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 2012  dicembre 05 Mercoledì calendario

Notizie tratte da: Raffaele Cantone, Gianluca Di Feo, Football clan, Rizzoli 2012, pp. 288, 17 euro

Notizie tratte da: Raffaele Cantone, Gianluca Di Feo, Football clan, Rizzoli 2012, pp. 288, 17 euro.

(vedi anche biblioteca in scheda 2226615
e libro in gocce in scheda 2251394)

Altri tempi «L’Italia del 1978 era ancora provinciale, lontana dall’idea del pallone come business. C’era sì la Juventus degli Agnelli, ma la lotta per il campionato si disputava tra tanti padroncini locali, signori di un altro tempo in cui le squadre erano bandiere municipali. Alcuni nomi sono rimasti leggendari: il Pisa di Romeo Anconetani, il Catania di Angelo Massimino, l’Ascoli di Costantino Rozzi, il Napoli di Corrado Ferlaino. L’Inter era di Ivanoe Fraizzoli, che confezionava uniformi militari e divise per maggiordomi; il Milan di Felice Colombo, un impresario brianzolo di materie plastiche».

Debiti Romeo Anconetani «che schedava dai giornali i nomi dei giocatori promettenti, e spesso si indebitavano fino al collo».

Strafalcioni Gli strafalcioni memorabili di Angelo Massimino che voleva noleggiare voli “charleston” invece che charter e che all’obiezione “Manca l’amalgama” replicava: “Ditemi in che squadra gioca e lo compro subito”.

Numeri 1 In Italia 9 milioni di persone vanno allo stadio, 20 milioni seguono il football sui giornali, 25 milioni lo guardano in televisione. Dei 500 uomini che militano in Serie A, un quinto ha stipendi annuali superiori al milione di euro. In Europa la Uefa ritiene che ogni anno 5,6 miliardi di euro vengano spesi per le paghe dei giocatori. Il Milan è arrivato a sborsare 160 milioni per la sua falange di fuoriclasse, 145 milioni l’Inter, 100 la Juve e persino il Napoli, ultima arrivata tra le grandi del Vecchio Continente, tira fuori oltre 41 milioni per la squadra.

Numeri 2 «Nel 1984 per strappare Maradona al Barcellona il Napoli spende complessivamente 15 miliardi di lire. Quando nel 1999 Bobo Vieri viene comprato dall’Inter per 90 miliardi di lire, il poster con la cifra di 11 numeri pubblicizza una carta di credito dalla spesa illimitata, l’apoteosi di un mondo che sembra avere perso qualunque misura. Oltre la metà delle
multinazionali arruola i giocatori per imporre i suoi marchi: sono i promotori migliori, i più corteggiati. Ormai i contratti pubblicitari rendono più degli ingaggi per giocare: l’immagine vale più della sostanza. Oggi Lionel Messi si stima che guadagni 10 milioni e mezzo di euro per i suoi
gol con il Barcellona e ben 26 per spot e sponsorizzazioni. L’anzianotto ma sempre glamour David Beckham a 5 milioni di paga ne aggiunge 26 per propagandare ogni genere di mercanzia».

O’ professore Raffaele Cutolo, che alla fine degli anni Settanta «sta
inventando la camorra moderna»: «Figlio di contadini, ha un diploma di
ragioniere ed è un divoratore di libri, ma a 22 anni durante la lite per una ragazza uccide un coetaneo. In carcere diventa “o’ Professore“: pianifica a tavolino una nuova formula criminale, ispirandosi ai rivoluzionari sudamericani per fare presa sulle masse proletarie. I vecchi boss cercavano di dominare il territorio, lui punta al controllo delle persone. L’obiettivo non è più guadagnare, ma dominare: non cerca ricchezza, vuole potere. [...] Ha costruito un avamposto a Roma; sogna di mettere le mani su Milano e inondare l’Europa di cocaina, la nuova droga che piace tanto
ai ricchi. Si impossesserà persino della catastrofe naturale più grave della storia repubblicana, il sisma del 1980 con oltre 3000 morti e due province rase al suolo, diventando l’arbitro della ricostruzione da 20.000 miliardi di lire. Ai suoi ordini ci sono camorristi, industriali, parlamentari, uomini
di governo; ai suoi piedi c’è un’intera regione obbligata a scegliere tra disoccupazione ed emigrazione. [...] Non vuole essere un padrino, ma un sovrano: si sente uno statista. E sa che la sua gente è affamata di calcio».

Cutolo e Juary Nel 1980 il presidente dell’Avellino Antonio Sibilia, «un costruttore che ha moltiplicato il fatturato grazie al dramma del sisma incassando fiumi di denaro pubblico», compra Juary, «una stella carioca dal Santos di Pelé che quando segna danza girando intorno alla bandierina: un rito che fa impazzire gli ultrà e lo rende popolare in tutta Italia». Dopo un mese dal suo sbarco in Italia, Sibilia carica Juary in macchina e lo porta a Napoli, in un’aula di tribunale affollatissima dove si celebra il primo maxiprocesso alla camorra. «Il patron, tenendo il brasiliano sottobraccio, va fino alla gabbia dei detenuti e bacia tre volte l’uomo rinchiuso tra le sbarre. Poi tira fuori una medaglia d’oro con il lupo irpino, simbolo della squadra. La da al giocatore perché la consegni al recluso, tra i flash dei fotografi che immortalano la stretta di mano tra Juary e don Raffaele. “Cutolo è un supertifoso dell’Avellino” chiosa compiaciuto il presidente davanti alle telecamere. In Europa non è mai accaduto nulla del genere, né prima, né dopo. Un riconoscimento plateale dell’autorità mafiosa, l’omaggio di un team di calcio a un padrino, accusato di decine di omicidi. Che viene mostrato ai tifosi campani come il protettore dello sport più amato: una consacrazione, fondamentale per il disegno criminale cutoliano».

Gambizzato Luigi Necco, il telecronista che per la Rai commentava le partite di Napoli e Avellino, avendo criticato con parole dure, durante la Domenica Sportiva, il gesto vergognoso di Sibilia, la domenica successiva, prima del match, si trovò davanti tre sicari che gli spararono nelle gambe.

Maradona nella conchiglia La foto memorabile di Diego Armando Maradona a Napoli in una vasca a forma di conchiglia accanto a Luigi Giuliano, boss di Forcella con fama di sciupafemmine chiamato “Lovigino” storpiando le dichiarazioni d’amore delle turiste straniere che lo inseguivano gridando “I love you Gino!”».

Incoronazioni «La conchiglia non è in un condominio alberato del Vomero, la collina della borghesia facoltosa; non è su uno dei panfili ormeggiati al largo di Capri; non è in una villa della Costiera Amalfitana dove soggiornano registi di Hollywood. No, Maradona si tuffa proprio nel ventre più degradato di Napoli. E non è il solo: altri giocatori dello scudetto azzurro frequentano i Giuliano, partecipano ai loro matrimoni e ai
loro battesimi. Per i boss si tratta di un’incoronazione: aver ospitato gli idoli del pallone, averli convinti a entrare in quel regno di squallore tributa loro un prestigio che nessun altro clan può vantare. E le foto provano e diffondono quel trionfo in tutta la metropoli».

Oltre la legge Quando la polizia nel febbraio 1986 trova l’album con
decine di scatti durante una perquisizione, propone di indagare per capire quale fosse la natura dei rapporti tra il Pibe de Oro e i padrini. «Ma al vertice ci si preoccupa per la tenuta dell’ordine pubblico, perché quell’inchiesta potrebbe scatenare una sommossa: la squadra marcia verso lo scudetto in una cittá che delira per i miracoli del Numero 10. Maradona è oltre la legge». Luis Moreno Ocampo, il giudice che incriminò i generali della dittatura argentina, ancora oggi stupito per l’immunitá concessa a Maradona: «Muoversi con lui era incredibile: c’erano folle che accorrevano per venerarlo. I poliziotti che dovevano arrestarlo, persino i magistrati chiamati a giudicarlo imploravano un autografo. A lui si perdonava tutto: persino il papa lo ha salutato dicendo “Sono un suo tifoso”».

Scommesse clandestine «Dieci anni dopo le istantanee dei party con il campione, due dei fratelli Giuliano hanno cominciato a collaborare con gli investigatori. Hanno raccontato ai magistrati napoletani l’epopea del loro dominio criminale. E hanno ricostruito il modo in cui il clan aveva preso il controllo delle giocate sul pallone. Sotto di loro, le scommesse clandestine si sono modernizzate. Il Totocalcio era rimasto alla schedina che premiava il 13 o il 12, loro hanno capito che il mercato chiedeva novità e – imitando
i bookmaker britannici – si sono lanciati nelle puntate su un numero ristretto di match o su un unico incontro: la martingala della camorra era più flessibile e accattivante, e si è diffusa così in tutta la Penisola».

Partite truccate A Napoli il settore delle scommesse clandestine era tutto unificato sotto i signori di Forcella. «Guglielmo Giuliano, detto “’o Stuorto”, nel 1999 ha descritto la genesi di questo impero davanti ai pm Giuseppe Narducci e Aldo Policastro: un romanzo che parte dagli anni Settanta e arriva fino a ieri. “Con le scommesse guadagnavamo anche 2 miliardi e mezzo di lire a settimana”. La formula magica di tanta ricchezza? “Molte partite sono state combinate e truccate attraverso il rapporto che esisteva tra la nostra famiglia con persone del mondo del calcio”. Le feste, la cocaina, le ragazze messe a disposizione degli ospiti erano un duplice investimento: davano lustro al blasone del clan e permettevano di penetrare negli spogliatoi, per corrompere e vincere».

Balotelli a Scampia 1 Mario Balotelli che nel 2010 visita Scampia con un paio di ceffi della camorra. «Gira in motorino tra i canyon interni ai palazzoni, entra nelle camere della droga, osserva le bancarelle che mettono in mostra la merce. Impossibile non notarlo: è un colosso con le scarpe fosforescenti, un idolo che tutti riconoscono, anche all’inferno. La notizia passa di bocca in bocca. Don Aniello Manganiello, che nella chiesa di Santa Maria della Provvidenza ha lottato insieme a tante piccole associazioni per aprire uno spiraglio nella coltre nera, ricorda: “Me ne parlarono i ragazzi della parrocchia. Speravo venisse da noi, da chi, con sacrificio e mettendosi in pericolo, cerca di strappare braccia alla camorra”. No, quel giorno il Bad Boy dimentica di essere il testimone di un’Italia diversa, che crede nel calcio pulito e nel riscatto che può scaturire dal talento: con la sua cavalcata nei territori del male si presta a fare da testimonial alla camorra».

Balotelli a Scampia 2 «I militari hanno indagato per ricostruire il significato di quella gita. Il loro dossier è stato trasmesso alla procura antimafia partenopea, che ha convocato Balotelli: un testimone, senza nessuna ipotesi d’accusa. Lui si presenta con un’aria da vacanza [...] poi si tenta di giustificare l’assurdo: “Ho chiesto di visitare anche i luoghi fuori dagli itinerari turistici perché sapevo, dopo aver visto il film Gomorra che mi aveva colpito molto, che c’è anche un’altra realtà. Ho voluto vedere di persona per cercare di capire i gravi problemi della periferia di Napoli”».

Le pizzerie di Cannavaro Fabio Cannavaro, socio della catena di pizzerie Regina Margherita aperte in mezza Italia dall’imprenditore Marco Iorio, arrestato nel giugno 2011 con l’accusa di avere ripulito i soldi della camorra. «A verbale il testimone Cannavaro ricostruisce la storia del suo rapporto con Marco Iorio: “L’ho conosciuto sei o sette anni fa e dopo circa un paio di anni sono entrato in società con lui nel ristorante di Napoli Regina Margherita, acquistando il 10 per cento delle quote della società. Fui io a propormi a Iorio, dicendogli che era mia intenzione diversificare gli investimenti. Ho conferito 150.000 o 200.000 euro, non ricordo con esattezza [...] la leggerezza di Cannavaro negli affari non ha rilevanza penale: i pm non gli contestano reati. Il campione non ha mai sospettato che dietro la rapida crescita dell’azienda in cui aveva investito parte dei suoi ingaggi milionari potessero esserci uomini della camorra. Da anni vive lontano: Torino, Madrid, Dubai. E anche se ha mantenuto un rapporto forte con la sua città, non si è mai preoccupato di capire se il successo di Iorio fosse solo merito delle prelibatezze e dello charme dei locali. La pensa diversamente il suo agente e factotum Cioffi, che alle domande dei magistrati risponde: “Effettivamente, anch’io mi sono chiesto come abbiano fatto i fratelli Iorio ad aprire tutte quelle attività di ristorazione, tra l’altro nel quartiere di Santa Lucia notoriamente ad alto tasso criminale, senza avere problemi. Sicuramente il padre o lo zio di quest’ultimi non facevano i palazzinari e, per sentito dire, sapevo che aveva avuto dei rapporti nel contrabbando di sigarette. Non nascondo che mi è sembrato strano che gli Iorio siano riusciti a crescere, dal punto di vista imprenditoriale, così esponenzialmente in poco tempo».

Chinaglia e i casalesi 1 Giorgio Chinaglia, morto in Florida nell’aprile 2012, da latitante, inseguito da un mandato di cattura internazionale per riciclaggio che non gli permetteva di mettere piede in Europa. Aveva cercato di comprare la Lazio di Lotito, muovendosi dietro il paravento di
una fantomatica holding farmaceutica ungherese, coi soldi della camorra. «Long John Chinaglia si imponeva in area con un metro e 86 d’altezza. Faticava però a frenare la sua esuberanza. Quando ai Mondiali in Germania Ovest, nel giugno ’74, Valcareggi lo sostituisce, lui replica con un “vaffanculo” in eurovisione, possente come i suoi dribbling. A San Siro prende a calci un compagno che non corre abbastanza dietro a Sandro Mazzola. Ma ha sempre continuato a sognare la Lazio, fino a rovinarsi. Nel 1983 spende 2 miliardi di lire per diventarne presidente e in due anni non riesce a ripetere l’incantesimo. Anzi, la squadra viene retrocessa e la gestione È così spericolata da fargli piombare addosso una condanna per bancarotta e falso in bilancio. Una lezione che non gli è servita. Nel 2006 l’ex campione torna protagonista, ma in un’inchiesta della procura antimafia di Napoli. Quando gli investigatori ascoltano per la prima volta il riferimento a Giorgio rimangono increduli. Stanno indagando sul clan più potente della Campania, quello dei casalesi, e tutto si aspettano fuorché di incappare in un mito. Così i primi riferimenti a “Chinaglia” assorbiti dai registratori sono accolti con perplessità nella sala d’ascolto della procura: “Ma non stava in America? No, non può essere proprio lui...”».

Chinaglia e i casalesi 2 Fuggito il America per evitare l’arresto, «il cannoniere ha sempre respinto le accuse. E qualche volta ha negato anche l’evidenza. In una delle ultimissime interviste concesse dalla latitanza americana ha ribadito: “Io ho parlato solo con Di Cosimo. Lui ha convocato la stampa, mi ha spedito in Consob, dalle autorità di Borsa, con un foglio dove aveva scritto il nome di un’azienda ungherese. Come facevo a sapere che non era vero?”. Già, ma quel pezzo di carta ha spinto su e giù il titolo biancoazzurro in Borsa, bruciando i risparmi di tifosi e investitori. La Consob gli ha inflitto una multa da 4 milioni e 200.000 euro “per avere manipolato il mercato con false dichiarazioni”, privandolo per diciotto mesi dei “requisiti di onorabilità” per guidare una società. Ancora più pesante il provvedimento del gip, con una contestazione che poteva costargli 10 anni di carcere. Secondo l’ordinanza, confermata dalla Cassazione, Long John era consapevole della vocazione criminale dei suoi referenti e si è prestato a un’operazione di riciclaggio. Nel documento si riportano le telefonate in cui incalza Giuseppe Diana: “Prendi la situazione in mano, ti sei esposto per tanto”. E l’uomo di Mondragone replica, confermando il suo ruolo: “L’importo è grosso e ho più interesse di tutti”».

La scalata alla Roma Nel 2009 l’agente Vinicio Fioranelli, attivo nel calciomercato di tutta Europa, tentò la scalata alla Roma dei Sensi millantando di poter mettere sul tavolo 300 milioni di euro e provandolo con false certificazioni. Venne fuori che dietro di lui si celava il più grande falsario della storia itaiana: Elio Ciolini, che depistò molte indagini, fra cui quella sulla strage di Bologna. Alla fine i soldi non si videro, l’accordo saltò, e i due faccendieri furono arrestati.

Cicciobello Giuseppe Postiglione, che diventò presidente del Potenza nel 2006 a soli 24 anni. «Un record che lo ha fatto conoscere in tutta Italia come “il presidente ragazzino”: ha il volto paffuto da bambino che gli è valso il soprannome di Cicciobello, e la fronte stempiata di chi ha la testa sempre piena di pensieri. Si è ritrovato sulla poltrona più importante con pochi quattrini, sfruttando rapporti e intuizioni mediatiche: la famiglia possiede già una casa editrice con radio e tv locali, ha moglie e figli ma non si accontenta dello status di notabile. Quando le sventure dei suoi predecessori lo impongono in cima alla tribuna, cerca subito di capire come sfruttare velocemente la posizione». Arrestato nel novembre 2009, con ad altre otto persone, dirigenti sportivi e uomini della criminalità organizzata lucana, per associazione a delinquere finalizzata alle frodi nelle competizioni sportive, violenza privata ed estorsione.

Tesoretto Tra la fine del 2008 e il 2009, Cicciobello con scommesse e partite truccate aveva racimolato un tesoretto, nascosto in un conto monegasco, di oltre 400.000 euro. «Qualcuno gli consegna le dritte sui match giusti e lui le trasforma in moneta sonante. Il suo autista racconterà di lunghe attese, come quella nel pomeriggio di Natale davanti a un albergo romano in via del Corso. Appena il presidente torna, lo spedisce subito a puntare migliaia di euro, dividendo le somme su più ricevitorie».

Il calcio a Palermo «Quella del calcio a Palermo è una storia che si è intrecciata con i drammi e le speranze della città. Il passato è legato a figure leggendarie, spesso esponenti dell’antica nobiltà come il conte Raimondo Lanza di Trabia: il dandy con cilindro e bastone che ha ispirato la canzone Vecchio frac di Domenico Modugno. O il «presidentissimo» Renzo Barbera, a cui oggi è intitolato lo stadio della Favorita, che si indebitò fino al collo per riconquistare la Serie A. Ma alla fine degli anni Settanta, mentre i killer corleonesi di Totò Riina lanciano l’assalto alla metropoli e al vecchio sistema di potere politico-mafioso, anche la squadra piomba in una voragine di scandali e violenze. Gaspare Gambino, presidente nel 1981, finisce tre volte in carcere e viene accusato – senza fondamento – persino dai sicari della banda della Magliana. Drammatico il destino del suo successore, l’industriale degli appalti Roberto Parisi: nel 1985 un commando sbarra la strada alla sua auto e lo ammazza assieme all’autista. Un anno dopo la società si dissolve e viene cancellata da tutti i campionati: è il momento peggiore negli annuari del calcio rosanero. La primavera di Leoluca Orlando la fa risorgere con un nuovo nome, grazie alla sponsorizzazione del Comune. Ma nemmeno l’aquila bianca, scelta come simbolo di purezza, allontana le ombre. Il nuovo manager Liborio Polizzi, presidente per due anni, finisce in manette nel 1997 mentre è assessore della giunta provinciale di centrosinistra: lo incriminano per avere aiutato Cosa nostra, offrendo protezione anche agli assassini del dirigente comunista Pio La Torre. I verbali lo descrivono in simbiosi con personaggi sanguinari: avrebbe mandato Pietro Romeo, “lo squartatore di Brancaccio”, a picchiare un magazziniere della Favorita reo di averlo insultato. E avrebbe chiesto a Cosa nostra di intervenire per regolare i conti economici in sospeso con il suo successore, poi a sua volta finito nei guai per bilanci truccati e altri inghippi. Il tutto mentre sono in corso indagini per scommesse clandestine e gare combinate. Insomma, un pessimo ambiente».

Riina e la Gazzetta dello sport Totò Riina, rinchiuso dal gennaio 1993 in una stanza di pochi metri quadrati, «spiato notte e giorno dalle telecamere, ha un solo appuntamento quotidiano: la lettura della Gazzetta dello Sport».

Le giornate di Riina Dopo la scarcerazione, il camorrista Salvatore Savarese ha raccontato a Giovanni Bianconi del Corriere della Sera le sue giornate con Riina: «Segue il calcio, è tifoso del Milan oltre che del Palermo. Nell’estate 2002 ha visto i Mondiali coreani e per l’eliminazione dell’Italia non se l’è presa con l’arbitro Moreno ma con Trapattoni che non faceva giocare Montella».

Ultima parola Nel 2003 Riina è stato trasferito a Opera, alle porte di Milano, in un penitenziario dove si lamenta perché gli è stato tolto anche il bidet. Continua a leggere tutti i giorni la Gazzetta dello Sport. Nell’unico lungo colloquio con il figlio Giovanni, anche lui recluso dal 1996, discute più volentieri di ciclismo che non di calcio: si entusiasma per Petacchi e Basso, anche se “c’è questo Contador, minchia, è troppo forte”. Ha 82 anni, più della metà dei quali trascorsi in fuga o in prigione, soffre di cuore, ma non rinuncia a sentirsi il capo. E impartisce all’erede una lezione di mafiosità, sapendo di essere intercettato, sulla potenza dei segreti che custodisce in silenzio: “Ho detto che Riina è capace di tutto e di niente. Però tuo padre è incredibile, quando tu credi sappia tutto non sa niente, ma come lui tanti di questi signori sono ridotti così. Quasi un po’ tutti. Perché un po’ tutti? Perché l’ultima parola era sicuramente la mia e quindi l’ultima parola non si saprà mai”».