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 2012  agosto 30 Giovedì calendario

DI PIETRO MI PREANNUNCIÒ L’INCHIESTA SU CRAXI E LA DC


Alcuni mesi prima di Tangentopoli Antonio Di Pietro anticipò al console generale americano a Milano che l’inchiesta avrebbe portato a degli arresti e che le indagini erano destinate a coinvolgere Bettino Craxi e la Dc. A ricordarlo è proprio Peter Semler, durante un incontro nella sua tranquilla casa agli Hamptons dove trascorre l’estate fra spartiti di musica russa sul pianoforte, fiori ben curati nel patio e la tv accesa sul canale del golf. L’ex console, 80 anni, ha il fisico asciutto, la voce mite e grande premura nel ricordare gli anni passati in Italia, iniziati quando nel 1983 arrivò a Roma come consigliere militare-politico, gestendo
l’arrivo dei missili Cruise a Comiso e disinnescando nel 1986 la crisi Usa-Italia seguita dall’attacco di Reagan contro la Libia di Gheddafi. Ma, trascorsi venti anni dall’inizio di Tangentopoli, ritiene soprattutto giunto il momento di ricordare come visse, dal suo osservatorio, quella stagione che portò alla fine alla Prima Repubblica.

Quando arrivò a Milano?

«Nell’estate del 1990. Era agosto e non c’era nessuno, tutto sembrava normale con i soliti Giulio Andreotti e Francesco Cossiga che decidevano ogni cosa a Roma. C’era anche Craxi, il figlio Bobo fu una delle prime persone che vidi».

Che approccio ebbe alla politica milanese?

«Giuseppe Bagioli, un dipendente italiano al Consolato, era il mio consigliere politico a Milano, viveva di politica interna, sapeva tutto di tutti. Una vera enciclopedia vivente, mi fu di aiuto straordinario. Una delle prima persone che mi portò fu il figlio di Craxi, poi vidi quelli della Lega e quindi i comunisti. Volevamo parlare con tutti e così facemmo. Mi resi conto che vi sarebbe stata un’esplosione, come poi avvenne. La Lega nel Nord aveva il centro a Milano, e poi qualcosa in Veneto».

Come ricorda i leghisti?

«Avere a che fare con loro era tutt’altra cosa rispetto a Roma: arrivavano puntuali ai pranzi e poi tornavano subito a lavorare. Borgioli mi fece parlare con gente che esprimeva scontento verso Roma, ma quando andai a dirlo all’ambasciatore a Roma Peter Secchia mi disse: “Che vai dicendo? Ieri ho visto Cossiga e Andreotti, è tutto ok, governa sempre la stessa gente”. Io rispondevo che i cambiamenti sarebbero stati grandi ma era parlare al vento».

Da dove nasceva il contrasto di interpretazioni con l’ambasciata Usa a Roma?

«All’ambasciata a Roma c’era all’epoca Daniel Serwer, che sosteneva la tesi che nulla sarebbe mai cambiato in Italia. Ad un incontro a Roma a cui parteciparono tutti i nostri generali, della forze del Mediterraneo, mi dissero che non avevo capito niente».

Perchéeracosìconvintodiavereragione?

«Per quello che sentivo a Milano. Ricordo che un primo gennaio ebbi un pranzo con due leader della Lega e quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”. Ma a Roma Secchia continuava a dirmi: “Basta perdere tempo con queste storie”».

Conobbe Antonio Di Pietro, allora pubblico ministero?

«Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti».

Quando avvenne il colloquio?

«Incontrai Di Pietro prima dell’inizio delle indagini, fu lui che mi cercò attraverso Bagioli. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc».

Stiamo parlando di circa quattro mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, avvenuto il 17 febbraio del 1992...

«Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene. Di Pietro mi preannunciò gli arresti ma per me non era chiaro cosa sarebbe avvenuto».

Che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite?

«Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici, ci vedevamo in luoghi diversi».

Con Di Pietro c’era un’intesa più forte?

«Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato. Ero spesso in contatto con lui. Ci vedevamo».

Cosa pensava delle indagini?

«Ero in favore di ciò che Di Pietro faceva ma era una materia legale assai complessa. Il mio ruolo era di dire a Secchia cosa faceva Di Pietro».

Come si comportava Di Pietro negli incontri con lei?

«Di Pietro con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato».

Cosa la colpì di lui?

«Borgioli mi disse che Di Pietro sapeva usare il computer, a differenza di gran parte degli italiani. Di Pietro era un personaggio straordinario, cambiò l’Italia».

Come nacque la visita negli Stati Uniti?

«Sono stato io a suggerire all’ambasciata a Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l’inizio delle indagini».

ChiincontròDiPietrodurantelavisita?

Arrivai nel capoluogo lombardo nell’estate del 1990. Tutto sembrava normale con i soliti Andreotti e Cossiga che decidevano ogni cosa a Roma C’era anche Craxi, il figlio Bobo fu una delle prime persone che vidi

«Gli fecero vedere molta gente, a Washington e New York».

Come reagirono i comandi militari Usa a Tangentopoli?

«I militari davanti a Tangentopoli non si interessavano troppo alla politica, volevano solo essere sicuri che avrebbero potuto continuare a muovere liberamente le loro truppe e navi. E che le armi nucleari fossero al sicuro».

Come ricorda l’atmosfera di Milano in quel 1992?

«A Milano il cambiamento era nell’aria. Conoscevo molte persone. Ricordo Pirelli e c’era un industriale importante, di origine siciliana, basso, con il cognome di quattro lettere che mi diceva le cose. Mario Monti all’epoca guidava la Bocconi, andavamo a cena assieme e gli procuravo oratori americani. Berlusconi non lo conoscevo bene, una volta ebbi con lui un pranzo assai lungo, Peter Secchia aveva in genere bisogno di 45 minuti per raccontarsi, scoprì che c’era qualcuno capace di parlare assai di più».

Terminata la conversazione Semler ci accompagna verso l’uscita dimostrandosi ancora un attento osservatore dei fatti politici italiani. E passando vicino al pianoforte osserva: «Continuo a suonarlo perché è stata mia madre a insegnarmelo».