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 2012  agosto 10 Venerdì calendario

La Madonnina l’ha scampata: e brilla ancora in mezzo alle querce annerite e fumanti, qui, in cima alla collina di Monte Mario

La Madonnina l’ha scampata: e brilla ancora in mezzo alle querce annerite e fumanti, qui, in cima alla collina di Monte Mario. I romani la vollero, assieme alle ali d’angelo di Pio XII spalancate su San Lorenzo, per salvare vite e case dalla ferocia della guerra; lei alla fine è stata più forte di fulmini e tempeste, e adesso ancora resiste, più tenace degli idioti o dei criminali che da dieci giorni violano questo e altri angoli di paradiso per disseminare esche incendiarie, bruciare foglie secche, ammonticchiare sterpi come ciclopici inneschi, insomma per mettere la città davanti a un fantasma inscritto nel suo dna: la memoria del fuoco. Perché il senso di Roma per le fiamme non sta naturalmente soltanto nel mito petroliniano di Nerone, che qualche metereologo dal tempismo inquietante ha pensato di riesumare, battezzando col nome dell’imperatore piromane l’ondata di calore che adesso tutto avvampa, cose e cristiani («...e Roma rinascerà più bella e più superba che pria!»); sta nell’incendio del Foro Boario, nel 213 avanti Cristo, o in quello, immane, che quattro secoli più tardi permise a Commodo di specularci su e rifondare una parte di Urbe come Colonia Commodiana; sta nel rogo di Borgo, cuore della Roma papalina di Leone IV, che infuriò davanti a San Pietro e fu «spento dal papa», secondo una fonte non proprio indipendente come il Liber Pontificalis, impartendo una benedizione solenne dalla Loggia delle Benedizioni: insomma con un colpo di miracolo. Ma a Roma il fuoco è anche una metafora estrema del cinismo che ha incenerito illusioni e rivoluzioni, dittatori e palloni gonfiati, e che, per dire, trova la sua sintesi in quel «datte foco!» strillato in un festival rock di Villa Pamphili alla star che la tirava in lungo coi cerini e il «senso catartico» delle fiamme. «E qua ce vorrebbe n’antro miracolo», mormora infatti pragmatico e un poco blasfemo qualche pompiere sudato ed esausto, davanti al curvone che dal budello di via De Amicis porta a queste pendici fiammeggianti di Monte Mario: «Siamo ottanta o cento a turno, per tutta la città... e quelli della Protezione civile aspettano solo di farci le scarpe». Piccoli veleni anonimi, infiammabili peggio di competizioni segrete, tracimano assieme all’acqua degli elicotteri che piove come manna salvifica su questo bosco che dovrebbe essere tutelato — «Riserva naturale», recitano i cartelli all’ingresso — e che circonda Villa Madama, la residenza del ministero degli Esteri i cui giorni ruggenti coincisero con l’accoglienza di Berlusconi per Putin: quando le bellezze russe al seguito dello zar Vladimir erano la cosa più infiammabile in giro. Adesso è un assedio di pazzia, solo mercoledì 60 roghi in tutta la città. Il primo incendio doloso, il 31 luglio, qui sotto, in pratica a duecento metri dal cancello della residenza ministeriale protetto da guardie e telecamere. Hanno fatto un buco nella recinzione lungo via di Villa Madama, hanno appiccato le fiamme agli sterpi, il resto l’ha fatto il vento rovente che soffiava sui tetti e nei vicoli: ettari e ettari devastati. Alla stessa ora, qualcuno accendeva fuochi alla Storta. E da quel momento non è mai finita, è andata sempre peggio, da Bufalotta alla Cassia, da Insugherata a Boccea, da Tivoli a Monte Ciocci. I numeri lo raccontano senza pietà: da gennaio ad agosto 2011, 25 incendi e 40 ettari bruciati; nello stesso periodo di quest’anno, più di cento incendi e 400 ettari in fumo. Il decuplicarsi dei danni, la frequente origine dolosa, e soprattutto la concentrazione degli attacchi attorno a Villa Madama e a Monte Mario, inducono ai soliti sospetti. «Regia unica», ipotizzano gli investigatori. C’è in giro una banda di giovanissimi teppisti, racconta qualche testimone, «li abbiamo visti su una panchina qui nel parco prima dell’ultimo incendio». Sulle panchine, in cima alla collina, restano solo scritte, segni del tifo ultrà, «Digos boia», «Zero titoli», passioni degenerate rispetto ai tempi eroici in cui i tifosi laziali e romanisti s’arrampicavano quassù per sbirciare la partita dell’Olimpico ancora non ristrutturato, con la frittata di maccheroni e il fiasco di vino nel paniere. Già, soliti sospetti per una storia che replica se stessa in farsa. Dicono che quando le insulae, le case popolari del suo tempo, erano tutte di legno, Crasso avesse il vizietto di farvi appiccare il fuoco dai propri sgherri per poi ricomprarsi il terreno e farci i soldi. Chissà se pensa a quel vizietto antico Giulio Fancello, direttore dell’agenzia regionale Roma Natura, quando lancia un monito preciso a chi può intendere: «Le riserve naturali, come Monte Mario, sono istituite per legge. Chiunque abbia come mira il rivedere la pianificazione di queste aree protette, sbaglia completamente. Arreca danni alla natura. Ma non sarà con questi eventi drammatici che potrà spuntarla». Parole pesanti e gravi. Tanto più che, per ora, nelle maglie delle indagini sono rimasti solo due squilibrati: il piromane del rogo di Tivoli, preso quasi sul fatto, e un povero vecchietto di ottant’anni, tale Natale, che con due taniche voleva dar fuoco all’intera sede della Protezione civile a San Basilio. Poco, molto poco, in una situazione perfino più brutta di quella che nel 2000 spinse l’allora sindaco Rutelli a promettere una taglia di cento milioni sulla testa di chi aveva appena devastato la pineta di Castelfusano: 150 ettari inceneriti, danni per 100 miliardi delle lire del tempo. Quella stessa estate diedero fuoco a Monte Mario, si sgomberarono le case, addirittura. E siccome è così ogni estate, la stessa lotta senza capo né coda, non resta che aggrapparsi a Petrolini — rinasceremo, sì, più belli e più superbi che pria — in questo caldo che fa ammattire i matti e i sani. In quest’afa che trasforma in deserto di legno e ferro il Ponte della Musica qua sotto, ultima vestigia dell’Urbe veltroniana: dove gli innamorati scendono a giurarsi amore, eterno, come Roma. Goffredo Buccini