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 1922  ottobre 28 Sabato calendario

La marcia su Roma

Notizie tratte da: Antonio Di Pierro, Il Giorno che durò 20 anni. 28 ottobre 1922: la marcia su Roma, Mondadori Milano 2012, 19 euro.

Non era poi mancato chi s’era infilato in questo sostenuto vento di destra per ricavarne (magari del tutto legittimamente) danaro. Dalle pubblicità apparse sul «Popolo d’Italia», per esempio, si apprende che la ditta Alessandro Rocco & C. di Milano offre per 30 lire un busto in «marmo» di Mussolini, «il più bel ricordo della vittoria fascista». La ditta Umberto Cappelletti, invece, vende «fazzoletti in seta col distintivo del Fascio» a 12,50 lire. L’Unione cooperativa milanese ha in listino un vastissimo campionario di articoli fascistissimi: drappi di seta «a uno o più colori congiunti aventi nel mezzo il Fascio» il cui prezzo varia, a seconda della grandezza, da 200 a 270 lire; camicie nere«di satin fino senza stemma» a 30 lire e con stemma ricamato a36 lire; fez di feltro di lana nero, con fiocco, a 6 lire. Da Roma, la Casa specialistica medaglie distintivi Guido Nobili, in via Coladi Rienzo 44, offre per appena una lira e mezza un «artistico distintivo», ovvero una spilla in bronzo con l’effige del re e con lascritta «S.M. Vittorio Emanuele III rifiuta firmare Decreto stato assedio – 28 ottobre 1928».
In questa corsa allo sfruttamento dell’immagine, da segnalarel’arresto di un «falso fascista che vendeva saponette con l’effige di Mussolini». Episodio che aveva provocato una dichiarazione della segreteria del Fascio milanese, intervenuta per precisare che l’uomo non era iscritto «ad alcuna sezione del partito» e che«la vendita delle famose saponette avveniva abusivamente».

«Né Mussolini né Vittorio Emanuele di Savoia hanno virtù di padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi» (Gobetti, sulla “Rivoluzione liberale” giudica la resa italiana al fascismo).

«Con l’assunzione del giovane italiano Benito Mussolini al Governo, viene finalmente sfasciata la mediocre mentalità che da tanti anni soffocava la precipua qualità della razza: l’eccellenza dello spirito artistico» (messaggio di un gruppo di artisti pubblicato dal “Popolo d’Italia” dopo la marcia su Roma. Tra i firmatari: Carlo Carrà, Salvator Gotta, Filippo Tommaso Marinetti, Mario Sironi).

«Superate le condizioni dell’attuale momento, intendo salvaguardare la libertà di stampa purché la stampa sia degna della libertà. La libertà non è soltanto un diritto, è anche un dovere. Cordiali saluti» (Mussolini risponde a Salvatore Barzilai, presidente della Federazione Nazionale della Stampa, preoccupato per gli attacchi alla libertà d’informazione).

«Ma lei non ha capito ancora che posso farla mettere al muro con dodici pallottole?» (Mussolini a Carlo Sforza, ambasciatore a Parigi, deciso a non collaborare col fascismo e a lasciare la diplomazia).

«Contemporaneamente venivano assaltate, distrutte e incendiate le redazioni di tutti i giornali che non fossero palesemente filofascisti. Danni più o meno gravi(nella migliore delle ipotesi i blitz avevano provocato la sospensione delle pubblicazioni) si erano registrati nella redazione del quotidiano nittiano «Il Paese», in quella del giornale satirico «Il monocolo» e ai giornali «L’Epoca», «L’Azione», «Il comunista».
Nella redazione di quest’ultimo foglio, al vicolo della Guardiola, a due passi dalla Camera, al momento dell’irruzione di una squadra fascista armata di moschetti e manganelli non tutti avevano avuto l’accortezza di abbandonare i locali per tempo. Cosicché le camicie nere avevano sorpreso un giornalista al tavolo di lavoro, lo avevano scaraventato per terra senza tanti complimenti, ma mentre cercavano di immobilizzarlo quello era arretrato fino a una scala interna, s’era divincolato e con uno scatto era riuscito a raggiungere il piano di sopra, da qui s’era letteralmente tuffato fuori da una finestra che dava su un terrazzo e poi se l’era filata sui tetti mentre i fascisti gli sparavano dietro coi moschetti. L’uomo in fuga non era un redattore qualunque ma il direttore del giornale comunista: Palmiro Togliatti, 29 anni».

«Messe a posto le tessere del mosaico, non restava che tornare al Quirinale. Ma Mussolini non poteva presentarsi davanti al re un’altra volta in camicia nera. E nella valigia che la moglie gli aveva preparato in fretta e furia mancava un abito elegante. Occorreva dunque trovarne uno in tempi rapidissimi: non c’era altro da fare che saccheggiare il vestiario dei collaboratori. Aldo Finzi mise a disposizione i suoi pantaloni, la giacca e la camicia invece non erano della taglia giusta e si dovettero cercare altri donatori; i gemelli li offrì Gustavo Nesti, il direttore dell’agenzia Stefani. Così abbigliato, alle 19.20 il leader fascista varcava per la seconda volta il portone del Quirinale. L’incontro con Vittorio Emanuele era stato breve. Il re aveva approvato la lista che gli era stata sottoposta. Mussolini era il nuovo presidente del Consiglio. Uscito dal palazzo reale aveva appreso degli incidenti provocati durante la giornata dagli squadristi e soprattutto che nel quartiere San Lorenzo erano ancora in corso scontri violentissimi. Una giornata campale, per Roma, iniziata male fin dal primo mattino».

«Ti nomino ministro delle Poste. Accetti?». «Senz’altro». (lunedì 30 ottobre 1922. Mussolini sta formando il suo primo governo. Colloquio con Giovanni Colonna di Cesarò all’Hotel Savoia in Roma).

Lunedì 20 ottobre. Nel primo colloquio col re, ore 11.15 del mattino, Mussolini si presenta in camicia nera, pantaloni grigio-verde, stivali. Va al Quirinale senza cambiarsi d’abito, direttamente dalla stazione Termini.

Domenica 29 ottobre. Giustino Fortunato: «Dio onnipotente, Dio onnipotente, ma questa è la fine della borghesia!».
Benedetto Croce: «Ma don Giustino, vi siete scordato quello che dice Marx, che la violenza è la levatrice della storia?» (in casa Croce, Benedetto Croce, 56 anni, e Giustino Fortunato, 74, discutono del prossimo incarico a Mussolini).

Treno. Era stato calcolato che il Milano-Roma con a bordo Mussolini, seguendo la linea Piacenza-Fornovo-Sarzana-Pisa-Civitavecchia e viaggiando di notte, sarebbe arrivato nella capitale in 12 ore e 40 minuti. Ci mise invece un’ora e quaranta in più, per via delle continue soste dovute ai festeggiamenti.

Telegramma. Nella redazione del “Popolo d’Italia” in Milano giunge il telegramma del Quirinale, firmato dal generale Cittadini: «Sua maestà il re la prega la prega di recarsi subito a Roma desiderando offrirle l’incarico di formare il ministero. Ossequi». Mussolini è nel suo ufficio col fratello Arnaldo. Commenta: «Se ci fosse qui nostro padre…».

«Vendo il giornale, lo vendo, lo vendo. Tanto non cammina come voglio io. Mi fa arrabbiare, non riesco a mio modo... E poi non bisogna essere abitudinari. Faccio il giornalista da troppo tempo: ho tanti altri mestieri. Prima di tutto, posso fare il muratore: sono bravissimo! Poi, sto imparando a fare il pilota aviatore. Oppure posso girare il mondo col mio violino: magnifico mestiere, il rapsodo errante! Alla famiglia, lascio quel che ricavo dal mio giornale; da vivere per me, trovo sempre. Del resto Bocca mi fa eccellenti proposte per Il mito e l’eresia. Quindici giorni di ritiro in un eremo, e lo scrivo subito. Ho anche parlato con Talli: divento attore e autore. Il mio dramma in tre atti, La lampada senza luce, è già pronto: non ho che da scriverlo» (1919, Mussolini si sfoga dopo la sconfitta alle elezioni. La Sarfatti lo persuade a resistere).

Casa Sarfatti: Milano, corso Porta Venezia 29

Il 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma, Mussolini non ha modificato le sue abitudini quotidiane, è tornato a casa per il pranzo e poi per la cena. Tra un boccone, una telefonata al direttore del «Corriere» Luigi Albertini, le risposte alle continue chiamate dal «Popolo d’Italia», «mentre l’animazione continuava ad aumentare mio marito ha trovato perfino il tempo di dare un’occhiata ai compiti di Edda», che aveva allora 12 anni (testimonianza della moglie, Rachele Guidi).

«Oggi, con un traffico ridotto ai minimi termini, non ci sono stati – almeno fino a questo momento – incidenti ai passaggi a livello. Già, perché ormai prima di attraversare una linea ferrata bisognerebbe fare un’assicurazione sulla vita. Le cronache dei giornali riportano con cadenza quasi quotidiana quella che è diventata una vera e propria strage.
Solo per rammentare gli incidenti più gravi degli ultimi due mesi: 30 agosto, dieci morti e 35 feriti a un passaggio a livello nei pressi di Chieti per lo scontro tra un treno e un torpedone che trasportava la banda musicale di Silvi; 3 ottobre, sei morti e 13 feriti per un analogo incidente nei pressi di Erba; 13 ottobre, due morti e 11 feriti poco distante da Verona. Perfino il re ha rischiato di finire travolto da un treno mentre attraversava i binari. In un servizio sul «Popolo d’Italia» del 5 ottobre scorso, intitolato La strage degli innocenti ai passaggi a livello, si segnala infatti che «nei pressi di Civitavecchia, poche settimane fa, l’automobile reale scampò miracolosamente a un tragico investimento che avrebbe certo avuto ripercussioni nella nazione intera». L’inchiesta del giornale di Mussolini fa il punto sul grave problema dei 26.970 passaggi a livello esistenti in Italia, per attraversare i quali duecento persone sono morte in un anno, e denuncia: «Chi segue la cruda cronaca, per quanto sangue freddo abbia, non può certo leggere senza inorridire queste continue tragedie».
Un’inchiesta del «Corriere della Sera» pubblicata in due puntate il 14 e il 15 ottobre scorsi spiega perché attraversare i binari è diventato da un paio d’anni così pericoloso: «Un decretino del 7 novembre 1920 ha autorizzato le ferrovie dello Stato a lasciare aperti permanentemente i passaggi a livello sulle linee principali e secondarie, in servizio normale o in esercizio economico, che presentassero una libera visuale sulla linea».
Il risultato pratico di questa riforma è stato da una parte la drastica riduzione dei casellanti rispetto alle necessità, dall’alTerzo blocco ferroviario 165 tra la crescita esponenziale degli incidenti essendo mancata una informazione adeguata alla cittadinanza. Infatti, l’amministrazione ferroviaria si è limitata a «disseminare lungo le linee aperte e incustodite dei pali con due strisce incrociate e sovrapposte che sarebbero dovute bastare a mettere in guardia pedoni, carrettieri, cocchieri e automobilisti». Ma, prosegue il quotidiano, «i risultati dell’innovazione non si sono fatti attendere: soltanto nel compartimento di Milano, nel quale sono stati aboliti ottocento guardabarriere e aperti completamente circa mille passaggi a livello, si sono avuti, dal giugno 1921 al giugno 1922, cinquantaquattro incidenti che hanno causato 17 morti e 33 feriti, e hanno danneggiato 47 veicoli».
I motivi della riforma sono squisitamente economici. Fino al 1917 per gestire un passaggio a livello nell’arco delle 24 ore bastavano due persone, in genere marito e moglie (14 ore l’uomo, 10 la donna), che guadagnavano complessivamente 120 lire al mese. Dal 1920 («epoca delle vittoriose conquiste sindacali» scrive con sarcasmo il giornale milanese) il guardiano del passaggio a livello è tenuto a lavorare «per otto ore al giorno, divise in vari periodi secondo l’orario dei treni, e ha diritto a un riposo ininterrotto di almeno otto ore nonché a un giorno di vacanza settimanale».
Insomma, per tenere sotto controllo lo stesso numero di passaggi a livello si sarebbe dovuto aumentare l’organico dei guardabarriere, il cui stipendio ha intanto raggiunto la media di 600 lire mensili a persona. Di qui la decisione di non fare assunzioni e di rendere incustoditi gli attraversamenti dei binari in molti tratti della linea ferrata. Con i risultati che abbiamo visto. Le ferrovie avevano pensato in un primo momento di privatizzare i passaggi a livello. Però, denuncia il «Corriere», siamo «ancora allo stato di progetto», mentre «ai passaggi incustoditi si macella intanto carne di contribuente».

Ha dichiarato Mussolini non più di un mese fa, il 20 settembre, in un discorso pubblico a Udine: «E vengo alla violenza. La violenza non è immorale. La violenza è qualche volta morale. Noi contestiamo a tutti i nostri nemici il diritto di lamentarsi della nostra violenza perché – paragonata a quelle che si commisero negli anni infausti del ’19 e del ’20 e paragonata a quella dei bolscevichi di Russia, dove sono state giustiziate due milioni di persone e dove altri due milioni di individui giacciono in carcere – la nostra violenza è un giuoco da fanciulli. D’altra parte la violenza è risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto in quarantotto ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda. Quindi quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa, è moralissima, è sacrosanta, è necessaria...».

La recentissima guida La vita a Roma consiglia, tra i cinema, il Corso, in piazza San Lorenzo in Lucina (oggi non esiste più). I motivi? «Per la opportuna scelta dei film, per l’eleganza della sala e per la cura con la quale si procede ogni giorno alla sua pulizia, anche con disinfettanti, precauzione quanto mai necessaria in un locale nel quale respira durante il corso delle rappresentazioni qualche migliaio di persone». Inoltre, «una delle specialità di questa sala è l’adattamento del programma musicale al film.» Infatti «al cinema Corso la musica accompagna l’azione con una buona orchestrina».

«Le teste di legno / in alto e in basso / son state domate / con quattro legnate / lor desti il cervello / o San Manganello. / Un tronco piallato / su teste, su schiene / con forza è cascato / e a posto le tiene / sanato a un tratto / ne fu il mentecatto / tornogli il cervello / per San Manganello. / E se il comunista / solleva la cresta / arriva il fascista / gli rompe la testa / orsù, vivaddio, / chiamatelo dio / ché torna a cappello / di San Manganello. / Un popolo pieno / di tante fortune / non può far a meno / del senso comune / Italia! Hai domato / il bruto arrabbiato! / Evviva il randello / di San Manganello!» (San Manganello, “Littore” del 30 settembre 1922).

I fascisti accampati a Santa Marinella, che tentarono di cucinare con l’acqua di mare.

Il 10 ottobre scorso, quindi poco meno di tre settimane fa, il ministro della Giustizia Giulio Alessio – in una lettera inviata al leader del suo partito Giovanni Giolitti – tracciava il terribile bilancio dei più recenti assalti delle camicie nere contro gli avversari politici. «Non passa giorno che i procuratori generali – specie quelli dei circondari più turbati dalle violenze fasciste – non mi denuncino almeno dieci reati. Dal 15 agosto al 22 settembre una statistica fatta eseguire dal ministro scrivente» denunciava Alessio, dava «tra i reati esclusivamente per competizioni politiche ... 74 omicidi, 79 lesioni personali, 75 violenze private per bandi, 72 per danneggiamenti, 37 per appiccati incendi. Certe regioni vivono sotto un regime di terrore per cui non si possono nemmeno tenere i processi penali... in quanto le parti lese e i testimoni si guardano bene dal deporre per tema d’essere ammazzati o almeno bastonati». Non è finita. Solo nei primi cinque mesi dello scorso anno – secondo i dati raccolti dal ministero dell’Interno – la violenza politica ha provocato nel nostro paese ben 278 morti e 1035 feriti. Un terribile bilancio di sangue che il dicastero ha voluto suddividere in tre periodi. Il primo va dal 1° gennaio al 7 aprile 1921, giorno in cui Giolitti sciolse la Camera e indisse le nuove elezioni. Ebbene, in quei poco più di tre mesi s’erano dovuti registrare 102 morti (25 fascisti, 41 socialisti, 16 estranei, 20 appartenenti alla forza pubblica) e 388 feriti (tra cui 108 fascisti e 123 socialisti). Nei 38 giorni della campagna elettorale – dall’8 aprile al 15 maggio – i morti rimasti sul terreno furono 105 e i feriti 431. Infine, nei quindici giorni che vanno dal 16 al 31 maggio si dovettero contare 71 morti (16 fascisti, 31 socialisti, 20 estranei, 4 della forza pubblica) e 216 feriti. E ancora: nei primi sei mesi dello scorso anno le squadre fasciste hanno distrutto 726 sedi di partiti, sindacati e associazioni della sinistra. In particolare, la violenza delle camicie nere si è abbattuta su 17 tipografie e sedi di giornali, 59 Case del popolo, 119 Camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 8 società di mutuo soccorso, 141 sezioni e circoli socialisti e 139 comunisti, 100 circoli culturali, 10 biblioteche popolari e teatri, una università popolare, 28 sedi di sindacati operai, 53 circoli operai e ricreativi. Antonio Gramsci, uno dei più autorevoli dirigenti del Partito comunista, nell’agosto 1921 così descriveva la drammatica situazione della convivenza civile nel nostro paese: «Nei 365 giorni dell’anno 1920, 2500 italiani (uomini, bambini e vecchi) hanno trovato la morte nelle vie e nelle piazze sotto il piombo della pubblica sicurezza e del fascismo. Nei trascorsi 200 giorni di questo barbarico 1921 circa 1500 italiani sono stati uccisi dal piombo, dal pugnale, dalla mazza ferrata del fascista, circa 40.000 liberi cittadini della democratica Italia sono stati bastonati, storpiati, feriti; circa 20.000 altri liberissimi cittadini della democraticissima Italia sono stati esiliati con bandi regolari, o costretti a fuggire con le minacce dalle loro sedi di lavoro; ... circa 300 amministrazioni comunali elette col suffragio universale sono state costrette a dimettersi; una ventina di giornali socialisti, comunisti, repubblicani, popolari sono stati distrutti; centinaia e centinaia di Camere del lavoro, di Case del popolo, di cooperative, di sezioni comuniste e socialiste sono state saccheggiate e incendiate; 15 milioni di popolazione italiana dell’Emilia, del Polesine, delle Romagne, della Toscana, dell’Umbria, del Veneto, della Lombardia sono stati tenuti permanentemente sotto il dominio di bande armate che hanno incendiato, hanno saccheggiato, hanno bastonato impunemente».

Per comprendere quanto sia importante la «valvola» dell’emigrazione sull’equilibrio economico dell’Italia, basti pensare che dal 1876 al 1921 hanno lasciato il nostro paese per cercare lavoro all’estero più di quindici milioni di connazionali (15.308.952 per l’esattezza), a fronte di una popolazione che lo scorso anno registrava quasi 38 milioni di abitanti.

«Io, se fosse necessario, saprei prendere una carabina» (il re a Francesco Cocco Ortu, deputato giolittiano. 28 ottobre, ore 14-15).

Tempo impiegato dall’onorevole Gallenga per giungere in auto da Perugia a Roma (185 chilometri): quattro ore alla media di 45 all’ora (ore 14-15).

I giornali di oggi riportano – tra le altre – la notizia, in poche righe, di un duplice suicidio a Genova. Le vittime sono i coniugi Gerolamo Gaini di 29 anni ed Enrichetta Corniglia di 25. Dopo aver portato il figlioletto di tre anni presso alcuni parenti, si sono chiusi nella loro stanza, nella salita dei Cannoni nei pressi della centralissima via Venti Settembre, hanno acceso un braciere e si sono coricati. Al mattino sono stati trovati morti per asfissia. I due suicidi hanno lasciato scritto in una lettera «di essersi decisi al passo fatale per la costante miseria che, a causa della disoccupazione, da lungo tempo li affliggeva».

Era accaduto che nel marzo del 1920 il governo aveva istituito l’ora legale (che consiste nello spostare le lancette degli orologi un’ora avanti: ci si sveglia un’ora prima per sfruttare appieno la luce del sole nell’arco della giornata e risparmiare così energia elettrica). Molte rappresentanze sindacali protestarono perché ritenevano che il provvedimento governativo rappresentasse una violazione degli accordi sugli orari di lavoro. Alla Fiat, dove la Gli industriali da Mussolini 115 direzione della fabbrica aveva provveduto a regolare gli orologi sull’ora legale, gli operai li riportarono sull’ora solare. La direzione li rimise sull’ora legale, gli operai li riportarono sull’ora solare. Il braccio di ferro proseguì ancora per un po’ e alla fine la direzione aziendale decise di convocare i rappresentanti sindacali. Come si concluse la controversia lo racconta Bruno Buozzi, sindacalista e deputato del Partito socialista unitario: «I dirigenti Fiat dissero: “Entrate quando volete. Se volete entrare all’ora vecchia, entrerete alle 8 dell’ora nuova invece che alle 7 dell’ora vecchia, e tutto marcerà come prima. Ma voi non potete esigere che l’orologio dello stabilimento segni un’ora diversa da quella degli orologi di tutta la città”. Non ci fu verso di persuaderli e si andò allo sciopero generale».
Il clima è poi radicalmente mutato, come appare chiaramente dalla drastica caduta delle ore di sciopero effettuate in Italia, passate dai sedici milioni del 1920 ai sei milioni del 1921. Naturalmente questo non significa che non si facciano più scioperi, e nemmeno che non ve ne possano essere altri con caratteristiche per così dire «particolari», come quello «delle lancette». Una forma di sciopero quanto meno bizzarra, per esempio, è stata quella messa in atto il 5 ottobre scorso a Vienna dai musicisti dell’orchestra diretta dal compositore Franz Lehár, che presentava la sua ultima operetta Frasquita. Ebbene, invece di attaccare con un «fortissimo» come era scritto negli spartiti, l’orchestra ha attaccato con un «pianissimo». Molto sorpreso e contrariato, il direttore si è fermato subito e ha chiesto ai musicisti cosa stesse accadendo. E quelli hanno risposto che l’orchestra stava seguendo le indicazioni del proprio organismo sindacale, per protestare contro l’impresa che aveva deciso di pagarli il venti per cento in meno rispetto ai compensi base.

«Non Salandra più Mussolini, ma Mussolini senza Salandra, signori» (Mussolini riceve, nella sede del “Popolo d’Italia”, una rappresentanza degli industriali milanesi. 28 ottobre 1922, mezzogiorno).

Uscito dalla redazione del «Popolo d’Italia», prima di mettersi in viaggio per Roma l’esponente nazionalista (Alfredo Rocco) ha deciso di passare dalla prefettura, in via Monforte. E qui ha trovato un gruppetto di industriali in cerca di notizie, preoccupati per le conseguenze negative che l’insurrezione – se non incanalata presto verso una soluzione istituzionale – potrebbe provocare al tessuto produttivo, finanziario e commerciale. Timori che non sono solo di oggi. Appena due giorni fa, giovedì 26, una delegazione di industriali aveva preso l’iniziativa di un incontro riservato con Mussolini per sondare gli obiettivi del fascismo e per esternare i malumori della categoria.
Alberto Pirelli, che faceva parte di quella delegazione, racconta di che cosa si è discusso: «Sì, il 26 siamo andati da Mussolini al “Popolo d’Italia” in via Lovanio a confermargli, quali interpreti degli ambienti direttivi della produzione e degli scambi, i gravissimi danni derivanti all’economia nazionale dallo stato di confusione anarchica in cui versa il paese dopo la mutilazione della vittoria e insieme esporgli talune particolari preoccupazioni del momento, in rapporto all’andamento del cambio, al corso dei titoli di Stato, al credito del paese verso l’estero. Mussolini ha interrogato, ha risposto, si è trattenuto a lungo. E quelli del gruppo che non avevano mai avvicinato prima di allora il capo del fascismo sono rimasti ammirati di trovare un uomo che sui problemi in questione discuteva con grande ponderazione, con vivo senso della loro importanza e complessità rivelando la volontà di dominare anche questa materia». Mussolini ha ringraziato, quando alla fine dell’incontro gli è stato consegnato un assegno di due milioni di lire offerti dall’Associazione bancaria, e ha cercato di rassicurare gli imprenditori: la politica economica fascista – ha detto in sintesi – farà gli interessi del padronato».

«Al coraggio non si addicono i viaggi di andata e ritorno» (Marcello Soleri).

Scrive per esempio l’Almanacco italiano, piccola enciclopedia popolare della vita pratica nel volume del 1921: «Ancora tre o quattro anni fa, al principio della guerra, si trovava facilmente una cuoca o una cameriera per 40-50 lire il mese, senza eccessive esigenze, e una balia con 80-90 lire il mese. Ora un baliatico di 12 mesi con una balia da latte non costa meno di 7-8 mila lire! Mi hanno anzi riferito che a Roma i baliatici si regolano ormai a forfait a 12 mila lire per l’anno! ... Anche una balia asciutta non presta le sue cure per un salario inferiore a 100 lire il mese! La scarsità delle persone di servizio è uno degli effetti malaugurati della guerra. Moltissime donne e ragazze che erano a servizio al momento della guerra han trovato enormemente più vantaggioso entrar nelle fabbriche di proiettili dove percepivano salari altissimi e godevano di una relativa libertà. La guerra inoltre ha arricchito le famiglie dei contadini, da cui venivano buona parte delle nostre migliori persone di servizio. Da noi ora la persona di servizio per la media borghesia non esiste più; esistono delle cuoche, delle cameriere, delle nurse, delle guardarobiere per le case e le borse dei milionari, stipendi di 800, 1000 lire il mese, comfort d’alloggio pari a quello dei signori, camera da letto, bagno e salotto, orario fisso».

«Mi risulta che la gente insinui che io non possa soffrire i miei cugini Aosta. Certo che mi sono antipatici. Sono così alti!» (Vittorio Emanuele III).

Il re: «Che cosa farà l’esercito?». Armando Diaz: «Maestà, l’esercito farà il suo dovere. Però sarebbe bene non metterlo alla prova» (28 ottobre, ore 10-11: si discute se prolungare o annullare – come poi il sovrano deciderà - lo stato d’assedio).

Ore 8-9. Hanno urlato a squarciagola «eia eia eia alalà» per tutta la notte sul treno che da Pisa li avrebbe dovuti portare fino a Roma, mitico traguardo dell’altrettanto mitica marcia verso la conquista del governo e del potere.
Ma alle camicie nere l’inno fascista coniato nel 1917 da Gabriele D’Annunzio, al quale non piaceva l’«hip hip urrà» con cui avevano preso a salutarlo i compagni di trincea, è rimasto strozzato in gola alla stazione di Civitavecchia. Con grande sorpresa degli irrequieti passeggeri, poiché finora, tappa dopo tappa, l’insurrezione era sembrata filare liscia, una nutrita pattuglia di soldati armati ha accolto il primo convoglio giunto alle 8. Un ufficiale ha ordinato ai fascisti di scendere dal treno. E non avendo quelli obbedito, è scattata automaticamente la procedura d’emergenza così come disposto dal generale Pugliese. Qualche centinaio di metri più a sud, una squadra di soldati ha divelto i binari interrompendo così l’intero traffico ferroviario verso la capitale, distante circa ottanta chilometri.
Il primo treno che ha dovuto arrestare la sua corsa a Civitavecchia trasportava da Pisa ottocento fascisti. A seguire, nella notte, dalla medesima città toscana sono partiti altri due convogli, uno con settecento e l’altro con trecento uomini. Un altro treno è partito da Cecina con quattrocento camicie nere. Nella mattinata, dunque, nella stazione della cittadina portuale sono destinati a rimanere bloccati almeno 2200 rivoltosi. E non è escluso che altri fascisti, all’oscuro del blocco, decidano di utilizzare i treni della Pisa-Roma nella vana speranza di raggiungere la capitale. Le legioni toscane erano tutte partite sotto un terribile temporale. «Sì, pioveva a dirotto» dice uno dei comandanti delle colonne, Sante Ceccherini. «Zuppi, fradici sino alle midolla, tascapane a tracolla, fucile da caccia o moschetto in ispalla, fez sulle ventitré come per sfidare gli uomini e il destino, un pezzo di pane in mano, una coperta arrotolata sotto il braccio, le tasche piene di cartucce, le camicie nere sono arrivate così nelle vetture ferroviarie. Intanto fuori imperversava la rabbia degli elementi e pareva che questi si fossero, la scorsa notte, alleati coi pavidi governanti d’Italia.» Anche adesso continua a piovere: non sarà facile gestire l’enorme bivacco.
Negli stessi minuti in cui a Civitavecchia l’esercito tagliava la linea ferroviaria, un analogo ordine è giunto al distaccamento militare della stazione di Orte, distante dalla capitale poco meno di novanta chilometri. Qui, però, nell’attuare il piano del generale Pugliese c’è stata qualche titubanza. Così, interrotti i binari della linea principale, un treno con circa 1500 camicie nere – guidato da un ferroviere fascista – è riuscito a transitare su una linea secondaria e a procedere in direzione di Roma. Subito dopo i soldati hanno fatto deragliare alcuni vagoni merci anche su questi binari chiudendo completamente ogni varco al traffico ferro78 Il giorno che durò vent’anni viario. Giunti a Monterotondo, e appresa la notizia che nessuno li avrebbe seguiti perché alle loro spalle Orte è diventata una barriera insuperabile, i 1500 fascisti hanno per ora deciso di fermarsi in questa stazione a una trentina di chilometri da Roma.
A Milano, dalle finestre del suo ufficio al fortilizio del «Popolo d’Italia», Mussolini sta seguendo con crescente preoccupazione i movimenti delle guardie regie, giù in strada, che sembra si stiano preparando ad attaccare i fascisti armati che presidiano il giornale. Accanto a lui ci sono Cesare Rossi e Aldo Finzi. Nessuno parla. La tensione è al massimo quando il silenzio è rotto dal trillo del telefono. Mussolini fa cenno a Finzi di rispondere. Le linee telefoniche interurbane e quelle telegrafiche sono interrotte in gran parte dell’Italia, pochi i luoghi da cui è possibile comunicare, tra questi il Viminale e il Quirinale. La telefonata viene da Roma, dal Viminale, alla cornetta c’è Luigi Federzoni. Il leader nazionalista, accompagnato dal suo amico fraterno Roberto Forges Davanzati, era entrato con passo deciso nella stanza del capo di gabinetto e gli aveva chiesto di poter fare una telefonata importante a Milano. Efrem Ferraris s’era alzato, gli aveva fatto cenno di accomodarsi al suo posto e s’era allontanato di qualche passo a occuparsi d’altre cose non volendo dare l’impressione che volesse spiare il contenuto della conversazione. D’altra parte non ce n’era bisogno: tutte le telefonate di rilievo politico, in entrata e in uscita dal Viminale, vengono ascoltate e trascritte da uno stenografo in una stanza accanto a quella del centralino.
Dice in sintesi il leader nazionalista nella sua telefonata: Mussolini deve venire immediatamente a Roma, lo chiede uno dei quadrumviri, per sbloccare la situazione di stallo nella formazione del nuovo governo e perché in un contesto da guerra civile il re sarebbe pronto ad abdicare. Ma ecco il contenuto della conversazione.
Federzoni: «Ho parlato col generale De Bono, il quale si è raccomandato di fare tutto il possibile, visto che lui non può comunicare con Milano, perché Mussolini venga a Roma al più presto, perché qui la situazione è paralizzata dal fatto che il re non può conferire con nessuno dei capi fascisti. De Vecchi è a Perugia, pare, dove però fino a mezz’ora fa non era arrivato. Qui non c’è nessuno e corriamo il pericolo, dillo subito a Mussolini, che aggravandosi la situazione di fatto il re se ne vada». Finzi: «Adesso lo riferirò a Mussolini». Federzoni. «De Bono mi ha pregato di far conoscere a Mussolini questo desiderio suo come comandante generale: che Mussolini venga subito a Roma». Finzi: «Ho capito. Senta una cosa. Però bisogna che gli ordini di Milano per l’autorità militare siano un po’ diversi. Noi non possiamo allontanarci dal fascio e cominciamo a sparare». Federzoni: «Non perdiamo la testa! Perché il re non prenda determinazioni che senza dubbio aggraverebbero la situazione incalcolabilmente, bisogna che egli possa agire e subito in condizioni di visibile libertà, cioè che non esista una pressione... insomma... esteriore. D’altra parte ha dichiarato di non voler essere responsabile di versamento di sangue; in tal caso se ne andrebbe. C’è lo stato d’assedio in tutta Italia, quindi l’autorità militare agisce per conto suo... questo è che bisogna far presente. Bisogna far ritornare le cose in condizioni di tranquillità in un tempo massimo di due giorni, cioè prima di domani sera». A questo punto Mussolini, che sta ascoltando da un altro apparecchio, fa cenno a Finzi di passargli la comunicazione. Finzi: «Ecco Mussolini». Federzoni: «Ti premetto che ho preso io l’iniziativa di questa conversazione spontaneamente e soltanto per il desiderio di contribuire a risultati che stanno a cuore a tutti. Ho parlato con De Bono, il quale mi ha fatto presente i termini della situazione: che c’è il conflitto; e, se continua una situazione di fatto come quella che si sta verificando, avviene quella cosa... il re abbandona il trono. Qui manca assolutamente persona che possa andare a rappresentare il fascio e a cui si possa conferire sulla situazione. De Vecchi non è arrivato a Perugia. De Bono mi si è raccomandato vivamente di far conoscere a te tutto questo e ti prega di venire immediatamente a Roma». Mussolini: «Io non posso venire a Roma perché l’azione a Milano è in corso. Bisogna sentire lì dove sai, al comando supremo. Io accetterò tutte quelle soluzioni che il comando supremo crederà di adottare...». Federzoni: «Ma come te le può far conoscere il comando di lì, se non può comunicare con Milano?». Mussolini: «Pensa tu a informarmi, devi comunicare con Perugia. Bada che il movimento è serio in tutta Italia». Federzoni: «Ora si tratta di non distruggere il punto di appoggio; altrimenti tutto è finito». Mussolini: «Mettiti in rapporti immediati e di’ che Mussolini si rimette a quello che decideranno i comandanti». Federzoni: «Guarda tu di non muoverti dal “Popolo d’Italia”». Mussolini: «Non mi muovo. Ma bada che la crisi si orizzonti verso destra, verso destra, verso destra...». Federzoni: «In che senso?». Mussolini: «Un governo di fascisti». Federzoni: «Ma siamo d’accordo, non c’è dubbio. Ma bisogna evitare una situazione di armistizio. Entro domani sera io personalmente mi impegno di ottenere quello che desideri».
Terminata la conversazione, Mussolini deve costatare che la situazione al «Popolo d’Italia» è peggiorata ulteriormente. A ogni finestra si vedono spuntare, oltre i sacchetti di sabbia piazzati sui davanzali, le canne dei fucili impugnati dai redattori. Fascisti armati si sono acquattati sui terrazzi pronti a sparare, altri sono saliti sui tetti. Giù in strada le guardie regie, sotto una pioggia insistente, si muovono in formazione verso le barricate poste a difesa del giornale.
Occorre intervenire, e in fretta, per scongiurare che la guerra civile inizi (e praticamente termini con la sconfitta dei fascisti) proprio nel «fortilizio» milanese. Cesare Rossi si precipita giù in strada, Mussolini e Finzi lo vedono dalla finestra su via Lovanio superare una barricata di bobine di carta per le rotative e dirigersi verso un uomo in divisa, probabilmente un ufficiale. I due sembrano occupati in una discussione serrata, che dura pochissimo, e pare definitivamente chiusa quando Rossi si volta verso il palazzo del giornale. Alzando lo sguardo in direzione di una finestra dove sa bene chi c’è dietro i vetri a guardare, allarga le braccia come a dire: io ce l’ho messa tutta, ma questo qui non vuole sentire ragioni.
È a questo punto che Mussolini decide il tutto per tutto: apre l’armadio dietro la sua scrivania, afferra un fucile ed esce dall’ufficio con l’intento di scendere anche lui in strada. Finzi cerca inutilmente di fermarlo: «Se ti arrestano siamo finiti» gli dice. Ma non c’è niente da fare. Così non gli resta che seguire il suo capo. Dopo pochi secondi Mussolini e Finzi hanno raggiunto Rossi in via Lovanio. Sono armati tutti e tre. I fascisti che presidiano il giornale hanno i fucili puntati sulle guardie regie, e queste continuano passo dopo passo ad avanzare. Uno squadrista maldestro appostato su un tetto perde l’equilibrio e inavvertitamente preme il grilletto del moschetto. Parte un colpo, Mussolini sente il proiettile fischiare vicino e poi perdersi fortunatamente senza colpire nessun militare. Sarebbe stata la fine sul nascere di ogni tentativo di mediazione.
È poi grazie alla fermezza di un maggiore delle guardie regie (che ha ordinato e ottenuto il ritiro dei fascisti armati che presidiavano la zona) se non si è arrivati allo scontro. Ecco la testimonianza dell’ufficiale, comandante del terzo battaglione della legione di Milano: «Alle 8 mi ha chiamato il questore Gasti, mi ha detto che in via Moscova c’erano degli uomini armati che ostacolavano la libera circolazione e mi ha ordinato di recarmi di persona sul posto per rendermi conto della situazione e per ristabilire l’ordine “a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo”. Io ho ordinato a un mio ufficiale subalterno di far salire su due automezzi il suo plotone di una trentina di uomini. Abbiamo preso entrambi posto a fianco dei due automezzi e da piazza San Fedele ci siamo trasferiti, attraverso via Manzoni e via Principe Umberto, in via Moscova sino all’altezza di via Solferino, dove ho fatto fermare le macchine a una cinquantina di metri dai rivoltosi, ho fatto scendere le guardie dai mezzi di trasporto, ho ordinato che le stesse si disponessero in fila, spalle al muro, per offrire il minimo bersaglio e da solo mi sono avviato verso i rivoltosi, nella speranza di convincerli con le parole, prima che con la forza, a desistere dal loro atteggiamento aggressivo che io per altro non so giustificare».
L’ufficiale arriva davanti al «Popolo d’Italia» proprio nel momento in cui Mussolini e i suoi due collaboratori giungono in strada. Ecco ancora la sua testimonianza: «All’altezza di via Lovanio mi sono trovato improvvisamente di fronte a tre persone, una delle quali era armata di moschetto che teneva a tracolla e le altre due di pistole che impugnavano e che immediatamente hanno rivolto con le loro canne verso di me. Io, che avevo la mia rivoltella alla cintola, ho rivolto la parola a quello che teneva la sua arma più vicina al mio viso domandandogli chi fosse e lui di rimando mi ha risposto: “Onorevole Finzi”. Poi ho rivolto la stessa domanda a quello del moschetto e mi sono sentito rispondere: “Onorevole Mussolini”. A tal punto, trascurando di sapere il nome del terzo (che era Cesare Rossi), ho detto loro che non potevo essere più fortunato di così, poter parlare con dei capi responsabili e ai quali non ho nascosto il mandato ricevuto. Al che l’onorevole Mussolini ha esclamato con voce possente: “L’Italia è nostra”. Io di rimando ho risposto che l’Italia è degli italiani e ho ripetuto loro il mandato a cui avevo l’obbligo di obbedire: “Ristabilire l’ordine a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo”. È stato allora che Mussolini ha detto testualmente: “Maggiore, lei non conosce il movimento che c’è in tutta Italia, Milano sarà assorbita come dallo spandersi di tante macchie di olio”, al che io gli ho risposto: “Preferisco le macchie di olio alle macchie di sangue, perciò ordini ai suoi di rientrare alla sede del giornale e tutti siamo a posto”. I rivoltosi sono scomparsi come per incanto sicché io ho potuto telefonare al questore e riferire che nel settore tutto era calmo e la circolazione non subiva alcun intralcio e che se si rendeva necessario continuare nell’azione era indispensabile poter disporre di mezzi più idonei e più efficaci. Il questore mi ha pregato di restare con gli uomini sul posto in attesa di eventuali altre comunicazioni»
Mussolini, Finzi e Rossi sono potuti così rientrare al giornale senza gravi conseguenze.

Ma quanto e come dovrebbe essere curata l’igiene personale? Per quanto riguarda le «lavature», il professor Raffaele Cimmino, docente d’Igiene nella Regia università di Napoli, consiglia che «ciascun individuo faccia nella settimana almeno un bagno o doccia». Per quanto riguarda invece la biancheria intima (mutande, canottiere o magliette di lana o di cotone, calzini) il consiglio di tutti gli addetti alla cura della persona è di cambiarla frequentemente, cioè almeno ogni tre o quattro giorni. E tuttavia le sollecitazioni che vengono rivolte alla popolazione da più parti e con insistenza perché si curi maggiormente l’igiene personale fanno sospettare che quei parametri appena accennati vengano largamente disattesi.

La danza delle libellule di Lehár è in cartellone contemporaneamente in due teatri, al Lirico (con la compagnia Maresca-Orsini) e al Fossati (con la compagnia Città di Milano)

Lo stato d’assedio, cioè il passaggio del poteri dall’autorità civile a quella militare

A Firenze, intanto, una colonna di trecento fascisti riesce a partire verso la capitale. Dice uno dei protagonisti, Alessandro Del Vita, che fa parte delle centurie di Arezzo: «La stazione è invasa. Circondiamo il treno che in un attimo è invaso. Personale ferroviario fascista, in camicia nera, sale pure sul treno e ne prende possesso. Un gruppo di guardie e di funzionari assiste attonito». Il treno è il direttissimo DD 37 in partenza da Firenze alle 3.55. La tabella di marcia prevede l’arrivo alle 8.26 a Orte e alle 9.50 a Roma.

«Basta un quarto d’ora per togliere di mezzo i fascisti» (Pietro Badoglio, pochi giorni prima del 28 ottobre).

La sede del Popolo d’Italia, giornale di Mussolini: Milano, via Lovanio angolo via Moscova.

A Milano Mussolini è asserragliato nella sede del «Popolo d’Italia », in via Lovanio all’angolo con via Moscova. Ieri sera aveva chiamato i suoi collaboratori e aveva domandato: «La redazione è al completo? Qual è la disciplina delle squadre dei nostri operai? Sono possibili più turni? C’è il macchinario per le tirature massime? C’è la carta in magazzino? Da questa sera bisogna considerarci tutti mobilitati e provvedere per la difesa armata dell’edificio e delle macchine. L’azione sta per incominciare e ognuno sia al suo posto. Bisogna difendere il nostro fortilizio a ogni costo». Subito dopo, una fila di bobine di carta rotativa veniva piazzata davanti alla sede del quotidiano per formare una barricata. Intanto Mussolini aveva telefonato al teatro Manzoni per prenotare tre poltrone: per lui, per la moglie Rachele e per la figlia Edda. Ieri sera davano Il cigno di Ferenc Molnár con la compagnia di Dario Niccodemi.
Dopo lo spettacolo il leader del Partito fascista è tornato al giornale-fortilizio. Prima di andare a casa ha chiesto di sapere come usciranno i principali quotidiani milanesi, che cosa scriveranno dell’insurrezione appena iniziata. Ha affidato l’incarico al suo fedele segretario Cesare Rossi. In questi minuti l’uomo sta reclutando un manipolo di squadristi che lo accompagni nella visita notturna alle redazioni dei giornali: «Corriere della Sera», «La Giustizia», «Avanti!», «Il Secolo». Il messaggio che deve trasmettere, per ordine di Mussolini, è una chiarissima minaccia: i direttori che avessero intenzione di scrivere in termini critici della marcia su Roma farebbero meglio, molto meglio, a non far uscire i loro giornali.

«Un uomo politico di quart’ordine col cervello di una gallina» (Facta nel giudizio di Gaetano Salvemini).

In questo clima avvelenato erano potute maturare la rischiosa avventura di Fiume (occupata per quindici mesi da un gruppo di militari italiani ribelli e da volontari guidati dallo scrittore Gabriele D’Annunzio), l’avanzata tumultuosa del nazionalismo, il profondo rancore per le conclusioni del trattato di pace, giudicato più per le concessioni territoriali negate (Fiume e la Dalmazia) che per quelle ottenute (il Trentino e l’Alto Adige, la Venezia Giulia, Trieste, l’Istria e la città di Zara). Così da far recriminare che quella dell’Italia, alla fine, era stata una vittoria declassata, di serie B, o per dirla con le parole dello stesso D’Annunzio una «vittoria mutilata».