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 2012  dicembre 04 Martedì calendario

GLI SPIN DOCTOR FAI-DA-TE DI PIERLUIGI

[Gotor su tutti, poi largo ai ragazzi] –
Se chiedete a Bersani perché non ha uno spin, è capace che si metta a controllare l’impianto elettrico. Né spin né ghost, né doctor né writer. Niente camaleonti a comando, penne ombra, pensatori a gettone, alter ego da retrobottega. Alla guerra per vincere le macerie dell’antipolitica e raggiungere «Palazzo Pigi», come già lo chiamano, Bersani è andato e va a mani nude. Molte mani nude, quelle dei suoi più stretti collaboratori. Non gli allungano diagrammi, non gli scrivono i discorsi, non gli suggeriscono genialate comunicative. Sono amici. Uno, il più importante, e quello che se lo chiamano «spin doctor» potrebbe scoprirsi John Wayne e metter mano alla pistola, è Miguel Gotor. Storico dell’età moderna a Torino, e di quelli che Bersani ama perché, attento lettore di Gregorio Magno quale è, può fargli domande, chessò, su Bernardino Ochino e i benedettini del Cinquecento... Noto per il saggio «Il memoriale della Repubblica» sugli scritti di Moro dalla prigione Br, ha debuttato con «I beati del Papa. Santi ed eretici nell’Inquisizione». Si sapeva che Bersani fosse colto, ma non così colto... Un anno e mezzo fa, dovendo prodursi in un libro-intervista, il direttore dell’Unità Claudio Sardo gli consigliò di incontrarlo. Si sono trovati immediatamente in spontanea sintonia su una mezza battuta, «non dobbiamo raccontar favole», che contiene una verità intera: la realtà viene prima della comunicazione. E su di lei vanta una preziosa autonomia, diceva Gotor. La politica è per l’appunto quella cosa che prova a cambiare i rapporti di forza nella realtà, rispondeva Bersani. E ciò non toglie che due considerazioni di Gotor si siano ben diffuse nella pubblica opinione: «Renzi è un nuovista arcaico». E «Renzi è un gattopardino».
Dunque, piuttosto che tirarsi appresso qualche «smiling cobra», qualche suadente stratega della comunicazione a contratto, meglio riunioni con persone con cui si sta a proprio agio, tempi lunghi di replica (e qualche volta tempi drammatici, l’attendismo può esser tale che il caso, a quel punto, si sgonfia da solo). E discorsi scritti, mai. Bersani parla a braccio, sempre.
Lo staff che non c’è, pur essendovi responsabile comunicazione, addetti stampa etc, è una pattuglia di amici. La prova provata, in birreria l’altra notte a festeggiare. Il passo successivo alla vittoria, in una telefonata al volo con Lapo Pistelli dal Brasile. «Pierluigi, domani vado in Libia. Perché non vieni, sennò finisci a Ballarò...». Detto, fatto.
Il portavoce è Stefano Di Traglia, stazza da gigante buono, diesel dell’informazione. Grande incassatore, sornione come il gatto del Cheshire, si fece le ossa nello staff (quello sì, lo era) di Massimo D’Alema a Botteghe Oscure. Nell’offrire o correggere le notizie ha un àplomb tale che, dentro, la notizia qualche volta affoga e non riesce ad afferrare il salvagente. Poi, un giornalista di grande scuola come Roberto Seghetti, e Chiara Muzi, sempre sorridente ma di polso fermo (è lei che ha trattato, per esempio, le regole dei confronti tv). Tre moschettieri che seguono D’Artagnan da una vita. Per la campagna, e in tre non fan cent’anni, Ale Moretti, Tommaso Giuntella e, soprattutto, Roberto Speranza. Tre giovani per la front line, trovati dentro il partito e dotati di considerevole fair play, davanti ai roboanti Renzi-boys. E poi, l’asso nella manica. L’amico di una vita: Vasco Errani. È lui che ha fatto da pompiere con Renzi, nelle ore in cui quello minacciava ricorsi e sfracelli, a urne aperte.