Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  agosto 30 Giovedì calendario

QUEL MITO DIMENTICATO NELLE VISCERE DELLA TERRA

Per George Orwell il minatore, più di ogni altro operaio, è il prototipo del lavoratore manuale: non soltanto perché il suo lavoro è «esageratamente orribile», ma perché è tanto necessario quanto invisibile e lontano dall’esperienza di tutti noi che viviamo alla luce del sole. Dimentichiamo che esistono i minatori «come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene», scriveva l’autore della «Fattoria degli animali». La miniera è rimasta soprattutto come metafora: che ha cancellato la fatica e ha salvato solo il risultato del lavoro. Miniera non è sudore, ma abbondanza. Nel ’36 Orwell era stato inviato da un settimanale nelle miniere del Black Country, del Lancashire e dello Yorkshire per un reportage. Restò in quei luoghi un paio di mesi e ne venne fuori un libro memorabile (almeno nella prima parte, narrativa) che purtroppo non si trova, «La strada di Wigan Pier».
Le miniere esistono ancora, anche se tutto congiura, oggi come allora, a farci dimenticare che ci sono lavoratori che scendono sottoterra per estrarre carbone, rame, zolfo, e persino oro, platino, diamanti... Ce ne ricordiamo solo quando accadono incidenti tragici e spettacolari, come quello che un paio d’anni fa intrappolò nelle viscere di San José, in Cile, trentatré minatori, per fortuna portati in salvo (in mondovisione) dopo settanta giorni. Ce ne ricordiamo (un po’ meno) anche per le proteste e le rivendicazioni: in Sudafrica, qualche settimana fa, la rivolta salariale ha provocato sei giorni di sparatorie della polizia e molti minatori uccisi. In questi giorni ci ricordiamo del Sulcis. «Sulcis in fundo»: gli operai hanno deciso di sprofondare nella terra per farsi sentire. Ce ne ricordiamo a intermittenza, insomma, quando i fari della cronaca si accendono nel buio di quei cunicoli. Eppure la miniera è un archetipo che prima di tutto sta dentro di noi. Non per nulla usiamo la stessa parola, «vena», per il corpo umano come per la terra. E ci piace dire le «viscere» della terra come fossero le nostre. Un archetipo: tutto è rimasto pressoché inalterato dall’Ottocento: la terra è rimasta terra, il buio buio, le viscere viscere, l’inferno inferno. Mentre i grandi poemi epici del passato remoto erano viaggi in altri mondi, nell’oltretomba, nel Purgatorio e agli inferi, un grande romanzo moderno come «Germinale» di Emile Zola, scritto nel 1885, si svolge in una miniera, regno dei morti-vivi, di uomini coraggiosi condannati dai padroni prima che dal destino a essere vittime. Anche Cronin, ne «Le stelle stanno a guardare», romanzo più sentimentale che sociale ambientato in Galles, raccontò del lavoro più nero che esista. E di uomini-uomini che non hanno mai paura.
Provate a chiedere agli anziani ex minatori di Marcinelle, dove nel ’56 morirono 262 lavoratori, se entrando sull’ascensore per raggiungere i 300, 500, 900, 1.000 metri sotto terra avevano paura. Vi sentirete rispondere che no, erano lì sotto tutti insieme e stando insieme tenevano a distanza il pensiero della morte: la paura non era il nero delle vene, il rumore assordante dei locomotori, lo scricchiolio delle gabbie che li portavano al fondo; la vera paura era la povertà da cui provenivano; il terrore era rimanere senza lavoro e lasciare senza pane le proprie famiglie. Figli e mogli. Loro sì che avevano paura, nell’attesa. Temevano ogni giorno che i loro padri e i loro mariti non tornassero più in superficie. E appena videro il fumo uscire dai pozzi del Bois du Cazier corsero ai cancelli in lacrime. Era un lavoro da uomini-schiavi, maschi i cui corpi (in uno slancio estetizzante vagamente pre-pasoliniano) lo stesso Orwell definì «splendidi»: piccoli ma armoniosi. Ora è diventato anche un lavoro per donne. E non sono più le facce nere dei minatori della Vallonia, non le facce sporche dei lavoratori di Ribolla descritte da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola nel loro famoso libro-inchiesta; sono visi puliti, con caschetti gialli e tute quasi impeccabili. Le viscere della terra sono anche le loro: lì giustamente si sentono più forti, uniti e solidali che mai.
Paolo Di Stefano