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 2012  agosto 10 Venerdì calendario

PROCESSO LAMPO A GU KAILAI L’IMPERATRICE IN CATENE CHE IMBARAZZA PECHINO

— Il processo contro la moglie di Bo Xilai si apre e si chiude in sette ore, ma nessun estraneo al potere cinese può assistere all’unica udienza e la sentenza non viene resa pubblica. Gu Kailai, accusata dell’omicidio volontario del faccendiere inglese Neil Heywood e scomparsa da aprile, viene scortata davanti alla Corte intermedia del Popolo da un lungo corteo di auto nere. Alle 8.30 del mattino, sotto il diluvio, si infila in un ingresso secondario del garage sotterraneo del tribunale. Pochi minuti prima, come un’imperatrice in catene, la prigioniera che fa tremare la Cina ha lasciato il gigantesco carcere circondato da fabbriche in rovina. Quando viene fatta sedere nell’aula 1, mezza Hefei è blindata da ore e isolata da pattuglie dei reparti speciali. Fermati e identificati i giornalisti. Bloccata su Internet ogni voce connessa al caso. Una trentina di dimostranti vengono arrestati e portati via. Un eloquente paradosso della storia, se non la messinscena del regime:
agenti comunisti che bloccano chi è venuto per manifestare a favore di Bo Xilai, ex astro nascente del partito e profeta del ritorno ai valori rivoluzionari del maoismo. Gli attivisti dell’associazione patriottica “Utopia” cadono nelle camionette gridando che lo scandalo è «un complotto dei riformisti rossi venduti al capitalismo occidentale». Solo due diplomatici britannici, un centinaio tra parenti di imputati e vittima, ottengono l’accesso in Procura e Gu Kailai è costretta a muti avvocati d’ufficio. Va in scena così, nella roccaforte del presidente Hu Jintao, nota per la leggendaria figura di Bao Zheng, paladino dei poveri contro i funzionari corrotti, il processo più imbarazzante per la Cina da oltre trent’anni. Si consuma tra mistero, censura, propaganda e repressione, il concentrato dell’autoritarismo di Pechino, lontano sia dalla capitale che da Chongqing, ex regno di Bo Xilai, in una squallida metropoli dell’Anhui a tre ore da Shanghai. Misure di guerra per un verdetto già scritto: il 98% dei processi cinesi termina in un giorno e con la condanna dell’imputato. I giudici di partito si premurano però di far sapere che la moglie del leader neomaoista, epurato a poche settimane dal decennale passaggio del potere, in aula «non ha contestato le accuse» e si è «addossata la colpa di aver somministrato
il cianuro a Heywood per proteggere il figlio Bo Guagua».
Una ricostruzione minuziosa del delitto, affidata all’agenzia di stampa di Stato se pure nota da mesi. Imprevedibili però i tempi di comunicazione della sentenza, a conferma che per le autorità il caso è il più pericoloso dopo la condanna-farsa della moglie di Mao Zedong. Nel pomeriggio l’aggravarsi della posizione di Gu Kailai, stando all’accusa rea confessa, incastrata da reperti biologici con tracce di cianuro e coperta da quattro funzionari di polizia, oggi a processo, non è però l’annuncio della sua fucilazione. La giustizia politica punta sulla
pena di morte commutata in ergastolo, ossequio sia alla rabbia del popolo contro i potenti, che alla resistente influenza di questi. Pechino sa che la Cina e il mondo seguono in queste ore un processo a-giuridico per omicidio, ma guardano all’immagine drammatica di corruzione, tradimento, arricchimento e lusso che il delitto Heywood proietta sull’intera leadership comunista. Sotto accusa a Hefei c’è Gu Kailai, ma ciò che conta per i vertici del potere, chiusi in conclave a Beidahie, è il destino di Bo Xilai, il “principe rosso” che minacciava la stabilità della tecnocrazia comunista. In discussione è cioè la
legittimità a guidare la seconda economia del mondo e l’attenzione nel costruire un processo segreto diventa la sostanza di uno scandalo che svela la spaccatura tra riformisti e conservatori, dilaniati dallo scontro sui leader da insediare ad ottobre e minacciati dal nervosismo delle forze armate.
Nemmeno i cinesi più obbedienti credono del resto che il milionario clan di Bo Xilai avesse bisogno
di assassinare uno straniero, o che non potesse pagare il suo silenzio. Il processo al “sistema Chongqing”, fondato su corruzione ed esportazione di capitali sporchi, da salvacondotto muta in condanna di un’élite che a Hefei teme ora di aver messo sotto accusa se stessa, terrorizzata dall’apertura di un vaso di Pandora capace di travolgere l’intero partito. Riuscirà Pechino a eliminare i simboli della propria deriva, assolvendo il partito-Stato per salvare il potere della Cina? Questo, a differenza di condanna e perdono per Gu Kailai, mentre cala la
notte non è affatto scontato.