Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 05 Mercoledì calendario

MARIA ANTONIETTA CALABR0’ SULLA SENTENZA CHE SCIOGLIE IL CONFLITTO TRA QUIRINALE E PROCURA DI PALERMO


ROMA — Ha ragione il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E ha ragione su tutta la linea. E adesso le quattro registrazioni in cui è incisa la voce del presidente Napolitano che parla al telefono con l’ex ministro Nicola Mancino, coinvolto nell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, dovranno essere distrutte.
All’unanimità la Corte costituzionale ha accolto il ricorso per conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale nei confronti della Procura di Palermo per salvaguardare le prerogative istituzionali del capo dello Stato.
Innanzitutto, secondo la Consulta, la Procura di Palermo non poteva in alcun modo «valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica, captate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08». Insomma, la Procura non poteva ascoltare e tanto meno analizzare il contenuto delle intercettazioni di cui era stato protagonista sia pure indiretto il presidente Napolitano.
In secondo luogo, la Procura non poteva omettere (come ha invece fatto) «di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, 3° comma, del Codice di procedura penale».
Terzo: questa distruzione doveva in ogni caso avvenire «con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto», e quindi quelle telefonate dovevano essere distrutte escludendo comunque «la sottoposizione della stessa» «al contraddittorio delle parti», cioè all’udienza preliminare dove hanno diritto di essere presenti tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nel procedimento e i loro difensori, oltre ai magistrati del pubblico ministero ed il giudice.
Il dispositivo della decisione della Corte è stato reso pubblico poco dopo le 20 di ieri sera, ed esso è stato votato all’unanimità. Un solo giudice aveva avuto delle perplessità e ad un primo giro di tavolo si era detto contrario. Non convinto non tanto dell’esito finale, quanto della stesura delle linee-guida delle motivazioni della decisione (che saranno scritte dai relatori Silvestri e Frigo) che dovranno tenere conto di alcune precedenti sentenze della Consulta: la 262 del 2009 sul legittimo impedimento, due conflitti (88 e 89) del 2012 e soprattutto la sentenza Flick 390 del 2007 (sulle intercettazioni indirette dei parlamentari).
Per questo, intorno alle 18 la camera di consiglio, iniziata alle 16, è stata sospesa e poi la discussione è continuata. Ma a questo punto, il dispositivo è stato votato all’unanimità.
«La Consulta ha fatto chiarezza su una situazione non regolata da norme specifiche del Codice di procedura penale e che si prestava a diverse interpretazioni» ha commentato il presidente dell’Anm, Rocco Sabelli.
«Il capo dello Stato, nell’esercizio delle sue funzioni — ha commentato l’avvocato Gianluigi Pellegrino — non è mai soggetto alla magistratura ordinaria e quindi le sue comunicazioni non possono mai essere da questa né ascoltate né valutate. Si trattava però di individuare la norma che ne prevedesse la distruzione e questa era appunto rintracciabile nell’articolo 271 del Codice di procedura penale».
«Aspettiamo di leggere il provvedimento» ha commentato a caldo il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo. La Procura di Palermo potrebbe aspettare fino al deposito della sentenza (che potrebbe avvenire a gennaio, ma anche prima) per procedere alla distruzione dei nastri.
M. Antonietta Calabrò

MARZIO BREDA SUGLI UMORI DEL QUIRINALE
INTERVISTA A INGROIA DI GIOVANNI BIANCONI
ROMA — La voce dell’ex procuratore aggiunto Di Palermo Antonio Ingroia arriva dal Guatemala, ferma e decisa: «La lettura del comunicato della Corte mi fa pensare che devo ricredermi».
Sta dicendo che avete sbagliato nel trattamento di quelle quattro telefonate, dottor Ingroia?
«Niente affatto. Devo ricredermi su quanto pensai quest’estate leggendo le considerazioni di Gustavo Zagrebelsky, il quale riteneva che la sentenza dei suoi ex colleghi della Consulta fosse già scritta. Credevo che esagerasse, invece aveva ragione: per ragioni politiche prima ancora giuridiche, non c’era altra via d’uscita che dare ragione al presidente della Repubblica».
Quindi lei pensa che i giudici costituzionali abbiano scritto una sentenza politica?
«Penso che avessero l’esigenza di dare ragione al capo dello Stato. Aspetterò di leggere le motivazioni della sentenza per capire se volevano anche dare torto alla Procura di Palermo ad ogni costo, ma dalle righe diffuse fin qui si capisce che dovevano sostenere in tutto la posizione del Quirinale. Poi magari le motivazioni mi convinceranno del contrario, ma ora non posso che esprimere queste valutazioni».
Ma scusi, non possono esserci motivazioni semplicemente giuridiche, alla base della decisione? Non potete aver sbagliato voi, anziché loro?
«Certo che possono esserci, ma allora avrebbero dovuto esprimersi in maniera diversa. Dal tenore del comunicato si capisce che secondo loro noi avremmo dovuto dar vita a una giurisprudenza creativa, con un’interpretazione della legge che si sarebbe risolta in una sua violazione. È assurdo, una posizione davvero bizzarra».
Veramente la Corte sostiene che la legge l’avete violata voi, non applicando un articolo del codice che avreste dovuto rispettare e invocando quello sbagliato.
«Ma non è così. Sa di che cosa sono convinto? Che se noi avessimo fatto quello che oggi sostiene la Corte, e cioè trasmettere le telefonate al giudice chiedendo la distruzione delle conversazioni senza contraddittorio con le parti, il giudice avrebbe ordinato il deposito e il contraddittorio con tutte le parti del procedimento, facendole inevitabilmente diventare pubbliche. Anche per questo noi non abbiamo preso quella strada, preoccupandoci di preservare al massimo la riservatezza delle conversazioni del presidente. E questa è la ricompensa».
Quindi oggi sareste vittime di irriconoscenza?
«Siamo cornuti e mazziati, per usare termini meno giuridici e più popolari. Noi abbiamo fatto di tutto perché di quelle conversazioni non uscisse nemmeno una riga, e infatti non è uscita nemmeno una riga. Proprio perché avevamo a cuore la riservatezza delle conversazioni del presidente. A fronte di ciò, non solo non abbiamo avuto alcuna riconoscenza, ma ci siamo visti prima sbattere contro un conflitto davanti alla Corte costituzionale, e adesso una sentenza punitiva. Sinceramente mi pare assurdo».
Crede che le polemiche anche politiche suscitate da questa vicenda abbiano pesato sul giudizio della Consulta?
«Credo proprio di sì. Nonostante la dichiarata irrilevanza delle conversazioni intercettate casualmente sul merito dell’inchiesta, ci sono stati mesi di can-can politico e mediatico che hanno catturato l’attenzione, perfino a livello internazionale. Temo sia inevitabile che abbiano pesato sulla decisione».
Quindi i giudici costituzionali sono stati condizionati?
«Il comunicato emesso dà la sensazione di una sentenza che risente anche del condizionamento del clima politico. Del resto non penso che esistano sentenze che non risentono del clima generale che si respira in un Paese. Anche quelle in materia di mafia, sia ai tempi delle assoluzioni di massa per insufficienza di prove sia quando si è arrivati alle condanne».
Ma non c’è nemmeno una cosa su cui ritiene di dover fare autocritica?
«Forse abbiamo sbagliato a sottovalutare l’impatto mediatico delle strumentalizzazioni, ci siamo preoccupati più di mantenere la segretezza che degli attacchi che sarebbero arrivati al nostro ufficio».
Ma era lei che andava in giro per appuntamenti politici...
«Oggi che non sono più procuratore aggiunto è la prima volta che parlo del merito della questione. Quanto alla partecipazione ai dibattiti pubblici, ho già spiegato più volte quelli che ritengo siano miei diritti».
La sentenza della Corte la conferma nella decisione di allontanarsi dalla Procura di Palermo e dall’Italia?
«Mi conferma che il nostro Paese deve ancora crescere in termini di diritto, eguaglianza e rispetto della Costituzione. Bisogna fare molti passi avanti, mentre temo che la Corte abbia fatto un grosso passo indietro».
Giovanni Bianconi

GIOVANNI BIANCONI, CORRIERE DELLA SERA
Seduto al fianco dei tre avvocati difensori, di fronte ai giudici, nell’aula della corte costituzionale il procuratore di Palermo Francesco Messineo sembrava un imputato. Forse aveva scelto di apparire tale, quasi volesse caricarsi pubblicamente la responsabilità delle decisioni sottoposte al vaglio della Consulta. E l’imputato è stato condannato. La Corte ha emesso una sentenza che non pare contenere mediazioni, né spazi per dire che i pubblici ministeri hanno sbagliato in buona fede, in assenza di norme chiare. Niente giustificazioni, né vuoti di legge: dovevano comportarsi in un altro modo.
Hanno violato le prerogative del capo dello Stato, nonostante loro continuino a ritenere che non sia così. Prima di commentare vuole leggere le motivazioni, comunica ufficialmente Messineo, pur restando convinto di aver agito correttamente. Gliel’hanno spiegato anche i costituzionalisti ingaggiati per una difesa appassionata che non ha sortito effetti. A prendere per buone le parole utilizzate dagli avvocati dello Stato, per conto del Quirinale, la Procura s’è lasciata andare a una «raccolta illegale di informazioni», valutando e conservando agli atti di un’indagine le conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica.
È una sconfitta che può pesare molto a livello d’immagine, prima ancora che a livello giuridico, per i pm impegnati nel processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Rischiano di essere bollati come i magistrati che hanno invaso un campo intangibile, anche se quelle quattro conversazioni captate accidentalmente e casualmente — quattro su 9.295 registrazioni dei colloqui dell’ex senatore Mancino — non hanno nulla a che vedere con l’indagine. L’hanno detto fin dal primo momento, i pm: erano del tutto irrilevanti (le parole di Mancino, ché quelle di Napolitano sostengono di non averle nemmeno prese in considerazione) e perciò non sono state depositate agli atti. Ma nonostante le ripetute precisazioni, l’indagine sulla trattativa ha finito per essere confusa con la violazione delle prerogative presidenziali. Prima presunte, ora certificate da una sentenza della Consulta.
Tuttavia l’inchiesta e il processo non stanno in quelle quattro telefonate. E il caso vuole che la «condanna» dei pm su quella questione sia arrivata nel giorno in cui il giudice dell’udienza preliminare ha tributato loro una vittoria, confermando la competenza del tribunale di Palermo a giudicare i dodici imputati. Compreso l’ex ministro Mancino accusato di falsa testimonianza, che voleva andare davanti allo speciale collegio per i reati ministeriali. Lì avevano ragione loro, almeno secondo il giudice Morosini, che ha emesso l’ordinanza sulla base delle imputazioni formulate dagli stessi pm. Lo scivolone sanzionato dalla Consulta non ferma il processo sulla trattativa. Che ora diventa il nuovo — e forse, questo sì, decisivo — banco di prova dell’operato della Procura antimafia di Palermo.
Giovanni Bianconi

COMMENTO DI SCALFARI SU REPUBBLICA
LA SENTENZA della Corte costituzionale sul ricorso del Capo dello Stato per il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo è chiarissima e definisce l’intangibilità delle prerogative presidenziali. Le intercettazioni telefoniche (o con qualsiasi altro mezzo effettuate), sia pure indirettamente acquisite da una Procura (nel caso specifico da quella di Palermo) debbono essere immediatamente distrutte dal Gip su richiesta della stessa Procura che ne è venuta in possesso. La Procura in questione non ha titolo per dare alcun giudizio sul testo intercettato; deve semplicemente e immediatamente consegnare le intercettazioni al Gip affinché siano distrutte senza alcuna comunicazione alle parti e ai loro avvocati.
La Corte renderà pubbliche le sue motivazioni a gennaio ma il dispositivo si appoggia fin d’ora all’articolo 271 del codice di procedura penale (come a suo tempo avevamo già scritto su questo giornale) che dispone questo trattamento per gli avvocati e per tutti i casi analoghi che prevedano l’assoluta segretezza delle notizie connesse alla loro professione. E quindi, per logica deduzione, ai medici e ai sacerdoti su quanto apprendono in sede di confessione. Le prerogative del Capo dello Stato hanno la stessa natura e quindi lo stesso grado di protezione che non deriva soltanto dall’articolo 271 ma dalla stessa Costituzione.
Il Presidente della Repubblica può essere imputato soltanto per tradimento della Costituzione e attentato nei confronti dello Stato. In quei casi, quando il Parlamento in seduta comune ne chiede il deferimento alla Corte essa sospende le prerogative del Capo dello Stato e si trasforma in Alta Corte di giustizia iniziando il processo che culminerà in una sentenza.
Il punto essenziale del comunicato della Corte sta nel fatto che a suo avviso l’inammissibilità delle intercettazioni anche indirette e quindi la loro immediata distruzione non sono soltanto ricavabili dall’ordinamento costituzionale e giudiziario, ma da specifica normativa.
Il capo della Procura di Palermo, Messineo, e il procuratore aggiunto, Ingroia, avevano fino all’ultimo sostenuto che non esisteva alcuna norma specifica in materia; forse si poteva ricavare con una interpretazione dell’ordinamento, ma — spiegavano i procuratori in questione — non è compito dei magistrati inquirenti cimentarsi con interpretazioni ardue e comunque dubitabili. Per loro valeva dunque soltanto la norma che prevede per la distruzione di intercettazioni non rilevanti ai fini processuali un’udienza davanti al Gip insieme alle parti interessate e ai loro avvocati. Il che ovviamente equivale a renderle pubbliche facendo diventare pleonastica la loro successiva distruzione.
Il comunicato della Corte, sta-
bilendo invece che una specifica norma esiste, spazza via il ragionamento della Procura di Palermo con un effetto ulteriore e definitivo: la sua sentenza si affianca e addirittura si sovrappone all’articolo 271 rendendone esplicita l’applicabilità anche al Capo dello Stato.
Fu dichiarato più volte dallo stesso Giorgio Napolitano che il suo ricorso alla Consulta non intaccava in nessuno modo il lavoro della Procura sull’inchiesta riguardante i rapporti eventuali tra lo Stato e la mafia siciliana. Infatti quel lavoro è già arrivato ad una prima conclusione con la richiesta di rinvio a giudizio di tredici imputati. Gli stessi Messineo e Ingroia hanno più volte e
in varie sedi pubblicamente dichiarato che nessuna pressione e nessun impedimento al procedere della loro inchiesta è mai venuto dal Quirinale, il quale anzi ha sempre incoraggiato la magistratura a portare avanti il suo lavoro volto all’accertamento della verità su quel tema storicamente delicato e importante.
La richiesta di rinvio a giudizio è tuttora pendente dinanzi al Gup del tribunale di Palermo il quale, con correttezza professionale, ha deciso di attendere la sentenza della Consulta prima di prendere le sue decisioni. Non sappiamo se vorrà ulteriormente aspettare le motivazioni di quella sentenza, ma probabilmente sarebbe tempo sprecato.
A lui interessava sapere se le intercettazioni in questione potevano avere un qualche interesse ai fini dell’inchiesta o di eventuali altri processi connessi. La risposta è arrivata e il Gup di Palermo potrà ora procedere. Se troverà negli atti della Procura indizi e prove sufficienti il processo andrà avanti; se quegli indizi e prove non fossero decisivi potrà decidere l’archiviazione; se la competenza territoriale non fosse quella di Palermo potrà rinviare gli atti al tribunale di Caltanissetta.
E questo è tutto. Resta l’indebito clamore che alcune forze politiche e alcuni giornali hanno montato attorno a questi fatti lanciando accuse roventi, ripetute e immotivate contro il Capo dello Stato. Se fossero in buona fede sarebbe il momento di chiedere pubblicamente scusa per l’errore commesso, ma siamo certi che non lo faranno. Coglieranno anzi l’occasione per estendere l’accusa di faziosità e di servilismo alla Corte costituzionale imitando in questo modo l’esempio fornito da Silvio Berlusconi tutte le volte che attaccò la “Consulta comunista” per aver cassato alcune leggi “ad personam” proposte da lui o dal suo partito.
Quello compiuto da alcune forze politiche e mediatiche non è dunque un errore commesso in buona fede ma una consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni. Sembra quasi un fascismo di sinistra.

ATTILIO BOLZONI SU REPUBBLICA
TUTTO quello che fino ad allora sembrava scontato e anche provato processualmente — una trattativa fra Stato e mafia al tempo delle stragi — all’improvviso ha cominciato a fare tremare l’Italia. Telefonate. Telefonate intercettate. Fra uno dei presunti protagonisti di un patto e qualcuno dentro il Quirinale che dava l’impressione di agire nell’ombra, di manovrare per affrontare un «affaire » che stava trascinando in un gorgo alcuni rais della politica e funzionari di alto rango. Tutti precipitati nelle indagini dei pubblici ministeri di Palermo, quelli che indagavano sui negoziati avvenuti prima e dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, prima e dopo l’autobomba che aveva fatto saltare in aria anche Paolo Borsellino.
Da una parte Nicola Mancino, ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, nel 1992 ministro dell’Interno. Dall’altra Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di Giorgio Napolitano, vent’anni prima amico dei due magistrati siciliani
assassinati.
Parlano. Parlano dell’inchiesta
palermitana che si sta inghiottendo Mancino. Lui, l’ex ministro, si muove scomposto. Chiama per mesi il Quirinale facendo capire che da solo non può sopportare tutto il peso delle investigazioni che gli stanno rotolando addosso, chiede ufficialmente «un coordinamento delle indagini fra Palermo, Caltanissetta e Firenze perché i pm arrivano a conclusioni contraddittorie fra loro», in realtà sembra che voglia sottrarsi al giudizio dei magistrati di laggiù, i palermitani. Ed evitare soprattutto un faccia a faccia con un altro ministro dell’epoca, il Guardasigilli Claudio Martelli. L’ex ministro insiste. Cerca aiuto. Scalpita. Il suo interlocutore al Quirinale gli risponde sempre.
Il consigliere giuridico Loris D’Ambrosio raccoglie i suoi lamenti.
E’ il caso dell’estate del 2012. Le telefonate intercettate fra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio. Il primo imputato a Palermo con altri undici personaggi — mafiosi come Totò Riina ed ex ministri come Calogero Mannino e generali dei carabinieri come Mario Mori — nel processo per la cosiddetta trattativa fra Stato e mafia. Il secondo morto per infarto pochi giorni dopo le incandescenti polemiche sollevate dal disvelamento delle conversazioni
fra i due.
Telefonata del 12 marzo di quest’anno. «Eccomi, io ho parlato con il presidente e ho parlato anche con Grasso (il procuratore nazionale antimafia - ndr)». E’ il consigliere giuridico del Quirinale che, rispondendo alle insistenti richieste di Mancino, lo informa di quello che sta facendo. Mancino aspetta e D’Ambrosio gli dice: «Ma noi non vediamo molti spazi purtroppo... adesso probabilmente il presidente
parlerà con Grasso nuovamente... vediamo un attimo anche di vedere con Esposito… (il procuratore generale della Cassazione ndr)... qualche cosa... ma... la vediamo insomma difficile la cosa ecco... (...) Dopo aver parlato col presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po’... Però, lui, lui proprio oggi dopo avergli parlato, mi ha detto: ma sai, io non posso intervenire. Capito, quindi, mi sembra orientato a non intervenire. Tant’è che il presidente parlava di... come la Procura nazionale sta dentro la Procura generale, di vedere un secondo con Esposito (il procuratore generale della Cassazione - ndr)».
Che cosa si stanno dicendo, Mancino e D’Ambrosio? Si stanno dicendo che il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso non vuole intervenire sui pm di Palermo per un’avocazione dell’inchiesta e quindi bisogna in qualche modo «scavalcarlo» con il suo superiore, il procuratore generale della Cassazione. L’ex ministro
dell’Interno è molto agitato, teme da un momento all’altro di diventare imputato nel processo sulla trattativa. Si sfoga: «Non so dove vogliono arrivare questi (i pm palermitani - ndr), che vogliono fare». Gli ribatte D’Ambrosio: «Ma è chiaro che... che non si capisce proprio, ma non si capisce neanche più la trattativa se devo essere sincero. Io l’oggetto della trattativa mica l’ho capito, no... mi sfugge proprio completamente». E lo rincuora: «Certo, ma io comunque riparlerò con Grasso, perché il presidente mi ha detto di risentirlo. Però io non lo so... francamente... lui è ancora orientato a non fare niente, questa è la verità».
Le telefonate fra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio cominciano il 25 novembre del 2011 e continuano fino al 5 aprile del 2012. Il giorno prima — il 4 aprile — il segretario generale della Presidenza della Repubblica Vincenzo Marra invia una lettera al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, chiedendogli informazioni «sul coordinamento delle inchieste fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa ».
Il 5 aprile D’Ambrosio, quella lettera gliela legge a Mancino: «Per
incarico del Presidente della Repubblica trasmetto la lettera con la quale il senatore Nicola Mancino si duole del fatto che non sono state fin qui adottate forme di coordinamento...
».
Un paio di settimane dopo il nuovo procuratore generale Gianfranco Ciani convoca il procuratore Grasso. E’ il 19 aprile. Grasso sostiene — è a verbale di quella riunione — che esiste un coordinamento fra le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze. I tentativi di Nicola Mancino di far avocare l’inchiesta a Palermo non vanno a buon fine. L’indagine resta in Sicilia.