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 2012  dicembre 04 Martedì calendario

IO SUL PALCO PER BISOGNO

«Sono andato a Palazzo Marino a riportare al sindaco Pisapia la me­daglia d’oro del Comune di Milano, che mi diede anni fa l’ex sindaco Al­do Aniasi, ma non l’ho trovato. A­desso preparo un bel pacco e glie la mando. Tanto a che serve quella medaglia se ora che sei vecchio, stanco e bisognoso, non solo non ti onorano, ma non si ricordano nep­pure più di te?». È l’urlo disperato dell’attore mattatore della vecchia Milano, Piero Mazzarella. «Va­do per gli 85 an­ni e posso vanta­re 242 comme­die in carriera che tengo tutte qui a memoria – indica battendo­si la testa –. Co­me me nessuno nel teatro italiano. Un attore veneziano dell’800 mi pa­re che ne abbia recitate la metà ri­spetto al sottoscritto, figlio di attori: Saro Mazzarella di Bagheria e mia madre Maria, milanese e attrice nella compagnia di Edoardo Ferra­villa, l’inventore del mio Tecoppa».
Orgoglio e dignità sicula-meneghi­na che si mescola al suo “grido”, lan­ciato con un filo di voce arrugginita dal tempo e dagli acciacchi dell’età: «Soffro di diabete e di bronchite cronica. La notte per dormire mi aiuto con quella là», dice mostran­do la bombola dell’ossigeno che sta in un angolo della camera nella sua casa, a Milano 2, dove siamo andati a trovarlo. Un appartamento in cui vive con la moglie Barbara – ex bal­lerina della Scala – con Piero jr e Paolo (due dei suoi cinque figli) e che leggenda popolare vuole sia stato un dono di Silvio Berlusconi, per il grande lavoro prestato da Mazzarella agli inizi della scalata mediatica del Cavaliere. «Ma quale dono del Cavaliere? Io qui sono in affitto da sempre e ho debiti per 17-18mila euro che non riesco più pa­gare da quando non posso più lavo­rare. Sopravvivo con la mia pensio­ne di lavoratore dello spettacolo e la Bacchelli promessa me la daranno da morto – si ferma e riprende il re­spiro – . Berlusconi è vero, è stato molto generoso con me quando la­voravo nella sua prima tv, a Tele Mi­lano58, quella che poi è diventata Canale 5. Ma io penso anche di aver ricambiato. In pratica gli tenevo in piedi tutto il palinsesto giornaliero.

Cominciavo al mattino alle 9 con u­na trasmissione che si chiamava A Milan se dis inscì , al pomeriggio proseguivo con il Tecoppa a puntate e alla sera in pratica facevo il primo Costanzo Show ospitando attori e personaggi che erano di passaggio a Milano… – si ferma, riprende fiato e riattacca –. E poi in quegli anni ho fatto scuola a tan­ti divi di adesso.

Ho tenuto a “bat­tesimo” Paola Pe­rego, Susanna Messaggio e Si­mona Ventura che aveva la ma­nia del canto e glie la tolsi subito...

Però la Ventura si sapeva già muo­vere bene davanti alle telecamere e poi si è visto con la strada che ha fatto». Ha fatto un lungo cammino anche Mazzarella, partendo dal tea­tro dialettale. Quel milanese scritto e parlato dal suo grande mentore, il poeta Delio Tessa del quale ama ri­petere la massima che ha ispirato tutto il suo percorso artistico: «Al mondo io conosco solo un maestro: il popolo che parla». L’unico mae­stro teatrale al quale è devoto rima­ne Giorgio Strehler. «Mi ha diretto in El nost Milan, primi anni ’60 . E­ravamo amici e ci siamo scritti fino alla fine dei suoi giorni. E la fine è stata molto triste e immeritata per un genio come Giorgio…», dice mentre apre un cassetto e mostra un mazzo di lettere legate da un na­stro, a firma del regista e fondatore del Piccolo Teatro. Strehler non è l’unico genio che si è parato nel suo cammino. «Ho avuto la fortuna di lavorare con tutti i più grandi del ’900, del teatro e anche del cinema per cui ho fatto una quarantina di film. Il più importante è stato Il maestro di Vigevano, alla regia un altro genio, Elio Petri. Fu un onore per me recitare in quel film con Al­berto Sordi, il più grande di tutti, con Totò e Aldo Fabrizi… Federico Fellini mi aveva già preso per Amar­cord, ma non me la sentivo di la­sciare la mia Compagnia dello Sta­bile Milanese. Voleva dire chiudere il teatro per 8 mesi e gettare nella fame decine di attori, ballerine e maestranze, così a malincuore dissi di no. Però Fellini mi stimava e mi voleva molto bene. Quando con sua moglie Giulietta Masina recitai nel­lo sceneggiato della Rai Eleonora, Federico alla sera gli telefonava rac­comandandosi: ’Giulietta, stai con Piero che lui è un galantuomo’…».

Si commuove sfogliando l’album dei ricordi che affiorano anche alle pareti di una camera che è di­ventata il came­rino dell’attore.

Mura ricoperte di foto di scena e quelle «più care con i papi Paolo VI e Giovanni XXIII». E poi, la cari­catura di Max Tratti e le locandine storiche di commedie andate in scena dagli anni ’50 fino all’ultimo

Ciao Tecoppa : lo spettacolo d’addio al suo personaggio più amato, nel 2001. Da allora pochi scampoli di gloria per Mazzarella, sempre meno profeta in patria e celato sotto una filtra coltre di quella “scighera” di ir­riconoscenza che ha ricoperto le o­pere di un passato luminoso che però ai francesi non è sfuggito. «Per il bicentenario della nascita di Vic­tor Hugo mi mandarono a chiama­re da Parigi, memori di una frase di Mario Soldati che disse: “Piero Maz­zarella è il più grande attore teatrale italiano, l’unico che potrà recitare anche nel Duemila…”. Io arrivo all’Eliseo e un portaborse del primo ministro mi chiese se avessi letto qualcosa in italiano o in milanese.

Lo gelo, quando gli dico che avrei recitato in francese la poesia di Hu­goAl lavoro (attacca con memoria di ferro Au travail…). Alla fine, venti minuti di applausi. E quel portabor­se del ministro che si nascondeva per la vergogna…». Lampi d’orgo­glio negli occhi dell’attore che ri­chiude la sua valigia dei ricordi e a­pre il cuore del buon cristiano che non ha mai smesso di pregare. «Mi rivolgo a Gesù tutti i giorni e gli chiedo di darmi la salute e di farmi tornare a recitare, perché solo così posso andare avanti e mantenere la mia famiglia». Da ieri sera - e per i prossimi due lunedì di dicembre al Teatro Out Off di Milano - , Mazza­rella torna in scena con Mi e lu semm in duu per raccontare ancora la sua storia di teatrante e quella della sua città, in un «dialogo aper­to » con Renato Dibì. «Una parte dello spettacolo si chiama Milano dove vai? . Una domanda alla quale io, ma forse nessun milanese, sa più rispondere. Questa città, che amo con tutto me stes­so, è cambiata ed è peggiorata tan­to, come il teatro, come questo Pae­se. I giovani attori di oggi, al massi­mo sono degli i­mitatori e all’oriz­zonte non vedo nuovi Walter Chiari, Giorgio Streh­ler, Gino Bramieri, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci … Tanto per citare alcuni degli artisti che con la loro a­nima hanno lasciato un’impronta sulla mia Milano che non può esse­re quella di adesso: una città che vi­ve di fretta e che altrettanto in fretta si dimentica persino dei suoi figli più cari».