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 2012  agosto 11 Sabato calendario

l pomeriggio del 28 giugno 1940, il ghibli si è placato, il cielo è terso e, all’aeroporto di Tripoli, Italo Balbo decide un volo di ricognizione verso Tobruk

l pomeriggio del 28 giugno 1940, il ghibli si è placato, il cielo è terso e, all’aeroporto di Tripoli, Italo Balbo decide un volo di ricognizione verso Tobruk. I motori sputacchiano olio e le eliche stanno girando quando Balbo viene avvertito che è giunto un vecchio amico, il giornalista e storico Nello Quilici. Allora prega il suo fotoreporter di fiducia: «Goldoni, sono mesi che non vedo Quilici, cedigli il posto e sali sull’altro aereo». Arrigo Goldoni raccoglie Leika, Rolleyflex, padellone del flash e trasloca sul secondo S.79. In quegli attimi il Caso decide la vita e la morte di due uomini. Zio Arrigo, dopo la scomparsa prematura di mio padre, era divenuto il mito di famiglia. Durante la campagna d’Etiopia — mentre i balilla puntavano le bandierine su Adua, Macallè, Amba Alagi — scampò a un’imboscata tesa dai terribili Sciftà a un nostro reparto, trovò un riparo da cui continuò a scattare immagini atroci. (Ma, ritenute poco consone al trionfalismo di regime, le foto non videro la luce). Questo zio che, anche dopo la conquista di Addis Abeba, continuò a bazzicare l’Africa, veniva ogni tanto a trovarci a Parma, eternamente abbronzato, in sahariana, il petto pieno di nastrini. E queste apparizioni alzavano le mie quotazioni presso i compagni, anche perché potevo sfoggiare un turbante di Dubat, una casacca di antilope, i sandali di cuoio duro con la punta all’insù, le foto del minareto di Giarabub («Inchiodata sul palmeto veglia immobile la luna», canticchia ancora la mia generazione). Torniamo a quel fatale pomeriggio del 28 giugno 1940 in cui Arrigo scampò alla morte per una di quelle fortuite concatenazioni narrate da Thornton Wilder nel Ponte di San Luis Rey. Vecchio amico di Italo Balbo, Arrigo ne era divenuto anche il fotografo ufficiale e l’aveva seguito in Libia, dove Mussolini — geloso dei suoi trionfi transatlantici — lo aveva esiliato con il contentino di governatore. Allo scoppio della guerra Balbo s’era dichiarato pessimista sulla preparazione militare della nostra colonia, ma da quel pilota guascone che era, non aveva rinunciato a sbalordire gli inviati americani: «Non abbiamo carri armati — ironizzava — ce li andiamo a prendere». E atterrava col suo trimotore nel deserto, puntava le mitragliere, costringeva alla resa un’autoblindo britannica. È noto il tragico epilogo di quel volo: a Tobruk la nostra contraerea con un abbaglio imperdonabile scambia per nemici i due S.79, un colpo centra quello di Balbo che precipita in fiamme. Le sequenze della tragedia ho potuto vederle, dopo la guerra, nei fotogrammi di zio Arrigo: le nuvolette scure delle granate, l’ala che s’inclina, l’aereo che si avvita, il rogo laggiù con la colonna di fumo che oscura il sole. E poi le foto dei corpi carbonizzati nel braciere del deserto. «Dammele — non riuscii a trattenermi — è uno scoop». Lui fece un sorriso strano e mi gelò: un inviato del «New York Times» lo avrebbe riempito di dollari per quelle immagini dell’assurda fine di un personaggio tanto popolare negli States. Lo zio, per rispetto verso i familiari delle vittime, non avrebbe mai sfruttato le foto. E con quella lezione di giornalismo corretto liquidò le mie velleità. Addio scoop. Ma il colpo a sensazione lo fece lui pochi anni dopo. Si era imbarcato come fotografo di bordo sulla motonave Bianca C. Scattava ritratti a coppie e comitive, sullo sfondo di brindisi e cotillon, sviluppo e stampa in 12 ore (nella sua cabina attrezzata a camera oscura). Niente di epico come ai bei tempi, ma si doveva pur campare. Da quei viaggi tornava con le più strabilianti novità made in Usa. Una volta ci regalò un frullatore, mai visto in Italia, che scatenò la nostra frenesia creativa: frullammo di tutto, anche il formaggio con le pere, e quel risultato stomachevole almeno ci evitò di sperimentare un allucinante passato di prosciutto e melone. Intanto si avvicina il gran giorno del riscatto. Nell’estate del 1961 la Bianca C. fa rotta nei Caraibi quando un’esplosione in sala macchine innesca un furioso incendio che si estende e divora la nave. Mentre tutti i naufraghi vengono tratti in salvo, Arrigo ritrova l’antica grinta e scatta finché il comandante lo trascina sull’ultima scialuppa. Il servizio esce sui rotocalchi di mezzo mondo: il terrore negli occhi delle donne col trucco sfatto, i gioielli e l’infradito, l’assalto alle lance, i bambini presi al volo dai marinai. Quasi il remake di un Titanic più fortunato. E poi la nave che s’impenna di prua, si staglia sul cielo come un castello in fiamme, sprofonda in un gorgo schiumante. È la rivincita del reporter di prima linea, declassato a fotografo di crociera.