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 2012  dicembre 05 Mercoledì calendario

È stata la seconda grande nazionalizzazione italiana. Nel 1905 la legge numero 138 del 22 aprile dispone il passaggio al pubblico della maggior parte delle linee ferroviarie

È stata la seconda grande nazionalizzazione italiana. Nel 1905 la legge numero 138 del 22 aprile dispone il passaggio al pubblico della maggior parte delle linee ferroviarie. Il 6 dicembre 1962, cinquant’anni fa, la legge numero 1643 istituisce l’ente di diritto pubblico Enel. Quando il presidente della Repubblica Antonio Segni (in carica dal maggio precedente) firma la norma, i consumi elettrici pro capite degli italiani sono ancora notevolmente inferiori a quelli dei principali Paesi europei. Un divario avvertito soprattutto al Sud. L’elettricità non arriva a tutti gli italiani: il censimento generale della popolazione del 1961 rileva che più di 700.000 abitazioni, il 5,1%, ne sono prive. Sei famiglie su dieci hanno la televisione, molte meno (tre su dieci) lo scaldabagno elettrico. Ma se le necessità di fondo che spingevano verso la nazionalizzazione erano sociali e soprattutto industriali — si era in pieno boom economico e le forniture all’industria sarebbero state meglio assicurate da un unico soggetto pubblico piuttosto che da più soggetti privati frazionati — la partita che si era giocata in quegli ultimi anni era stata soprattutto politica. E poi di potere e di denaro, tanto denaro. Una storia raccontata più volte, da ultimo da Valerio Castronovo nel suo recentissimo «Il gioco delle parti» (Rizzoli). Tra tante contorsioni la Dc e il governo di Amintore Fanfani (quello definito delle «convergenze parallele» dal segretario politico Aldo Moro) avevano dovuto interrogarsi sulla fine del centrismo e avevano aperto a sinistra, staccando così i socialisti dai comunisti. Le diverse anime del Psi di Pietro Nenni su una sola cosa erano d’accordo: le «riforme di struttura». E la regina delle riforme non poteva che essere una, come richiedeva a viva voce il leader della sinistra socialista Riccardo Lombardi: la nazionalizzazione dell’energia elettrica che sfociò, appunto, nella nascita dell’Enel. L’opposizione era stata trasversale: all’interno degli stessi partiti di governo (perché, sostenevano i dorotei, spartire le chiavi della politica economica con socialisti e repubblicani?) anche se l’ostinazione più feroce e partecipata fu ovviamente quella degli industriali. Degli uomini del «trust elettrico» composto da Edison, Sade, Centrale e Bastogi. E su tutti — non solo perché era alto più di un metro e novanta — l’ingegner Giorgio Valerio. Il capo indiscusso (e intrattabile, secondo la testimonianza di molti) della società di Foro Buonaparte. L’argomento di facciata era quello del «cavallo di Troia»: la nazionalizzazione elettrica sarebbe stata un grimaldello che avrebbe aperto la porta della stanza dei bottoni al Pci di Palmiro Togliatti. Una resistenza, quella dei privati, espressa in posizioni articolate e con una loro evoluzione intrinseca. Tanto che, secondo quanto anche Castronovo pare accreditare, l’arroccamento di Valerio e degli «elettrici» può essere letto in retrospettiva come un tentativo di alzare il prezzo degli indennizzi. Un conto assai ricco: nei primi cinque anni furono trasferite alla neonata Enel un migliaio di imprese (furono poi circa 1.300) e l’esborso della mano pubblica arrivò a circa 1.650 miliardi delle vecchie lire. Alla fine del processo i privati incamerarono più o meno 2.200 miliardi. E non fu istituito, come era nei progetti, un fondo di dotazione al nuovo ente pubblico, un po’ sul modello di quanto era stato fatto per l’Eni. Una mossa che tutelò in qualche misura i conti dello Stato, venendo incontro ai timori della Banca d’Italia e a quelli dei meridionalisti come Pasquale Saraceno che paventavano pericolosi riflessi dell’operazione sui propositi di rilancio del Mezzogiorno. È curioso constatare che nel lungo e travagliato processo della nascita dell’ente elettrico neppure il fronte confindustriale risultasse molto compatto. Da esso il «partito Fiat» si distaccò. Vittorio Valletta e l’avvocato Agnelli guardavano avanti, e avevano maturato un atteggiamento assai meno critico nei confronti del centrosinistra in seguito all’incontro che ebbero alla Casa Bianca (15 maggio 1962) con il presidente John Kennedy. Dopo quell’appuntamento scattò anche la molla di ostilità e antipatie personali: Valerio ventilò addirittura l’ipotesi di creare una società comune con la Volkswagen per produrre auto in Italia. Stefano Agnoli