalla convinzione ideologica, assai diverse.
Ansar Dine, guidato Iyad Ag Ghali, ha soppiantato il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, secessionista e laico, che con la sua azione armata ha provocato la deflagrazione territoriale dello stato africano. Ansar Dine è alleato con il Movimento per l’unicità e il jihad in Africa Occidentale (Mujao) di Hamada Kheirou, transfuga dall’Aqmi in polemica con l’emiro Droukdel, accusato di non valorizzare i non algerini. Nel Mujao, che controlla la città di Gao, militano oltre che arabi, saharaui delusi dal Polisario e persino militanti di Boko Haram in fuga dalla Nigeria.
Ma è l’Aqmi, sospinto non certo disinteressatamente fuori confine dal potere algerino, il regista poco occulto della scena maliana. I suoi militanti sono nell’area da anni. Prosperano sulle divisioni interne delle altre componenti, afflitte da conflitti etnici e tribali, da sindromi del bottino diseguale, da ambizioni non nascoste dei loro leader. E sui proventi ricavati dalla presa di ostaggi occidentali, dal contrabbando, dal traffico di diamanti e droga organizzati da Mokthar Belmoktar, teorico dell’allargamento della base familiare della sua cellula mediante matrimoni con ragazze locali. Il “diritto di necessità” legato alle esigenze del jihad legittima la contaminazione del credo purista con pratiche illecite.
È sotto questa cupa volta ideologica che sono cadute le città maliane del Nord. A Timbuctù, deculturata dalla brutale cancellazione dell’eredità sufi, si è insediato l’algerino Abu Zeid, capo della principale
katiba,
cellula, dell’Aqmi. Nella “città dei santi” le donne vengono duramente punite se non indossano il velo. A Aguelhok una coppia “illegittima” è stata lapidata; a Gao le flagellazioni pubbliche con le fruste usate per i dromedari sono all’ordine del giorno, anche per chi fuma o beve alcolici. Gli islamisti radicali compensano i loro eccessi ideologici, presentandosi come partito d’ordine: il furto e il banditismo sono puniti con l’amputazione.
Il vessillo nero qaedista sventola ormai ai piedi delle falesie di Bandiangara e del paese dei Dogon. E Francia e Stati Uniti premono per un intervento armato degli stati dell’Africa Occidentale. L’operazione però non decolla. L’Onu preferisce una soluzione politica e posticipa l’eventuale intervento armato alla fine dell’estate 2013. Un buco nero, quello africano, che inghiotte stati falliti e simulacri di stati nazionali ispirati al modello europeo, collassati sotto la pressione di nuovi e antichissimi legami transnazionali.
© RIPRODUZIONE RISERVATA