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 2012  agosto 10 Venerdì calendario

LE GARE DI LONDRA VISTE CON GLI OCCHI

LE GARE DI LONDRA VISTE CON GLI OCCHI
DELLE MAMME–

Hanno mandato i figli in palestra per toglierli dalla strada e sono arrivati alle Olimpiadi. È la storia di due madri di Aversa che oggi sono a Londra. La loro guerra quotidiana alla camorra le ha portate fin qui. Un gesto semplice e ostinato: accompagnare i loro ragazzi ogni pomeriggio a judo per impegnarli in qualcosa che non fosse la criminalità. Elio Verde ha gareggiato nei 60 chili e Francesco Faraldo nei 66. Per fortuna si sono battuti in categorie diverse, sono grandi amici. Come le loro mamme, Teresa e Antonietta, che non hanno risparmiato energie per spostarli dalla terra dei Casalesi al tatami londinese. Erano capaci di farsi la notte in treno, loro due, per essere presenti a una gara, magari a Genova. O di guidare ogni sera fino a Piscinola, in piena Secondigliano, chiuse in macchina con il batticuore. «Non potevamo certo mandarli da soli», racconta Teresa, appena scesa da un aereo che l’ha spaventata ancora di più. Non aveva mai volato prima.

Sfide che vanno oltre le gare. Antonietta, che una volta ha seguito il figlio fino a Rotterdam, si fa una risata da veterana: «Teresa ha paura di tutto, devo starle vicina io». Ma dopo una birra in un pub vicino a Casa Italia, si sono già sciolte. Si guardano intorno curiose. Antonietta scopre di avere di fronte Westminster Abbey e sussurra una preghiera per i ragazzi. Le gare poi non vanno come si sperava, Elio manca il bronzo per un pelo e Francesco viene squalificato subito, ma per loro è già un trionfo essere lì.
La determinazione di Teresa in realtà va oltre le arti marziali. Si era ritrovata madre di due gemelli a 18 anni e non poteva continuare gli studi. Allora che fa? Dopo che i figli (diventati tre) sono cresciuti, a 35 anni si iscrive al liceo, prende la maturità e a 38 porta a casa una laurea in Scienze dell’educazione. Oggi insegna e studia per la laurea specialistica in scienze politiche. Si lamenta un po’ perché è precaria, ma il riscatto vero è arrivato lo stesso, attraverso lo sport. Una bella soddisfazione, altroché. Tutto il paese di Trentola Ducenta si riunisce nel bar di suo marito per seguire i combattimenti di Elio e Francesco in tivù. «Il loro legame è così forte che a volte Elio torna a casa e va a dormire da Francesco», racconta Teresa, durante una gita in barca sul Tamigi, «non contenti di dividere gli allenamenti e tutte le gare, escono insieme con le loro fidanzate e organizzano le vacanze in quattro».
Entrambi sono entrati in polizia, che garantisce loro uno stipendio, perché il judo non è certo il calcio e con una cintura nera non si diventa ricchi. Francesco aiuta i suoi genitori, per esempio. Il padre, imbianchino, in questo momento è disoccupato e Antonietta, assistente sociale, riesce a lavorare solo poche ore con gli anziani. Del resto, Francesco è diventato adulto in fretta. A 14 anni il judo lo ha portato lontano da casa, partiva da solo. E quando tornava non stava mai fermo, si alzava alle cinque del mattino e accompagnava il nonno in campagna. Allenato ai sacrifici, si è accorto presto che con la volontà si può raggiungere (quasi) qualsiasi meta. Da ragazzino diceva: «Mamma, voglio andare all’Olimpiade». Eccolo.
Ascoltando le madri degli Azzurri ti accorgi che dietro le gare ufficiali, spesso ci sono sfide ancora più grandi. Lo sport come riscatto? Questa speciale tensione si avverte anche in altri. E un’Olimpiade diventa l’occasione per dare uno schiaffo alle ingiustizie della vita.
Alberto Busnari ha cominciato a fare ginnastica artistica grazie a sua sorella. Era gracilino, tutto storto, aveva problemi ortopedici, quindi lei se lo portava in palestra per raddrizzarlo un po’. Certo, nessuno si aspettava che quel bambino poco atletico potesse dare dei risultati. Angela, orgogliosa, lo seguiva in tutte le gare. Ma è riuscita ad accompagnarlo solo fino alle Gymnasiadi del ’94: è morta a vent’anni, in un incidente stradale. Alberto è andato avanti, sostenuto dalla madre, che si è fatta forza per dare il massimo al figlio che rimaneva. Da piccolo gli curava le vesciche con il mercurocromo, gli toglieva i paracalli e incideva la carne viva con le forbici da unghie. Oggi lui è un uomo di 33 anni alla quarta Olimpiade, un mago del cavallo con le maniglie, e Ivana si limita al sostegno morale (e a cucinargli qualche piatto a Melzo, da portare a Milano in una scatolina di plastica). «Cadere dall’attrezzo è un attimo, basta poggiare male una mano», spiega mentre l’accompagniamo alla prima gara, alla North Greenwich Arena, «e quando succede devo stare attenta a consolarlo, se no si arrabbia. Ma io ho lavorato tanto!, mi risponde». Succede anche qui: Alberto cade dalla sbarra. Ma la gara va alla grande lo stesso e Ivana grida di gioia, sventolando come un’ultrà la bandiera italiana.

Ring e pedane. Le rivincite possono essere anche sulla storia familiare. È il caso di Manuel Cappai, figlio di un pugile sardo che non è stato ammesso a Seul. C’è lui, adesso: ha 19 anni ed è il più giovane pugile olimpionico. Per Cinzia il mestiere di mamma è ancora più duro. «Vedere che fanno male a tuo marito è una sofferenza, ma a tuo figlio è peggio», mi confessa. In gran segreto, perché davanti a Manuel s’inventa sempre un sorriso. «Faccio la forte, cerco di non mettergli ansia. Alcune mamme non vogliono andare agli incontri di pugilato dei figli, ma io sto male quando rimango a casa». Certo, avrebbe preferito che continuasse con il calcio, sport meno violento. Era pure bravo, Manuel. Ma a 15 anni c’è stata la folgorazione, dopo aver visto un incontro del cugino (non del padre!) ha mollato il pallone e, da un giorno all’altro, si è dedicato completamente alla boxe. Il Dna ha fatto la sua parte lo stesso. La famiglia Cappai è tutta di pugili, Cinzia non ha scampo: la figlia insegna e il più piccolo dimostra già talento con i guantoni, toccherà correre dietro anche a lui.
Ma ci sono storie più solitarie, atleti che seguono la loro vocazione come s’insegue un’ossessione che gli altri fanno fatica a capire. Artisti dello sport, testardamente occupati dalla loro fantasia, che appare anche un po’ stramba agli occhi del mondo. Almeno fino a quando non ci si trova davanti a un’evidenza. Per esempio un’Olimpiade.
Rossella Fiamingo nasce in una famiglia colta di Catania, la madre è musicologa, il fratello si occupa di conservazione dei beni culturali e lei studia pianoforte e clavicembalo. Ma ben temperata è solo la sua spada. Non diventa Glenn Gould, diventa un’olimpionica (e si fidanza con un giovane campione di nuoto, Luca Dotto). Anche la madre Nunziata ammette che in Rossella, «schermitrice pianista» (così si definisce lei), c’è proprio una vena artistica. Per rilassarsi suona Schubert e fa oggetti in terracotta, ritiri gentili da damina, prima di infilzare qualcuno. Rossella si è fermata ai quarti di finale. La musica la consolerà?
Ancora più misteriosa, anche agli occhi di sua madre, è Clara Giai Pron, poetessa della canoa. Indipendente fin da bambina, quando i genitori la caricavano su un pulmino di francesi con i suoi sci e l’abbandonavano al suo primo elemento, la neve. «Non sappiamo con chi è, non sappiamo dov’è: e se ci perdiamo la bambina sulle montagne cosa raccontiamo?». Questo si dicevano i genitori torinesi, impegnati con altri due figli e un lavoro tranquillo in banca, davanti a quell’anima taciturna e sportiva – che fin dalle elementari partiva per conto suo. Quando a 16 anni sceglie il Po, e scarta le Alpi, la mamma tira un sospiro. Almeno è sotto casa. Ma il sollievo dura poco, Clara esce bagnata dalla canoa anche d’inverno e si cambia dietro un cespuglio, sull’argine del fiume. «La mia clochard», dice Mariella. Clara viene definita «sorella d’arte» perché Cristina, nata da un precedente matrimonio del padre, è stata anche lei campionessa di canoa. Ma la definizione è imprecisa: Cristina viveva a Ivrea, non si frequentavano. Il loro legame è nato dopo, le ha unite lo sport, solo per caso lo stesso.
Altra creatura acquatica, veloce come le rapide e silenziosa come il Monte Rosa che ama guardare all’alba, quando voga sul Lago di Varese, è Sara Bertolasi. Rema in coppia con Claudia Wurzel, ma è una solitaria. «Non la forzo mai a parlare, se no si chiude a riccio», dice sua madre Maura, guardando il Tamigi, «il mio sostegno è l’ascolto, cerco di esserci quando me lo chiede». Alta, muscolosa, forte: all’apparenza Sara non ha bisogno di nessuno. Ma è fragile e molto sensibile, e la mamma lo sa. «Pretende molto da se stessa, quindi anche dagli altri», mi spiega, «a volte resta delusa». Il suo rigore la spinge a dare il massimo e solo il massimo; è faticoso vivere così. Prima di partire per Londra, Sara voleva affrontare anche un esame dell’università, in luglio, durante i ritiri, per non restare indietro. Sono stati i genitori a convincerla a mollare qualcosa, lei non si concedeva sconti. Sara purtroppo non è riuscita ad arrivare in finale, chissà che questa Olimpiade non le insegni a essere più comprensiva con se stessa.
Spesso queste carriere nascono per caso, come per Elania Nardelli. Quando era piccola, mamma Giuseppina era preoccupata perché sua figlia stava sempre chiusa in casa. Troppo timida per farsi degli amici. E così, arrivata in prima media, l’ha spinta a iscriversi al tiro a segno, per farle mettere il naso fuori. Può sembrare una stranezza mandare una bambina a sparare per farle conoscere un po’ di gente ma a Candela, paese di neanche tremila abitanti in provincia di Foggia, non c’era altro. Solo un famoso poligono, fine lì. A Elania la carabina è subito piaciuta e nel giro di qualche anno i genitori non la vedevano proprio più.
Con le sue sacche pesanti, piene di armi, se ne andava anche all’estero. «Io non vado alle sue gare perché mi commuovo», confessa la madre. «Piango: ho questo difetto. All’inizio non volevo venire, però mio marito ha insistito», dice mentre con la barca passiamo sotto al Tower Bridge con i cinque anelli, «cercherò di non farmi vedere». Come molte altre mamme di atleti, non era mai stata a Londra. Alla fine, questa Olimpiade ha portato lontano anche lei.
Si fanno vedere invece i genitori di Filippo Magnini. Lo scambio di sguardi prima della gara è quasi un rito, un portafortuna. E in questo dialogo silenzioso si concentra tutta la bellezza di un legame davvero potente. «Io capisco come nuoterà mio figlio anche solo dalla camminata, da come si tuffa. Nel 2004, ad Atene, ci avevano cambiati di posto e lui non riusciva a vederci, ci cercava con gli occhi e non ci trovava. Allora ci siamo messi a gridare, lui si è girato e ci ha visti. Noi non eravamo mai stati a un’Olimpiade, è un’atmosfera magica, è proprio diversa l’aria che senti nel corpo. E quando tuo figlio sale sul podio è commovente, ti passa davanti tutta la vita, lo rivedi piccolino, quando lo portavi a nuoto». Parlare un po’ con Silvia Magnini ti fa capire che anche dietro agli atleti più famosi, quelli che diventano gli idoli di tutti, ci sono poi dei ragazzi. Dei ragazzi più speciali di altri, tutto qui. Basta una chiacchierata nel ristorante di Casa Italia per guardare Filippo Magnini e Federica Pellegrini con altri occhi. Ti senti come uno dei loro amici. Amici che sono andati fino a Pechino per tifare e che Silvia ha dovuto consolare quando la gara non è andata come sognavano. «Per fortuna erano lì. La sera gli hanno dato il permesso di uscire con noi, allora abbiamo cercato un ristorante come si fa in un viaggio qualsiasi e a cena ci siamo messi a scherzare. Filippo si tirava gli occhi e mi faceva il famoso sguardo in cinese. Ridevamo. Piangevamo anche, naturalmente, ma così, in modo leggero, fra una battuta e l’altra. Io gli ho detto: “Filippo, è solo una gara. Non hai sbagliato la vita, hai sbagliato solo una gara”. Quando mio figlio vince sono strafelice, ma sono ancora più felice di com’è come persona».
La filosofia dei Magnini, famiglia pesarese con i piedi per terra, è davvero interessante. Ti accorgi che loro hanno sempre vissuto per il nuoto di Filippo, che hanno fatto quasi gli stessi sacrifici che ha fatto lui, però nessuno lo fa pesare. Sembra la cosa più naturale del mondo. Si svegliavano alle cinque di mattina per portarlo all’allenamento prima della scuola e la sera, quando lui finiva i compiti, erano di nuovo in piscina e pazienza se si cenava tardi. I weekend erano regolati dalle gare, non c’erano sabati o domeniche libere, allora i Magnini avevano avuto l’idea di affittare un pulmino insieme ai genitori degli altri ragazzini per rendere meno faticose, anche psicologicamente, le trasferte. I figli giocavano e si dimenticavano la tensione e dopo la gara si andava a mangiare una pizza, per sdrammatizzare l’agonismo.

Tifo di famiglia. «In quel modo la gara era solo un momento di una lunga giornata passata con gli amici». Solo una gara, appunto. Filippo da bambino era vivace e gioioso e non è difficile immaginare la camminata allegra a bordo piscina, al grido spavaldo: «Mamma, vado e vinco!». Talentuoso e vincente dentro, fin da piccolo. Ma, anche se vinceva gare sempre più importanti, non poteva continuare così.
E la presenza dei genitori, a quel punto, è stata ancora più importante. Con loro Filippo poteva parlare anche di difficoltà tecniche, perché a forza di seguirlo i Magnini hanno imparato tutto sul nuoto, sono diventati quasi più esperti degli allenatori.
«Non eravamo di quei genitori che durante la gara vanno a mangiarsi un gelato e poi tornano per dire: “Bravo”. Noi no, stavamo in piscina. Lo abbiamo guardato tanto e abbiamo imparato a capire se la nuotata è la sua o una nuotata di tensione, di malessere. Io capisco come nuoterà anche solo da come cammina intorno alla vasca», racconta in metropolitana, mentre accompagno lei e Cinzia, la madre della Pellegrini, fino alla fermata di Strat-
ford. Adesso che il gioco è più grande di tutti loro, che dopo i suoi 100 metri in stile non gli possono più parlare perché Filippo è entrato in una macchina che non lascia tanto spazio ai rapporti umani e quando esce dalla vasca c’è la prova antidoping, c’è la terapia, ci sono i giornalisti, sono diventati ancora più bravi. «A casa almeno lo vediamo in tivù, ma a noi piace stare in piscina, per essere fisicamente vicini a lui e ne sappiamo meno. Allora mia sorella a volte mi chiama sul cellulare e mi fa sentire le parole dei commentatori al telefono». Questa partecipazione fa capire perché Silvia dice «abbiamo la gara», e non «Filippo ha la gara».
Da quando poi suo figlio si è fidanzato con la Pellegrini, il tifo della famiglia Magnini è raddoppiato. Le giornate passate davanti alla tivù, Silvia in cucina e suo marito in salotto perché lei durante le gare parla e lui si innervosisce, saranno ancora di più.
«La sua levatura sportiva mi fa trattenere dal fare la comune mamma anche con Federica», mi dice un po’ autoironica. Ma si capisce che la Pellegrini è stata già “adottata”. «Stamattina, quando si è tuffata, mi batteva il cuore come quando entra in acqua Filippo». Poi l’Olimpiade si rivela deludente e ci scambiamo un paio di messaggi amari. «Questa è la vita», mi scrive Silvia, saggia come sempre. Suo figlio ha dato tutto quel che poteva, anche se non era in forma. Ma è solo una gara, lei lo sa.
Caterina Bonvicini