Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 25 Domenica calendario

UN SECOLO VISSUTO CON I DIVERGENTI

Il libro s’intitola Divergenze. Borgese, Malaparte, Morselli, Sciascia e lo pubblica un editore napoletanocombattivo ed elegante, nella collana «I barbarI» diretta da Carmen Pellegrino. In effetti, con barbarico sprezzo per ogni galateo accademico, l’autore, il catanese Antonio Di Grado, mette subito le cose in chiaro: «La critica. Da critico, la detesto: anche la mia. Attività parassitaria, morbosa metastasi, delega deresponsabilizzante». Con questo augurio: «auspico come Lutero o meglio come gli anabattisti il sacerdozio universale e il libero esame».
Devo dire la verità: in queste parole io leggo, non la condanna dell’atto critico, ma, paradossalmente, la sua più felice celebrazione: la celebrazione, cioè, della critica vera e antagonista, di contro a quella disciplina specialistica e separata, coltivata da una casta sacerdotale (e professionale) che risponde solo a se stessa, e che, col suo gergo iniziatico, decreta l’ortodossia ermeneutica.
Ho detto critica vera e antagonista. Che, se vogliamo, ha il suo eroe in un lettore che scrive e vive, il quale, mentre si dà conto di ciò che legge, col suo libero esame contribuisce alla costruzione del senso della sua vita e di quella di tutti. Guai a lasciarsi sopraffare da una lettera senza spirito. Di Grado non ha dubbi: «Il torto più grande che si possa fare a una poesia, a un mito, a una fede, a un sogno, a una narrazione, è quello di soppesarne l’involucro». Convinzione che vale come liquidazione di tutte le illusioni scientiste e formaliste del secolo appena trascorso, mentre antepone un’idea della lettura come esperienza morale, ostinata e accanita ricerca spirituale, sino a quei «cancelli della preghiera» davanti a cui s’arrestò l’amato Sciascia.
Si capiscono bene, ora, le ragioni che accomunano questi quattro diversissimi scrittori, presentati in discendenza generazionale: da Borgese, che è del 1882, a Sciascia, nato nel 1921. Ragioni che coincidono anche con «l’immodesta proposta di un altro Novecento», minoritario, ma non per questo poco folto (aggiungerei, con Di Grado che li cita, anche Savinio, Brancati e Flaiano), parimenti distante dagli «arcadi della forma» e dai «banditori della verità», poco importa se di chiesa o di partito. Ragioni, aggiungo, che stanno tutte nel significato della «divergenza» del titolo, tra «risentito moralismo» e «radicale estraneità»: laddove essa s’identifica proprio con un punto di contraddizione, se non un puntiglio d’onore, nei confronti delle idee ricevute, del contesto sociale e dei suoi idola.
Ci sarebbe ora da dire di come Di Grado, in queste pagine, non lasci mai le cose come le aveva trovate. Non di rado con fulminea forza aforistica. Cito a caso, su Malaparte per esempio: «si direbbe che la Tecnica stia a Kaputt come la Colonna infame manzoniana sta ai Promessi sposi». Preferisco aggiungere che questo Novecento nasce da un’insofferenza sempre più profonda nei riguardi d’una classe di intellettuali impegnati nell’autoconservazione trasformistica, dissimulata sotto il manto d’una cultura ad alta voce e in rivolta permanente, con furori più o meno astratti.
Non credo di esagerare se dico che qui Di Grado si congeda da un grande amore della giovinezza, Vittorini, citato negativamente in tutti i saggi. Forse affidando il suo giudizio definitivo a quel Morselli che, nel 1946, così parla del «Politecnico»: «"Sapevo quel che ci avrei trovato: (…) attualità della cultura, (…) rivoluzione della cultura, la cultura e la Resistenza. E "gli stessi di sempre pure i redattori": i medesimi "giovani" che discutevano i "giovani" in regime fascista"». Un’insofferenza che non esclude, anzi implica, un atto d’apertura verso il futuro.