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 2012  luglio 20 Venerdì calendario

CACCIA AL VOTO NELLA PANCIA DELL’AMERICA


Piove sul Maine dalle nuvole sparse. Piove sulle barche bianche e salmastre. Piove sui pini scagliosi ed irti, piove sugli astici divini. Piove sui nostri volti europei, piove sulle nostre mani nude, sui nostri vestiti leggeri, sui freschi pensieri in partenza.
A Gabriele D’Annunzio tutto questo sarebbe piaciuto, a noi un po’ meno.
Piove: e ci aspettano 18 giorni, 15 Stati e oltre 6.000 chilometri di rotaie, dall’Atlantico al Pacifico. Da Portland Maine fino a Portland Oregon sui treni Amtrak, rigorosamente in classe economica (coach). Una gastroscopia ferroviaria dell’America durante un anno elettorale. A fine estate, le conventions dei democratici e dei repubblicani. Il 6 novembre, un referendum: Obama sì, Obama no. Mitt Romney deve solo aspettare il risultato, cercando di non far danni quando apre bocca.

PRIMO GIORNO
Alle sette del mattino ci presentiamo, alieni bagnati, nel diner “Miss Portland”. Bel nome, troppo burro. Rachel, in divisa rosa-confetto, propone torte lussureggianti, alte come casette a schiera in Brianza. Il locale, del 1949, vuol sembrare un vagone ferroviario: quasi un viatico. Gli scompartimenti sono tarati sulle dimensioni umane dell’epoca. Oggi un tavolo da quattro ospita due persone, o tre europei: dipende.
Il treno per Boston parte alle otto. Saliamo a bordo senza cerimonie. Siamo in sei. Karl Hoffmann, giornalista tedesco incaricato dal Goethe-Institut, partner dell’iniziativa. Il regista Andrea Salvadore, che si occupa del lungometraggio per La7 (verrà trasmesso in settembre). L’operatore Alberto “Peace” Engeli, svizzero-californiano devoto al culto di Bruce Springsteen. Gianni Scimone, incaricato del videoblog quotidiano per Corriere TV (e autore delle foto di questo servizio). E Soledad Ugolinelli. Come Gianni e il sottoscritto, s’è già fatta in treno Berlino-Palermo (2010) e Mosca-Lisbona (2011). Stavolta è qui come responsabile logistica, traduttrice, psicologa, parafulmine e una dozzina d’altri mestieri.
L’Amtrak “Downeaster” diretto a Boston non è un treno per turisti. Lucido come una pallottola, ma non altrettanto veloce. Basso e stretto, pratico ma non comodo, offre la pulizia pratica dei motel, dove una macchia non è considerata un peccato. Gli Amtrak sono la rappresentazione di un Paese spartano, e noi ci accingiamo ad attraversarlo. Un’America diretta verso le elezioni presidenziali del 6 novembre. Senza fretta, come questo treno.

SECONDO GIORNO
Continua a piovere, e solo le ragazze più spavalde di Boston sfidano l’umidità, mostrando ettari di cosce e infradito ottimiste. Poi le vediamo mentre s’infilano da Starbucks in Boylston Street e ordinano un secchio di frappuccino bollente. È irriconoscibile, la città infreddolita: la metafora di una nazione che non s’è ancora scaldata per l’elezione in arrivo. Resta la gioia maligna dei repubblicani, che vedono l’economia ansimante e il presidente in difficoltà, tentato di dar la colpa all’Europa. Europa che non è, tuttavia, oggetto di dibattito pubblico. Su un treno americano è più probabile sentir parlare di extraterrestri che di Banca Centrale Europea. Draghi? Li costruiscono a Hollywood col computer, si sa.
Intanto i SuperPACs (Political Action Committees), liberi dalle regole del finanziamento ai partiti in seguito a una decisione della Corte Suprema (Citizens United), raccolgono denari per il proprio candidato. E, già che ci sono, informazioni dannose per l’avversario. Non c’è intervista, dichiarazione o esalazione di Barack Obama e Mitt Romney che non venga registrata e sezionata, in cerca di qualcosa di compromettente. Non è un bello spettacolo: ma lo spettacolo è questo. Incontriamo Pippo Crotti, cremasco come me, a Boston con il Cirque du Soleil. Gli chiedo: cosa potrebbero fare Obama e Romney nei vostri spettacoli? «Contorsionista e trapezista», risponde.

TERZO GIORNO
Alle dieci del mattino, con Pippo al seguito, ci presentiamo al quartiere generale del trapezista – scusate, di Mitt Romney – che a Boston è di casa. L’indirizzo è 585 Commercial Street, a un passo dal Garden, dove giocano i Boston Celtics. Un edificio anonimo, grigio, con poche finestre e senza un’insegna. La sede dell’Agenzia delle Entrate di Torvajanica la immagino così.
Abbiamo cercato, dall’Europa, di ottenere un appuntamento. Niente da fare. Così ci presentiamo all’ingresso, e l’addetta-stampa è così stupefatta che scende a incontrarci. Entrano, a passo di carica, ragazzoni atletici scesi da Suv scuri. Una gioventù per cui Ronald Reagan vale Ike Eisenhower: nomi dal passato, mentre ora c’è da combattere una battaglia nuova. “Obamacare”: così i repubblicani chiamano, con fastidio, la riforma sanitaria voluta dal Presidente, che impone l’obbligo di assicurazione (individual mandate). Mitt Romney ha usato parole di fuoco, tralasciando di ricordare un dettaglio: quand’era governatore qui in Massachusetts introdusse una riforma simile, che Obama ha preso a modello.

QUARTO GIORNO
Il treno passa da Springfield, Massachusetts, ma in stazione non vediamo nessuno dei Simpson. In compenso a Pittsfield sale Gianni Lovato, milanese, trasferito negli Usa nel 1970, inseguendo il sogno di Woodstock, non distante da qui («Ero un hippy in borghese»). Si presenta con una bottiglia di Campari, patatine, olive e pasta di ceci fatta in casa. Il capotreno interviene: è vietato consumare alimenti propri nella carrozza-ristorante! Ma noi siamo italiani, gli spieghiamo. E lo invitiamo al brindisi.
Il piccolo convoglio – solo cinque vagoni – sale tra colline, boschi e fiumi. Un terrazzino sull’ultima carrozza mostra il continente che si srotola, allontanandosi dall’Atlantico. Il treno è un’America in miniatura: tutti i colori, ogni età, diverse occupazioni. Fidanzati che guardano un film abbracciati, donnoni silenziosi, studenti pieni di brufoli e gadget, suonatori solitari, ragazze coi piedi tatuati e un copricapo con le orecchie da opossum.
Il commediografo britannico Noel Coward, quand’era in tournée per gli Usa negli anni Trenta, fece scrivere il nome degli attori sul fianco dei vagoni ferroviari, e le scritte s’illuminavano passando nelle stazioni. Personalmente, mi accontento di uno spettacolo così: gli Stati Uniti che avanzano, dondolati dai vagoni.

QUINTO GIORNO
In America non si va mai: si torna sempre. Ogni luogo, ogni nome, ogni immagine sembrano familiari. L’Ohio scorre dai finestrini, avvicinandosi a Cleveland: la pancia operaia della nazione, che oggi ha sostituito le fabbriche con le cliniche, la metallurgia con la medicina, le tute blu con i camici bianchi. Ohio! Non è solo uno degli Stati in cui, negli ultimi anni, si sono fatti e disfatti i presidenti. È una canzone di Neil Young. Ci sono nati il generale Custer, i presidenti Taft e Grant, Clark Gable e Paul Newman, Steven Spielberg e Ted Turner, l’astronauta Neil Armstrong, primo uomo sulla luna. Un pezzo di memoria dell’Occidente: anche nostra, quindi.
A colazione divido il tavolo con Don e Dottie Harris, 75 anni lui e 65 lei, che festeggiano il 41° anniversario di matrimonio: una coppia idilliaca, educata, affettuosa, impegnata con la chiesa evangelica. Si sorridono, si tengono per mano. Arrivano dalle cascate del Niagara; tornano a casa a Austin, Texas. Spiegano che Obama suscita ancora ostilità perché nero, come loro. «Certe cose cambiano lentamente», dice lui, improvvisamente severo. Lo rivoterete? «Dobbiamo pensarci. Alcune sue iniziative non ci sono piaciute». Una su tutte, sembra di capire: l’approvazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Una decisione che invece ha suscitato l’entusiasmo di Matthew Titone, membro dell’Assemblea dello Stato di New York. Lo abbiamo incontrato ieri ad Albany, durante una pausa dei lavori. Davanti alla telecamera s’era dichiarato «orgogliosamente gay e orgogliosamente italo-americano». Brillante e anticonformista, diverso dal tipico elettore del Mid-West. Che però conta: le elezioni si decidono in Ohio, non in California e a New York.

DAL SESTO ALL’OTTAVO GIORNO
Dopo aver avvicinato il bunker di Mitt Romney a Boston, dedichiamo il weekend all’esplorazione di Obamaland, a Chicago. Visitando – si fa per dire – anche questo quartier generale, si capisce come l’approccio dei grandi partiti americani verso i media stranieri sia, a suo modo, logico: non votano, non donano, non c’interessano.
L’indirizzo è 130 East Randolph Street: praticamente Michigan Avenue, sotto Millennium Park. Prudential Building. Non un simbolo, non una bandiera. Un edificio moderno che potrebbe essere la sede di un’assicurazione, di una banca o del Partito comunista cinese. L’accoglienza è quella, in effetti. Se, guidati da istinto rabdomantico, s’arriva al bancone del ricevimento, si ottiene uno sguardo perplesso e un foglio con alcuni indirizzi email: scrivi qui se vuoi fare il volontario, scrivi là se vuoi donare soldi. Altrimenti, tanti saluti.
Questo comportamento è la spia di un atteggiamento. Il numero dei “battleground states” contesi tra i due candidati s’è ridotto. Nel 1976 ospitavano il 60% della popolazione americana, oggi solo il 20%. Chi vive in Ohio, Florida, Pennsylvania o Nevada vedrà spesso Obama e Romney, nei prossimi mesi, e sarà bombardato di messaggi televisivi. Gli altri sono “flyover states”: il risultato è scontato, i candidati li vedranno passandoci sopra con l’aereo.
Triste, penso, mentre il tandem motorizzato tedesco (Karl Hoffman ai pedali) taglia le strade di Hyde Park. Nel quartiere meridionale di Chicago dove il giovane Barack ha vissuto, hanno organizzato un Bike Tour Presidenziale: visita al barbiere di Obama, giro intorno all’università di Obama, un’occhiata a casa Obama (protetta da piante verdi e colossali agenti del Secret Service). Sosta da “Valois”, 1518 E. 53rd Street, la cafeteria dove Obama consumava i pasti (preferenza per roastbeef e verdure, assicurano). Forse è colpa dell’aria condizionata feroce, che gela gli entusiasmi, ma le aspettative erano altre. Qui Barack Obama è stato un giovane sognatore americano: ora è un ologramma irraggiungibile.

NONO GIORNO
Rivedo Milwaukee dopo quasi vent’anni. Allora era una città operaia che stava cambiando pelle; oggi è un luogo benestante, ripulito, con un lungolago verde e accogliente. La stazione ferroviaria è luminosa e moderna; le riconversioni impeccabili; c’è perfino un museo dell’architetto Calatrava che chiude le ali – letteralmente – alle cinque del pomeriggio. La città – 600mila abitanti, altrettanti nell’area metropolitana – è patria della Harley Davidson e della birra Miller. Salgo in sella alla prima e bevo la seconda, alla salute del Mid-West: un’America senza aggettivi, e non ne aggiungerò io.
All’Italian Community Center – il più esteso degli Usa, ci dicono – c’è una riunione in corso, in vista della Festa Italiana (dovrà essere più fastosa di quella polacca, che diamine). Solo uno dei presenti parla italiano: Mario Carini, storico del club, origini siciliane e commozione facile. Chiediamo delle elezioni in arrivo, e otteniamo risposte evasive. Solo quando il discorso cade sul governatore repubblicano Scott Walker, che ha resistito a un tentativo di destituzione (recall), qualcuno diventa esplicito: la moglie è italiana, anche lui è socio! Walker non ama i treni: ha rinunciato a 810 milioni di dollari destinati al Wisconsin per l’alta velocità. Contento lui.

DECIMO GIORNO
Nelle ultime ventiquattro ore, viaggiando da Milwaukee (Wisconsin) a Rugby (North Dakota) abbiamo conosciuto un ranger con un pesce-gatto di peluche nella borsa, una coppia di Savannah (Georgia) che viaggia in treno su ordine del medico, un vicesceriffo così gentile da caricarci sull’auto di servizio, un ex sindaco impresario di pompe funebri con una Cadillac ’68 decappottabile e Bailey la calciatrice, subito soprannominata Miss North Dakota.
North Dakota! La giovanissima Bailey s’è trasferita qui dalla California e gestisce con la famiglia il Cornerstone Cafè. Fuori dal locale, una stele annuncia Geographic Center of the North American Continent. Ricordate Fargo, il film dei fratelli Cohen? La città – ci siamo passati, la notte scorsa – è una metropoli, in confronto a Rugby. Qui solo un giornale, una radio, un motel, niente taxi, 2.879 abitanti, ultimo omicidio nel 1963, un cielo tridimensionale, ombre lunghe d’estate e un freddo pazzesco d’inverno.
Un’America con il mito dell’autosufficienza, che guarda con simpatia ai repubblicani. Un’America creata dalla ferrovia (Great Northern Railway 1890-1970), e il nome del treno Amtrak che ci ha portato fin qui – e domattina ci porterà via – lo ricorda: “Empire Builder”, costruttore d’impero. Un’America che, nel Ventunesimo secolo, sembra ancora prigioniera di un incantesimo di Norman Rockwell, anche se le bionde sono più vestite. Sarà il clima.

UNDICESIMO GIORNO
Il treno argentato attraverserà il North Dakota diretto a Seattle, nello Stato di Washington. Noi scenderemo a Malta, Montana. Sul treno conosciamo Mandy, che dal Minnesota va a trovare un amico a Williston, il centro del nuovo “oil boom”, che sta attirando gente da tutta l’Unione. Una controversa tecnica di estrazione – “hydraulic fracturing” o “fracking” (immettere liquidi o gas ad alta pressione nel sottosuolo e rompere uno strato roccioso) – produce oltre mezzo milione di barili di greggio-equivalente al giorno. «Posto pazzesco», spiega la ragazza. «Tanti maschi giovani, tanti soldi, tanto alcol, niente da fare. Ho assistito a risse per una ragazza. Testosterone e petrolio, wow».

DODICESIMO GIORNO
Malta, Montana, è un posto che sarebbe piaciuto a Wim Wenders: una scenografia in attesa di un film. Vie diritte, larghe, deserte; angoli retti, cielo cobalto e insegne sbiadite. Le attrazioni locali sono i resti di un dinosauro (Leonardo) e il bandito Kid Currie (Harvey Logan), che nel 1901 assaltò un treno a poche miglia da qui. L’ultima rapina del Mucchio Selvaggio, prima che Butch Cassidy e Sundance Kid si trasferissero in Sudamerica per godersi la disonesta pensione.
Vaghiamo per strade vuote, tagliate dalla luce, finché dal bar Lucky Bullet ci invitano ad entrare: gentilmente, senza ricorrere alle armi da fuoco. L’America oleografica e cinematografica, appena ci si avvicina e le si parla, si scompone in storie reali, personali, spesso dure. Janae, al bancone, mostra la foto del padre della figlia, partito ieri per l’Afghanistan; le amiche robuste raccontano di una cittadina solidale, ma troppo curiosa; Dennis e Dodie esibiscono la sella vinta al rodeo. Al ristorante del Great Northern Hotel la ventitreenne Krystal, pettinata come l’amica vivace di James Dean, spiega che è arrivata fin qui da Portland, Oregon, per cercare lavoro: come tanti.
Strani umori percorrono la nazione. «La maggior parte dei cittadini americani in questi ultimi anni ha cambiato così tante città, così tanti lavori, ha visto cambiare così tante cose, da aver perso la bussola e il proprio posto dentro l’America. E l’America, anche per questo, fatica a trovare il proprio posto nel mondo». Questo pensa Salvadore Scibona, giovane scrittore di Cleveland, autore di The End (2009). Un riassunto che condivido, anche se non vorrei. O forse è un effetto collaterale del treno: si diventa letterari.

TREDICESIMO GIORNO
La mattinata trascorre in vagabondaggi lungo i binari, in attesa di riprendere l’Empire Builder verso West Glacier. Le ore di ritardo sono due, ma potrebbero diventare tre, oppure una soltanto: Amtrak è una forma di allenamento alla vita. Siamo arrivati qui in treno, non abbiamo l’automobile: da queste parti è inconcepibile. Cinque italiani e un tedesco che visitano dinosauri, scalciano rifiuti sulla massicciata e si fotografano a vicenda lungo i binari. Siamo marziani in Montana, a Ennio Flaiano saremmo piaciuti.

QUATTORDICESIMO GIORNO
Nei parchi nazionali piove, ha appena smesso di piovere o sta per piovere: è una delle cose che ho imparato in 35 anni di viaggi in America (a proposito: cosa fanno gli orsi, la domenica pomeriggio, con questo tempo?). West Glacier, Montana: parliamo di politica anche qui (nei rifugi, in albergo, al bar). A quattro giorni dal traguardo, mi sento di dirlo: Barack Obama, il 6 novembre, avrà vita dura. La sensazione è netta: ogni categoria sembra avere un motivo per recriminare e se la prende con chi comanda (Obama), giudicando distrattamente chi lo sfida (Romney).
La nazione si è accorta di essere più povera di quanto credeva, anche perché banche e carte di credito le hanno lasciato credere per anni che essere benestante fosse un destino, non una condizione. Traslochi drastici, mutui pesanti, acquisti cauti. Il tasso di disoccupazione è 8,2%, ma nasconde piccoli lavori pagati al minimo legale: non è con quelli che si mette su famiglia.

QUINDICESIMO GIORNO
Chi venisse a Spokane ed esclamasse: «Ma che bella città!» sarebbe da sottoporre alla prova dell’etilometro. Siamo arrivati alle tre del mattino, e questo non aiuta. Le stazioni di notte hanno un loro fascino, anche se talvolta è difficile coglierlo, dopo aver passato otto ore su un treno (senza cuccette e in ritardo di due ore, tanto per cambiare).
Un secolo fa a Spokane giravano i denari delle miniere, del legname, della ferrovia: un successo durato pochi anni, che però ha lasciato tracce. A Davenport Hotel venivano Bing Crosby, il trasvolatore Charles Lind-
bergh, l’attore Bob Hope, lo scrittore Dashiell Hammet. Ora è stato restaurato, e i ricordi sono esposti lungo le pareti. L’albergo conserva la speciale malinconia dei luoghi che hanno visto tempi migliori, come l’Adelphi di Liverpool, il Metropol di Mosca o il Plaza di Roma.
Non credo, tuttavia, che gli americani ci facciano caso. Sono troppo impegnati a correre avanti: anche se, come dicevamo, si tratta di una corsa in salita. L’Europa, invece, ama tenere gli occhi nello specchietto retrovisore. Strumento utile: almeno capiamo chi sta per sorpassarci, ed è una consolazione anche questa.

SEDICESIMO GIORNO
Arriviamo a Seattle e ritroviamo l’acqua salata: Pacifico, stavolta. Il centro che scivola verso il Puget Sound, il lungolago di Bellevue, i saliscendi di Madison Avenue, i negozi e i ristoranti di Capitol Hill, il Mount Rainier sullo sfondo, Ray’s Boat House al tramonto: tutte le cose illuminate. Al Pike Market conosciamo un muscoloso cantante nero con la spilla di Obama, entusiasta del Presidente, cui dedica una canzone – ehi!, almeno uno l’abbiamo trovato.

DICIASSETTESIMO GIORNO
In questa rara giornata senza treni, nello spazio di due chilometri, abbiamo visto una mini-statua della Libertà, un tirannosauro sotto vetro, la sabbia dorata delle Hawaii, una torre medievale e due panchine affiancate: blu per i democratici, rossa per i repubblicani. Non è un delirio psichedelico, e non siamo in Florida o a Las Vegas, dove l’eccesso architettonico è prevedibile e incoraggiato. Siamo sul Lake Washington, il lago urbano di Seattle, città sofisticata e liberale, residenza di personaggi diventati ricchi con i (nostri) computer: Bill Gates (Microsoft), Paul Allen (suo ex socio), Jeff Bezos (Amazon) e tanti altri.
Le case scendono verso l’acqua, i prati brillano al sole, il clima aiuta. Succede perfino di vedere umani sdraiati sull’erba senza un maglione e una coperta. Nella zona di Medina, la magione di Jeff è seminascosta dal verde, la spiaggetta di Bill appare soffice (microsoft?). Non so, invece, a chi appartenga il tirannosauro, ma è ben visibile dal lago, chiuso dentro una costruzione in vetro. È installato su una piattaforma e domina la piscina interna. Ragionevole: chi non ha mai sognato di nuotare sotto lo sguardo di un carnivoro bipede appartenente all’ordine dei saurischi?

DICIOTTESIMO GIORNO
Il Coast Startlight è un treno quasi elegante: non ci siamo abituati. I vagoni argentati sono del 1985, ma ben conservati. Esiste una prima classe geriatrica, dove l’età media è quella della classe dirigente italiana; e una carrozza del 1957 che ospita una sala-cinema con un’aria condizionata polare. Noi viaggiamo, come sempre, in classe economica. Dietro di noi, Jakub Gorski, blogger polacco, partito in treno da New York, dove tornerà via Los Angeles e New Orleans: 13 mila chilometri in 13 giorni, con un biglietto da 200 sterline acquistato a Londra.
I biglietti coprono solo una parte dei costi di Amtrak: il risultato migliore è dell’Empire Builder (79%) e del Coast Starlight (82%); il peggiore del Sunset Limited (22%), costretto a operare solo tre giorni la settimana. Il bilancio annuale è pari a 15 minuti del costo della guerra in Iraq; e la Federal Highway Administration spende di più per togliere i rifiuti dai bordi delle autostrade. «Questo è il Paese delle automobili, non abbiamo alleati politici», sospira l’uomo Amtrak a bordo. «Solo gli ambientalisti ci sostengono e ci danno una mano». Vi mandiamo i No-TAV della Val di Susa, gli dico nel dormiveglia.
Alle 13.30, in orario, arriviamo in Union Station a Portland, Oregon. Veniamo da Portland, Maine. Pioggia qui, pioggia là, il sole e l’America in mezzo.
Quindici Stati, diciotto giorni.
Alla partenza ero convinto che la rielezione, per Barack Obama, fosse una formalità. All’arrivo non sono così sicuro. Gli Usa del 2012 mi ricordano quelli che avevo conosciuto durante un altro lungo viaggio, nel 1992. Pochi mesi più tardi, il Presidente (George H.W. Bush) venne congedato dopo il primo mandato. Una storia che Barack Obama conosce bene, e vorrebbe non ripetere.
Beppe Severgnini