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 1992  maggio 23 Sabato calendario

Questa che riproponiamo è l’ultima testimonianza ufficiale del giudice antimafia. L’occasione fu l’inserto di Repubblica Napoli "La Galleria del Giovedì" in cui si parlava delle mafie

Questa che riproponiamo è l’ultima testimonianza ufficiale del giudice antimafia. L’occasione fu l’inserto di Repubblica Napoli "La Galleria del Giovedì" in cui si parlava delle mafie. Il colloquio, pubblicato il giorno seguente alla strage sull’edizione nazionale di Repubblica, è stato poi ripreso dal Wall Street Journal, da altre testate e in seguito in alcuni volumi come Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (Paul Ginsborg, Einaudi) di GIOVANNI MARINO Falcone, l’ultima intervista "Io, Cosa nostra e la camorra..." VEDI ANCHE articolo Mafia, Napolitano con Monti a Palermo "Non si escluda ritorno dello stragismo" ROMA - "Cosa nostra non dimentica. Non l’ho mai concretamente vista come una piovra. La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante. Per questo bisogna fare in fretta e mettersi d’ accordo sulla Superprocura, uno strumento essenziale per arginare l’espansione dei boss. Il nemico è sempre lì, in attesa, pronto a colpire. Ma noi non riusciamo neppure a metterci d’ accordo sull’elezione del presidente della Repubblica...". Martedì, mezzogiorno, terzo piano di via Arenula. Giovanni Falcone concede la sua ultima intervista per l’inserto napoletano di cultura di Repubblica. Argomento: analogie e differenze tra camorra e mafia. Ma fuori dall’ufficialità dell’intervista Falcone confessa il suo grande cruccio: le dure e continue polemiche sulla Dna, la Direzione nazionale antimafia, subito ribattezzata Superprocura, l’organismo centrale che dovrebbe coordinare le inchieste sulla criminalità organizzata in tutt’ Italia. Una breve attesa nella stanza dove lavorano due segretarie. Una camera in cui campeggiano le targhe e i riconoscimenti ottenuti da Falcone nei suoi anni al palazzo di giustizia di Palermo. Tra i ricordi, un quadro del pittore Bruno Caruso che richiama l’estate dei veleni, le lettere anonime che gettarono discredito sul magistrato antimafia: sono disegnati il Corvo, la Talpa, il Falcone. Arriva Falcone, entriamo in un moderno ufficio con la tv accesa sul televideo in attesa di notizie da Montecitorio, libreria, una originale e divertente collezione di statuette che rappresentano paperi di ogni tipo, colore e dimensione. Giovanni Falcone, da poco più di un anno direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia, si sfoga subito: "Inutile farsi illusioni. Non credo che sarò io il superprocuratore. Ma non mi importa granché. Quello a cui tengo veramente è che la Dna nazionale entri al più presto in funzione. Che a guidarla possa essere io o il procuratore calabrese Agostino Cordova è davvero un dettaglio. Non c’ è tempo da perdere, bisogna mettere da parte le guerre tra il Csm, l’Anm, il Guardasigilli, i partiti. Cosa nostra delinque senza soste, mentre noi litighiamo senza soste". Leggermente appesantito nonostante il nuovo hobby (il canottaggio ha sostituito le lunghe nuotate in piscina) Falcone insiste sulla Dna: "Critiche, polemiche strumentali, partiti un contro l’altro armati, che tristezza! Stiamo perdendo un’occasione storica per mettere in piedi una struttura moderna, funzionale; l’unica arma con la quale si può cercare di bloccare l’avanzata mafiosa. Dicevano che ero comunista, adesso mi etichettano come socialista: c’ è sempre una buona ragione per ritardare le misure antimafia e prendersela con Giovanni Falcone". E’ un Falcone diverso dai tempi palermitani. Non ha perso l’amara ironia e la cadenza sicula, ma ha messo da parte il linguaggio burocratico e i grandi silenzi che hanno scandito l’incisiva attività di giudice, perno del pool antimafia. Ha voglia di parlare Giovanni Falcone, di spiegarsi: "Mi accusano di volere il pubblico ministero schiavo dell’Esecutivo, succube del potere politico, incapace di esplicare la propria irrinunciabile autonomia. E’ una mistificazione, una scusa per bloccare la Direzione nazionale antimafia. Senza coordinamento quella con la mafia si può già considerare una guerra persa, senza appello. Gran parte dei miei ex colleghi si lamenta: ma cosa vogliono quei giudici? Tornare agli anni in cui erano totalmente dipendenti dal rapportino dei carabinieri e della polizia? Non è possibile, non è adeguato alla pericolosità del nemico, di Cosa nostra. C’ è la Dia, ed ha bisogno della Dna. Ma Falcone era comunista, ora è socialista, e qualunque idea abbia in testa deve per forza essere finalizzata a chissà quale diabolico disegno e dunque va bocciata. Non è così?". Sullo schermo del televideo appare una dichiarazione di Achille Occhetto: il leader della Quercia si professa moderatamente ottimista su una prossima elezione del capo dello Stato. Falcone spegne la televisione, scuote la testa: "Tante parole, nessun fatto. Litigheranno ancora. Io il mio candidato ce l’avrei: Spadolini. Ma pare l’abbiano messo da parte durante le loro liti quotidiane". Falcone entra nel merito dell’intervista, definisce mafia e camorra: "La mafia non è il frutto malato di una società sana, ma una realtà autonoma con leggi severe create al proprio interno. Dotata di una struttura verticistica, piramidale e unitaria. Cosa nostra si fonda sull’assenza dello Stato in Sicilia, un vuoto colmato con regole alternative, elastiche nella loro apparente rigidità formale. Cosa nostra è come una chiesa, dispone di un ordinamento paragonabile a quello ecclesiale. E come la chiesa, sa rinnovarsi senza rinunciare alle propria fondamenta: non è un caso che il capo della Cupola, Michele Greco, sia stato soprannominato il Papa. La camorra, invece, priva di un’organizzazione verticistica, polverizzata in decine e decine di clan, non si oppone, ma vive dei buchi neri del Palazzo". Una pausa, telefonata da Palermo. Falcone ascolta l’interlocutore, poi dice: "Ti richiamo ad ora di pranzo". Riprende l’intervista. "Cosa nostra e camorra hanno comunque una base comune. Sono entrambe ancorate alla subcultura mafiosa del Mezzogiorno, all’omertà che si è trasformata in memoria storica di uno Stato che non ti garantisce. Si tratta di organizzazioni che rispecchiano e travisano valori in sé non censurabili, tipici delle popolazioni meridionali. Capisco che questa affermazione possa far storcere il naso a qualcuno, ma è certo che la famiglia, l’amicizia, il coraggio, la lealtà, tutti presupposti di mafia e camorra, non sono comunque caratteristiche disprezzabili in assoluto, anzi. E’ altrettanto sicuro che il rispetto delle amicizie, della tradizione familiare, il richiamo ossessivo al coraggio e alla lealtà diventano valori strumentali a loschi scopi in camorra e mafia e perdono le caratteristiche nobili caricandosi invece di sentimenti negativi, assolutamente deprecabili". Gli domando delle collusioni mafia-politica, camorra-politica. Falcone sorride, si abbandona sulla poltrona, allunga le braccia sulla scrivania: "Cosa nostra è autonoma rispetto alla politica. Il rapporto è alla pari. In parecchie occasioni addirittura di superiorità del boss sul colletto bianco. Mentre la camorra, abilissima ad infiltrarsi all’interno delle pubbliche istituzioni, vive ancora un rapporto subalterno con il politico, non certo di superiorità". Ancora il telefono. Falcone impreca: "E quando mai!". Discute di fascicoli giudiziari, promette di richiamare, anche stavolta ad ora di pranzo. Sono le tredici e qualche minuto. Puntuali, le sue ultime risposte: "Cosa nostra è una pantera, l’immagine della potenza, della ferocia. La camorra è una volpe. Apparentemente non dotata di grandissima forza, ma intelligente, astuta e spietata al momento opportuno. Fanno paura camorra e mafia, non esistono graduatorie di pericolosità nel crimine organizzato. E’ il momento di muoversi, di accantonare simpatie e antipatie, amici e nemici tra politici e magistrati. E’ il momento della Superprocura. Perché la pantera è vigile e non dimentica. Mai". g.marino@repubblica.it