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 2012  agosto 30 Giovedì calendario

RE GIORGIO-CAV: C’ERAVAMO TANTO ODIATI

Il campione dell’anticomunismo e il primo comunista nella storia a diventare della Repubblica. Per prevedere che tra Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano non sarebbe stata esattamente una corrispondenza di amorosi sensi non c’era bisogno della cartomante. I due non si prendono fin dall’inizio.
10 maggio 2006, quarto scrutinio: l’accordo tra Unione e Udc è in cassaforte: si vota Napolitano. La allora Casa delle libertà si sfila plasticamente dall’intesa e dà scheda bianca, con tanto di parlamentari che entrano ed escono di corsa dalla cabina per allontanare sospetti. Quel giorno, un Berlusconi freddo come non mai non va oltre gli «auguri di buon lavoro» al neopresidente: «Speriamo sia imparziale», aggiunge, «noi ribadiamo le ragioni di un dissenso per un metodo che esclude la metà del Paese dalle istituzioni. La sinistra ha occupato tutte le alte cariche».
Il primo anno e mezzo, ad ogni modo, va via liscio. Il governo Prodi consuma la propria agonia e, a gennaio 2008, getta la spugna. Il Cavaliere vorrebbe le elezioni immediate, ma va a sbattere contro la volontà di Napolitano di esperire il tentativo di tenere in vita la legislatura: l’incarico esplorativo a Franco Marini soccombe sotto la contrarietà di Pdl e Lega e si torna alle urne.
Il governo Berlusconi IV parte col turbo. Il Cavaliere si presenta al Quirinale con la lista dei ministri bella e pronta, e la rende pubblica subito dopo il colloquio. Napolitano, che pure non ama le irritualità, benedice l’operazione. Passato indenne lo scoglio del Lodo Alfano (la cui firma, peraltro, varrà al presidente della Repubblica una valanga di accuse di criptoberlusconismo da parte del centrosinistra), i due arrivano allo scontro frontale sull’ultima cosa che uno si aspetterebbe: i temi etici.
Il 6 febbraio 2009, caso Eluana.
Napolitano si rifiuta di firmare il decreto lampo approntato per impedire la sospensione di alimentazione ed idratazione. In serata, un consiglio dei ministri convocato ad hoc approva un disegno di legge che recepisce in toto il testo del decreto bocciato.
Da lì in avanti, si peggiora. Tra caso Brancher (la cui nomina a ministro non è estranea a logiche extra-politiche e risulta assai sgradita a Napolitano) e ddl lavoro rinviato alle Camere le frizioni si moltiplicano. Inizia poi il logoramento del Pdl che culminerà con il caso Fini (il cui supposto gioco di sponda con il Colle è oggetto di svariate maldicenze in campo pidiellino) e con il ridisegno della maggioranza.
A questo punto, il solco tra i due non può che allargarsi. Il governo stenta in Parlamento, dove, tra legittimo impedimento e processo lungo, la giustizia fa la parte del leone con modi e mole che al Quirinale non possono risultare che indigesti. Non bastasse il Cav, ad indispettire Napolitano concorre anche la trovata leghiste dei ministeri a Monza.
La ciliegina sulla torta provvede a metterla lo spread. Speculazione scatenata, lettera della Bce, governo in bambola e maggioranza più scricchiolante che mai. È a questo punto che Napolitano - portando al limite le proprie prerogative - prende in mano la situazione iniziando a preparare il campo (a quanto pare non senza confrontarsi con Angela Merkel sulla questione) per il cambio di primo ministro.
Il 8 novembre 2011 la Camera approva il Rendiconto con soli 308 voti e Napolitano convoca Berlusconi al Quirinale, ottenendo l’impegno del Cav a fare un passo indietro una volta approvata la legge di stabilità per fare largo a Mario Monti. Quattro giorni dopo Berlusconi si dimette. Pochi minuti e sotto il Quirinale si raduna una folla urlante munita champagne e monetine per fare festa e giurare eterna gratitudine.