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 2012  agosto 12 Domenica calendario

E se Rousseau avesse avuto ragione? – Quando gli europei sono venuti in contatto con i popoli "primitivi", hanno pensato che il modo di vita di questi popoli fosse rimasto lo stesso dai lunghi millenni della preistoria

E se Rousseau avesse avuto ragione? – Quando gli europei sono venuti in contatto con i popoli "primitivi", hanno pensato che il modo di vita di questi popoli fosse rimasto lo stesso dai lunghi millenni della preistoria. L’idea, criticata come ingenua in passato, trova invece conferma nei risultati di un vasto lavoro interdisciplinare fra antropologia e archeologia. Il decennale lavoro di antropologi che hanno vissuto con popolazioni di tutti i continenti ha fornito descrizioni ampie e dettagliate su vita e cultura indigene. Nel contempo, decenni di scavi ci hanno fornito un quadro sempre più preciso della vita preistorica. Il confronto è illuminante: oggetti simili, amuleti simili, simile struttura di case e villaggi, statue simili, monumenti simili, come i dolmen, simili forme di sostentamento, simile livello di scambi commerciali, simili rituali, e via così. Le popolazioni "primitive" studiate dagli antropologi possono effettivamente rappresentare una finestra sullo stile di vita della nostra specie durante diverse fasi dell’età della pietra. Guardare nei loro occhi è forse un poco come guardare negli occhi di migliaia di generazioni che ci hanno preceduto. Questo è il punto di partenza di un libro che sta suscitando molto interesse: La creazione della diseguaglianza: come i nostri antenati preistorici hanno gettato le basi per monarchia, schiavitù e imperi. Il libro è scritto a quattro mani da un archeologo e un antropologo, Ken Flannery e Joyce Marcus, noti per contributi fondamentali dati allo studio delle culture precolombiane del centro America. Il punto di arrivo del libro è una tesi sorprendente, che ha risonanze politiche e sociali, sull’origine della diseguaglianza nelle società umane. Molte società, e la nostra democrazia fra queste, sono fortemente stratificate: miliardari e poveracci, nobili e plebei, generali e soldati, liberi e schiavi, eccetera. Qual è l’origine di questa diffusa diseguaglianza? La specie umana è stata sempre gerarchica? Il pensiero politico classico presenta tesi contrastanti, dall’origine divina delle diseguaglianze: nobili e borghesi calvinisti, il re e il papa, sono al di sopra degli altri per grazia divina. Fino alla tesi famosa, qualche volta irrisa, di Jean-Jacques Rousseau, che in un saggio giovanile del 1755, il Discorso sull’origine e le basi della diseguaglianza fra gli uomini, presentò l’idea di una società primitiva egalitaria, dove tutti gli uomini e tutte le donne avevano pari dignità, e le risorse erano condivise. Secondo Rousseau, questo stato ideale di "buon selvaggio" è stato perso con lo strutturarsi della società, che ha portato alla formazione di classi sociali, poteri e ineguaglianze. «L’uomo nasce libero, eppure lo vediamo ovunque il catene», sono le potenti parole di Rousseau, poco prima della Rivoluzione Francese. La sorpresa è che la ricerca recente sembra dare ragione a Rousseau. Prima dell’inizio dell’agricoltura, prima della formazione di strutture sociali complesse come clan e tribù, i nostri antenati vivevano di caccia e raccolta, organizzati in piccoli gruppi dove l’eguaglianza sociale era difesa attivamente. La struttura base delle antiche società di raccoglitori-cacciatori nomadi è la famiglia allargata, formata da dieci-venti persone con stretti vincoli di parentela, a sua volta legata da una fitta rete di scambi di doni con altre famiglie allargate che vivono nello stesso territorio. Non vi è accumulo di ricchezza, non vi è differenza di grado riconosciuta. Perfino il riconoscimento di maggiori capacità di un individuo, per esempio nella caccia, è tenuto a freno dalla cultura. Presso i !Kung del deserto del Kalahari fra la Namibia e il Botswana, per esempio, una caccia particolarmente felice di un bravo cacciatore viene accolta con grande allegria, ma anche con grande ironia: un ricco bottino di carne viene subito schernito da tutti con humour: «Ma che inutile mucchio di pelle e ossa!». La comunità è vigile affinché nessuno venga a trovarsi in una posizione di privilegio. La carne cacciata è subito divisa e regalata. Un uomo più capace e intelligente è ascoltato se di volta in volta riesce a convincere gli altri di una buona scelta, ma non vi è un capo nel gruppo, e chi cercasse di imporsi incontrerebbe l’immediato l’ostracismo di tutti. L’unico bene che una famiglia accumula è il credito verso i vicini, se riesce a fare loro molti doni. In un momento di difficoltà, saranno i vicini a essere felici di potersi sdebitare. Questa sembra essere stata la vita degli uomini per centinaia di migliaia di anni. Circa 15.000 anni fa, con il crescere della capacità di gestire i prodotti della terra, il conseguente aumento della popolazione e la necessità di lavorare insieme in gruppi numerosi, iniziano a instaurarsi nuove strutture, dove si affacciano distinzioni sociali e il valore dell’eguaglianza si indebolisce. La struttura che viene a prevalere è il clan, formato da numerose famiglie allargate. Il clan crea un’identità nuova, che non è né di parentela stretta, né di scambio di doni. Si può riconoscere in un antenato mitico, ma si fonda su un’istituzioni specifica dove i giovani maschi si guadagnano faticosamente l’appartenenza, e vengono pian piano istruiti ai segreti del gruppo: La "casa degli uomini", edificio centrale del villaggio, è il luogo della socializzazione dove i giovani maschi vengono iniziati ed educati ai valori del gruppo. La si ritrova pressoché identica in villaggi indigeni di tutti i continenti, così come negli scavi archeologici che risalgono al periodo di uscita dalla primitiva fase di cacciatori-raccoglitori. La "casa degli uomini" è la radice di molte istituzioni odierne, dalle chiese alle scuole, dalla caserma alla Bocconi. La vita del clan ruota intorno a questo luogo e si radica intorno a complessi rituali che trasmettono i miti fondanti. È in questa fase che il maggiore successo di alcuni individui comincia a essere riconosciuto socialmente. Si afferma anche il valore dato ai maschi, che si considerano il nerbo del clan, rispetto alle femmine, che ne sono ai margini; ai vecchi, che ne sono già integrati, rispetto ai giovani, che devono ancora salire la scala di iniziazione; e a una minoranza di successo che gestisce il clan, ne governa i riti e i percorsi di iniziazione e ne custodisce il sapere segreto. È la radice della nobiltà, del clero e della grande concentrazione della ricchezza. La diseguaglianza all’interno della società umana è nata. In una seconda fase, che inizia 7.500 anni fa nel vicino oriente, 4.000 anni fa in Perù e 3.000 anni fa in Messico, le élite privilegiate si organizzano attivamente per stabilizzare e rendere ereditari i propri poteri. È la fase in cui le razzie fra villaggi evolvono in guerre di conquista, la religiosità si riorganizza e, secondo i nostri autori, la casa degli uomini evolve nel tempio, luogo specificamente dedicato al culto di una divinità maggiore che legittima i privilegi. Diverse società oscillano tra fasi in cui un’elite prevale e accentra il potere, e fasi in cui la maggioranza ristabilisce valori di eguaglianza. I Konyak Naga nelle montagne dell’Assam, fra l’India e il Bhutan, per esempio, sono stati osservati oscillare ciclicamente fra una struttura più egualitaria basata sul riconoscimento del merito individuale, chiamata thenkoh, e una basata sul rango, con capi ereditari, chiamata thendu. Questi brevi cenni non rendono giustizia alla strepitosa ricchezza di vivide descrizioni di vita di popoli in ogni immaginabile parte del mondo, presentate nel libro. Feste dove non si può fare a meno, per buon augurio, di una razzia al villaggio vicino per tagliare un po’ di teste (usanza apparentemente molto diffusa)… Sfide di doni incrociati per acquistare prestigio (io ti regalo un maiale, tu me ne regali due, io te ne regalo tre…) fino al punto in cui chi non riesce più a sdebitarsi si sottomette a una forma di servitù… Il libro è un evento importante per la conoscenza di noi stessi, ma anche una miniera di storie affascinanti. Un libro da non perdere per chi sia curioso del percorso antico che ci ha portato a essere quelli che siamo oggi; mi auguro sia presto pubblicato in italiano. Certo, non possiamo voler troppo leggere nei risultati di una ricerca che è in corso. Ma è difficile resistere al fascino dell’idea di un lunghissimo periodo egalitario nella storia dell’umanità. La spinta verso una società dove l’ineguaglianza sia tenuta a freno è profondamente radicata nella nostra civiltà, fino dalle epiche cacciate dei re del periodo greco e romano arcaico. Nella prima repubblica romana, le leggi Licinie Sestie proposte nel 367 aev limitavano la quantità di ricchezza (terreni e bestiame) che i patrizi più ricchi potessero possedere. Il desiderio di eguaglianza ha segnato la crescita del mondo moderno: dall’abolizione della schiavitù all’abolizione dei privilegi dei nobili e del clero nel Settecento, fino all’idea moderna di democrazia, dove ogni voto conta eguale. Il recente insuccesso storico del socialismo reale ha fermato questa spinta, e oggi, appena velato dalla retorica pro-democratica, assistiamo in ogni parte del pianeta a un radicalizzarsi quasi feroce della disuguaglianza: la distribuzione della ricchezza si sta sempre più sbilanciando in tutti i Paesi, e cresce nel mondo un’élite di ricchissimi che concentra il potere. L’ideale ottocentesco e novecentesco di eguaglianza, ancora vivissimo pochi decenni fa, appare oggi sfocato e irriso. Forse è solo un’oscillazione, come quelle dei Konyak Naga delle montagne dell’Assam: nei nostri geni culturali profondi ci sono probabilmente decine di millenni di una società certo non ideale, ma dove le risorse venivano ridistribuite. Dove tutti gli uomini e le donne erano considerati eguali.