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 2012  agosto 10 Venerdì calendario

GENERAZIONE SENZA LAVORO

dal Time, Inc. Utilizzati Su Licenza. © 2012
Alex Rodríguez Toscano pensava di essersi preparato bene per risultare competitivo nel XXI secolo: per cinque anni questo giovane spagnolo laureatosi in economia ha studiato sodo all’Università Carlos III di Madrid, scegliendo i corsi più complicati di matematica e perfezionando le tre lingue straniere che parla con disinvoltura. Dopo essersi laureato nel febbraio 2011, però, Rodríguez ha scoperto che queste pur importanti competenze nell’economia globale significano ben poco. Per gli ambiziosi laureati della Spagna investita dalla crisi – dove oltre la metà dei giovani è disoccupata – trovare un posto di lavoro è pressoché impossibile. Rodríguez ha fatto del proprio meglio: ha spedito 88 curriculum a organizzazioni che potrebbero aver bisogno di chi si occupa di ricerche economiche. Ma non ha ricevuto neppure un’offerta di lavoro. E si lamenta: «Ci sono così tanti candidati con master e dottorati di ricerca, che oltretutto cercano un posto di lavoro da molto più tempo di me… Perché dovrebbero assumere proprio me?». Pur di mettere insieme un po’ di soldi, Rodríguez accetta incarichi nel catering e come tutor, ma i suoi guadagni non gli bastano a sopravvivere per conto proprio. Costretto a vivere con i suoi genitori, il giovane venticinquenne teme che il suo destino non potrà migliorare. Ed essere giovani e disoccupati, dice, «ti rende disperato». Già, «disperato».
Decine di milioni di altri giovani in tutto il mondo hanno questa stessa percezione. Creare posti di lavoro per questa generazione intraprendente è diventato uno dei problemi improrogabili che i policymaker si trovano a dover affrontare in tutto il mondo. Da Milano a Manila, da Seattle a Santiago, l’economia globale non riesce in nessun modo a offrire buone opportunità lavorative ai giovani laureati e agli altri che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro. A tre anni di distanza da quando sono stati bruscamente colpiti dalla crisi finanziaria globale del 2008-09 - quando il tasso globale della disoccupazione giovanile ha fatto registrare un aumento da record - i giovani aspiranti lavoratori stanno scoprendo ora che le loro possibilità di ottenere un posto rimangono evanescenti. A essere colpiti più duramente sono i giovani delle nazioni più ricche del pianeta: il persistere della recessione, i tagli imposti ai budget, hanno portato la situazione a un livello di crisi rilevante in alcuni Paesi sviluppati. Come nella Grecia oberata dai debiti, dove la disoccupazione giovanile ha superato il 51 per cento. Secondo una recente ricerca del Pew Research Center, negli ultimi due anni gli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni che hanno un’occupazione sono solo il 54 per cento, la percentuale più bassa di tutti i tempi. Nel 2007 aveva un’occupazione oltre il 62 per cento di loro. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) ha calcolato che in tutto il mondo i disoccupati nella fascia di età 15-24 anni sono 75 milioni - pari a due disoccupati su cinque - e che ci sono scarse speranze di un miglioramento significativo. In assenza di provvedimenti, questo esercito di giovani senza lavoro potrebbe diventare una «generazione perduta»: a dirlo è Gianni Rosas, coordinatore da Ginevra del Programma per l’occupazione giovanile dell’Ilo. «La situazione è tale che ormai i nostri figli stanno peggio di quanto stavamo noi venti anni fa. Stiamo regredendo», mette in guardia.
Quanto più a lungo durerà la crisi del lavoro giovanile tanto più gravi saranno le conseguenze per l’economia globale, sia nelle nazioni sviluppate sia in quelle in via di sviluppo. Invece di allevare la forza lavoro del futuro, il mondo sta creando una sottoclasse di milioni di lavoratori insoddisfatti, privi delle competenze e delle qualifiche necessarie a sostenere la crescita nei prossimi decenni. Per le economie avanzate - dove gli alti costi rendono ancora più critica l’evoluzione dei talenti di alta qualità - il danno in termini di competitività potrebbe compromettere la loro capacità di reggere il confronto e stare alla pari con concorrenti emergenti quali Cina e India. Nelle società sottoposte a un rapido processo di invecchiamento, specialmente in Europa e in Giappone, la disoccupazione giovanile rende ancor più difficile il finanziamento dell’assistenza sanitaria e pensionistica, dato che il numero dei lavoratori-contribuenti è drasticamente diminuito e che aumentano le spese per le prestazioni che gli Stati devono fornire. Tutto ciò esercita ancora più pressione su governi già oberati dai debiti. Probabilmente, la conseguenza più devastante della disoccupazione giovanile è che i giovani senza lavoro finiscono con l’impegnarsi in attività terroristiche e nella criminalità. Lo si deduce da studi precisi: «Se aumenta il numero di coloro che restano emarginati e indietro la società ne pagherà lo scotto», dice Anne Sonnet, senior economist presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), un gruppo intergovernativo con sede a Parigi. «Si corre infatti il rischio di ritrovarsi un’intera generazione senza lavoro, del tutto slegata dalla società».
La crisi con la quale sono alle prese i giovani di tutto il mondo covava da tempo. Sebbene in molti Paesi il tasso di disoccupazione giovanile fosse regolarmente molto più alto di quello della popolazione in genere, sia nei Paesi sviluppati sia nelle economie emergenti, in ugual misura, i policymaker hanno trascurato il problema. E oggi ne pagano il prezzo. La Grande Recessione ha trasformato la disoccupazione giovanile da disturbo sociale in minaccia di primo piano per la stabilità economica e politica futura di molte regioni del mondo. I violenti tumulti di piazza dell’anno scorso a Londra e in altre città del Regno Unito sono, in parte, riconducibili proprio alla frustrazione e al malcontento tra i giovani per le miserabili prospettive economiche. In Medio Oriente, dove i tassi di disoccupazione giovanile, spesso intorno al 25 per cento, sono sistematicamente tra i più alti al mondo, il persistere della disoccupazione è una causa fondamentale della rabbia che ha innescato la Primavera araba. Se i nuovi leader di quelle regioni non riusciranno a creare un maggior numero di posti di lavoro per i giovani, il Medio Oriente potrebbe precipitare in una devastante spirale di violenze. Ahmed Heikal, presidente della società di private equity Citadel Capital, con sede al Cairo, afferma: «Se non faremo rinascere la speranza, ci troveremo alle prese con un problema ancora più grande. Un’altra Piazza Tahrir».
DISPIACERI IN AUMENTO. I fattori che provocano la disoccupazione giovanile spesso differiscono da Paese a Paese e da un sistema lavorativo a un altro. In buona parte dell’Europa Occidentale, per esempio, le eccessive garanzie e tutele dei lavoratori rendono più difficile per i giovani riuscire a ottenere un buon posto di lavoro. Tenuto conto che licenziare i lavoratori a tempo pieno è così complicato e dispendioso, i datori di lavoro sono estremamente guardinghi nell’assumere nuovo personale, mentre coloro che sono già occupati - per lo più i lavoratori più anziani - spesso mantengono il loro posto di lavoro a vita. Nei Paesi in via di sviluppo, caratterizzati da un alto tasso di natalità e da una popolazione molto giovane, per esempio le Filippine, la crescita non è forte abbastanza da assorbire le ondate di giovani che ogni anno entrano a far parte della forza lavoro. Eppure la disoccupazione giovanile ha radici comuni in tutto il mondo: i giovani che entrano nel circuito del lavoro spesso sono anche i più vulnerabili durante le recessioni economiche. I nuovi assunti nella maggioranza dei casi sono anche i primi a essere licenziati in tronco, mentre i laureati trovano pochi datori di lavoro disposti ad assumerli. A complicare il tutto c’è anche la burocrazia, che affligge e ostacola gli imprenditori, gli investimenti e di conseguenza la creazione di posti di lavoro. Il primo ministro pakistano Yousuf Raza Gilani, che classifica la lotta alla disoccupazione giovanile sullo stesso piano dello sradicamento del terrorismo tra le priorità assolute e le sfide più cruciali della sua nazione, parla a nome dei leader di governo di tutto il mondo: «Dobbiamo creare più posti di lavoro per i nostri giovani».
I giovani lavoratori che riescono a trovare un posto spesso si ritrovano oltretutto invischiati in occupazioni precarie. In Spagna, in Italia e in Giappone, per esempio, le aziende che cercano di conquistare flessibilità su mercati del lavoro regolamentati spesso offrono ai nuovi giovani assunti soltanto contratti a breve termine. A questi contratti, che in qualche caso possono durare anche pochi giorni, di solito sono abbinati salari modesti e scarsi benefit. Dato che questi dipendenti sono soltanto precari, i datori di lavoro hanno ben pochi incentivi a investire nella loro formazione.
Dovendo affrontare simili sfide, i giovani di tutto il mondo stanno scoprendo che la strada che tradizionalmente portava al successo - l’istruzione - non premia quanto in passato. Sempre più laureati sono costretti ad accettare posti di lavoro inferiori al livello effettivo delle loro competenze e fanno un po’ di tutto, dal cameriere al cassiere di supermercato. Il rapporto di marzo dell’Ufficio nazionale di statistica degli Stati Uniti ha rilevato che la percentuale dei giovani laureatisi di recente in Gran Bretagna e occupati in posti di lavoro inferiori alle loro qualifiche è aumentata nel 2011 fino al 36 per cento, rispetto al 27 per cento scarso di dieci anni fa. In alcune aree del mondo, i mestieri di questo tipo sono tutto ciò che c’è di disponibile per i laureati. Emblematico è il caso di Ahmed Said, un giovane del Cairo: si è laureato in economia e commercio dopo aver assolto anche all’obbligo della leva militare per un anno e si è candidato a un posto di lavoro come contabile e per l’inserimento di dati. Purtroppo il giovane Said, 24 anni, non ha avuto fortuna e oggi lavora come cameriere in un elegante bar nei pressi di Piazza Tahrir. «Questo posto era l’ultimo che avrei desiderato, ma è l’unico che ho ottenuto», si rammarica.
Tenuto conto che il lavoro è così scarso, i giovani laureati dei Paesi ricchi come di quelli poveri si trovano a dover competere con lavoratori di maggiore esperienza anche per i posti di lavoro più umili. La greca Hara Kogkou si è laureata in agraria all’Università di Atene appena un anno e mezzo fa, ma non è riuscita a trovare nessuna occupazione nel suo settore: «Non mi risulta che si stiano creando posti di lavoro in questo campo. Quindi dovremo diventare più competitivi, magari acquisendo un master, per trovare un’occupazione», si lamenta. Anche abbassando le proprie aspettative, Kogky, 26 anni, per il momento non ha ottenuto nulla. Adesso si presenta come candidata a qualsiasi posto di lavoro che riesce a trovare, «anche cameriera in un bar o cassiera al supermercato, soltanto per guadagnarmi da vivere», dice. E spiega sconsolata: «Ho inviato più di 500 lettere per altrettante offerte di lavoro, senza però ottenere nemmeno una risposta».
SEGNATI A VITA. Coloro che in giovane età restano indietro sul mercato del lavoro spesso non si riprendono più del tutto. Privati di qualifiche ed esperienze nei primi anni del loro ingresso sulla piazza occupazionale, incontrano considerevoli difficoltà a competere per buoni posti per il resto della loro vita professionale. Uno studio condotto dall’Economic Council of the Labour Movement, un think tank con sede a Copenhagen, ha seguito alcuni giovani lavoratori danesi che nel 1994 erano rimasti senza un’occupazione per almeno dieci mesi e ha scoperto che a distanza di quindici anni avevano il doppio delle probabilità di essere disoccupati e di guadagnare il 14 per cento l’anno in meno - 10 mila dollari circa - rispetto a coloro che, giovani adulti, avevano un’occupazione. «Il fattore più importante, quello che determina se avrai successo nel mondo del lavoro, è come inizi», sostiene Mie Dalskov Pihl, economista dell’Economic Council.
L’essere disoccupati a lungo può anche compromettere gravemente la fiducia in sé e portare alla depressione. L’impatto di quest’ultima è particolarmente serio in Giappone, dove il prestigio di cui gode un uomo in società è strettamente connesso al lavoro che svolge. Dopo essersi laureato nel 2000, Yoshinobu Kurashige non è riuscito a trovare un posto a tempo pieno: imbarazzato, si è rinchiuso nella propria camera in casa dei genitori per quasi dieci anni, durante i quali ha rivolto loro a stento la parola e non è stato in contatto con nessun altro. «Se riesci a trovare un’occupazione a tempo pieno va bene. In caso contrario, se fallisci, sei costretto a gettare la spugna ed è veramente difficile riprendersi», dice Kurashige oggi, a 37 anni. I suoi genitori alla fine sono riusciti a contattare il personale di New Start, un’organizzazione no-profit che riabilita chi si esclude e si emargina dalla società in questo modo, fenomeno noto in Giappone con il termine hikikomori. Poco alla volta lo staff dell’organizzazione lo ha persuaso a uscire dal suo isolamento e lo ha aiutato a trovare un lavoro a tempo determinato da Amazon. Secondo New Start sono sempre più i giovani giapponesi che scelgono l’hikikomori, in parte a causa della disoccupazione giovanile.
LIBERI DI AVERE SUCCESSO. Se una più forte ripresa globale allevierebbe di sicuro parte di tali dispiaceri, gli esperti del mondo del lavoro credono che comunque il problema della disoccupazione giovanile richieda un’attenzione tutta particolare. Durante la recessione, alcuni governi hanno varato programmi finalizzati a ridare un’occupazione ai giovani. A novembre, per esempio, il vice primo ministro del Regno Unito, Nick Clegg, ha creato un fondo da 1,6 miliardi di dollari per sostenere le aziende britanniche che assumono giovani senza lavoro.
Ma per risolvere il problema della disoccupazione giovanile sarà indispensabile prendere di petto le cause che la determinano. Sarà di cruciale importanza, per esempio, rivedere accuratamente l’istruzione. In molti Paesi, infatti, le scuole molto semplicemente non preparano gli studenti per il mercato del lavoro. In Egitto, per esempio, perfino chi si laurea presso le migliori università è poi costretto a frequentare ulteriori corsi, spesso molto cari, per arrivare ad avere le qualifiche necessarie a ottenere i posti di lavoro meglio retribuiti. «I datori di lavoro non si fidano del diploma che hai», si lamenta Mahmoud Issa, ingegnere neolaureato al Cairo. Negli Stati Uniti un’indagine Pew ha evidenziato che poco meno della metà dei giovani lavoratori attualmente occupati crede di possedere l’istruzione necessaria ad avere successo nella propria carriera. In molte nazioni, invece, gli studenti scelgono corsi di studio non allineati alle effettive esigenze dell’economia, o per scelta personale (come avviene negli Usa), o a causa del sistema stesso della pubblica istruzione, che convoglia i talenti migliori in determinati ambiti (come avviene in Egitto).
Da tutto ciò consegue un divario di competenze tra ciò che i laureati hanno imparato a fare e ciò che le aziende desiderano concretamente che facciano. Una soluzione potrebbe essere quella dei tirocini, come avviene in Germania e in Svezia, dove la disoccupazione giovanile è inferiore a quella di buona parte del resto d’Europa. Gli studenti ancora al liceo trascorrono parte del loro tempo a scuola e parte al lavoro, così da assorbire le capacità professionali realmente richieste dalle aziende. È per questo che molti studenti, in seguito, sono assunti dalle medesime società presso le quali hanno svolto il tirocinio.
La sfida più grande da superare per risolvere il problema della disoccupazione giovanile, tuttavia, è la creazione di un maggior numero di posti di lavoro. Molti mercati emergenti devono eliminare gli ostacoli normativi per attirare più investimenti e dare nuovo slancio alla crescita dei posti di lavoro. L’Europa deve correggere mercati del lavoro inefficienti. Le eccessive garanzie ai lavoratori a tempo pieno devono essere ridotte per rendere più facile e meno oneroso per le aziende assumere e licenziare. In Italia il primo ministro, Mario Monti, si è già mosso verso un’apertura delle professioni a numero chiuso, come quelle dei farmacisti e degli avvocati. E ha ottenuto l’approvazione in parlamento di una riforma del mercato del lavoro che prevede una maggiore flessibilità in uscita, anche se ha dovuto rinunciare a qualcosa rispetto all’impostazione iniziale della legge.
I governi devono fare però molto di più per incentivare l’imprenditoria, così che un numero maggiore di giovani apra aziende e assuma coetanei. In molte nazioni tutto ciò è ancora estremamente difficile. Paolo Barletta, 25enne amministratore delegato della start-up Don’t Cry Baby, che opera nel campo della moda a Milano, è dovuto ricorrere ai propri risparmi per aprire la sua azienda che produce jeans, perché non ha trovato alcuna disponibilità al finanziamento. E dice: «Se un giovane vuole aprire un’azienda, deve farlo da solo, senza l’aiuto di nessuno».
Meno del 4 per cento dei giovani ventenni europei riesce ad aprire una propria azienda, contro il 6 per cento dei coetanei americani: lo documenta Global Entrepreneurship Monitor di Londra, che segue da vicino i giovani imprenditori come Barletta in tutto il mondo. Eppure, rendere le cose più agevoli a Barletta e i suoi coetanei, che vivano a New York o a Nuova Delhi, potrebbe essere la soluzione più facile per risolvere la crisi dei posti di lavoro per i giovani. Nelle nazioni ricche la Grande Recessione pare che stia creando un’intera generazione più disposta a correre qualche rischio rispetto a quella dei genitori. Dai risultati di uno studio pubblicato a marzo dal Boston Consulting Group è emerso che entro il 2016 l’e-commerce nell’Ue crescerà fino al 5,7 per cento circa del Pil e che parte di questo aumento sarà dovuto a giovani imprenditori che decideranno di lavorare on line. «Credo che stiamo assistendo a un aumento delle carriere imprenditoriali», dice Lindsey Pollak, consulente specializzata nei trend professionali. «I lavoratori della Generazione Y credono davvero in loro stessi e nella loro capacità di avere successo in futuro».
Malgrado ciò, però, hanno assolutamente bisogno di tutto l’aiuto possibile.