Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 13 Domenica calendario

LORENZETTO INTERVISTA STEFANO RIBELLI

(fotografo) -
Il Giornale, domenica 13 maggio 2012

Cristoforo Colombo scoprì l’America. Piero Ribelli ha scoperto gli americani. Colombo c’impiegò 70 giorni. Ribelli 6 anni. Considerato che non è un esploratore, bensì un ex elettricista, meriterebbe d’essere ricevuto alla Casa Bianca. Colombo navigò per poco meno di 7.000 chilometri dalla Spagna a San Salvador. Ribelli ha attraversato gli Usa dall’Alaska alla Florida e dalle Hawaii al Maine, coprendo 50.000 chilometri in aereo e percorrendone altri 25.000 fra auto, treno e traghetto. Il suo diario di bordo, che ho potuto ammirare in anteprima insieme al regista Martin Scorsese, sarà reso di pubblico dominio soltanto il 4 luglio, festa dell’Independence day, il giorno che celebra il distacco degli Stati Uniti d’America dalla Gran Bretagna.
Ribelli, 53 anni, bresciano originario di Padenghe sul Garda, oggi fotografo professionista tra i più apprezzati degli States, dal 1987 residente a New York, dove ha sposato in seconde nozze Rose Austin, fascinosa segretaria di colore del vicepresidente di Mtv Networks, è partito da un’idea semplice e al tempo stesso temeraria: considerato che non esiste città o paese d’America dove manchi una strada principale chiamata Main Street, così come ovunque si vada in Italia c’è sempre una via Roma, ha deciso di ritrarre 50 persone scelte a caso in 50 località qualsiasi di ciascuno dei 50 Stati dell’Unione, tutte residenti al numero 50 di Main Street. Ne è uscito 50 Main Street, sottotitolo The face of America, un monumentale racconto di 320 pagine sul volto dell’America più profonda, che sarà pubblicato dalla Cameron & Company, casa editrice californiana considerata una boutique per questo genere di opere. Le vite dei 50 signori Nessuno sono narrate attraverso le 214 immagini e i testi del fotografo. «Le considero altrettante storie brevi della mia esistenza».
È la seconda volta che Ribelli, viaggiatore inquieto, dispiega la sua capacità di partire dai dettagli per arrivare a dipingere un affresco. In precedenza lo aveva fatto con Jah Pickney, children of Jamaica, dedicato ai bambini dell’isola caraibica, e con Zoo York, un inaspettato, strepitoso inventario di animali incontrati nelle strade di Manhattan: un’iguana verde sul tetto di un’auto della polizia a Waverly Place, una scimmia cappuccino sulla metropolitana nella stazione di Bleecker Street di Little Italy, un boa constrictor a Chinatown, un maiale al Lincoln Center, un cammello davanti alla cattedrale di San Giovanni di Dio vicino a Central Park, addirittura un elefante sulla 34th Street. E anche un topo glabro davanti a un microfono, come se volesse cantare, al Northeast rat and mouse show, la fiera del ratto che incorona ogni anno il più bel sorcio della Grande Mela: i Beastie Boys hanno usato la foto per la copertina del loro singolo Ch-Check It Out.
Durante il suo viaggio coast to coast, a volte Ribelli trovava la Main Street ma non il numero 50. Oppure suonava il campanello a qualcuno che lo prendeva per pazzo e gli sbatteva la porta in faccia. «Allora passavo alla città o al paese successivo, sempre lasciandomi guidare dalla sorte. Mi sentivo un cretino. Alla fine ho deciso di mettere in copertina il primo che mi ha fatto accomodare dentro casa». Si chiama David Keller, ha 73 anni, è un camionista in pensione che abita a Washingtonville, nello Stato di New York. Faccia rubizza dell’ipercolesterolemico che ancora sconta il troppo pollo fritto ingurgitato nei Kentucky fried chicken lungo le highway, ciglia bianche cispose e occhi azzurri circondati da rughe profonde, come se ogni tragitto avesse scavato un solco nel suo viso. «Da lui ho imparato a indossare due camicie, una sopra l’altra, la prima di cotone leggero e la seconda da montagna, felpata, a mo’ di giubbino. Prima di congedarmi, siccome avevo la spia dell’olio accesa, gli ho chiesto dove fosse la più vicina stazione di servizio. “No problem”, mi ha risposto. E con uno schiocco di dita ha ordinato ai due nipoti adolescenti di farmi il cambio dell’olio, mentre lui si limitava a dirigere le operazioni a braccia conserte: “Oh, yes boys, very good”. Che uomo!».
Gli ha dedicato la copertina perché è stato il più gentile dei personaggi che ha incontrato?
«Accanto ai molti che minacciavano di chiamare la polizia, ho conosciuto tante altre persone perbene. Come Lyn Melody e sua moglie Rachel, che vivono a Paradise Valley, sperduta località del Nevada. Curano il minuscolo centro sociale. Lyn si occupa anche del cimitero. “Qui siamo in 35 a tirare l’acqua del cesso”, mi ha spiegato. Mi hanno fatto dormire a casa loro perché l’albergo più vicino era a 45 miglia».
Che senso ha percorrerne quasi 50.000, di miglia, per fotografare 50 facce?
«Vede, sono già al mio quinto presidente. Ho vissuto sotto Reagan, Bush padre, Clinton, Bush figlio e ora Obama. Quest’ultimo, sulla scia dei predecessori, ha aiutato gli squali di Wall Street con uno stimolus package, un pacchetto per l’economia, da 787 miliardi di dollari. Mai nessuno che abbia pensato alla middle class. Mi pareva giusto occuparmene io. La Main Street rappresenta esattamente questo: il ceto medio, la borghesia».
Ma Barack Obama non ha garantito l’assistenza sanitaria gratuita a tutti?
«Garantirà. Se mia moglie e io non continuassimo a pagare la nostra quota assicurativa mensile, staremmo freschi. Obama più di tanto non è riuscito a combinare. Non ha le idee chiare. Nessuno ha le idee chiare quando l’economia va male».
Quanto le è costato questo viaggio di sei anni?
«Lasciamo perdere. Ho preferito non fare nemmeno i conti. Ho speso 10.000 dollari solo di pellicole Kodak».
Niente macchina fotografica digitale?
«No, lavoro con una Hasselblad».
Com’è finito a vivere in America?
«È una storia lunga. Mio padre era un invalido di guerra. Ci sfamava facendo qualche lavoretto nei campi con i fratelli e giocando a biliardo nei tornei a premi. Nel 1974 morì di ictus
cerebrale e io, che ero al terzo anno di ragioneria, dovetti abbandonare gli studi per mantenere la famiglia. Facevo l’elettricista di giorno e frequentavo la scuola di sera, però mi addormentavo in classe. Nel 1980 mi sposai con un’impiegata del quotidiano Brescia Oggi. Dopo cinque anni ero già divorziato».
Perché?
«Siamo cresciuti su due rami diversi. Secondo lei ero troppo irrequieto. Aveva ragione. Mi sentivo come un vagone obbligato a viaggiare su binari che non ha scelto».
Ribelli. Nomen omen.
«Per dimenticarla, andai sei mesi negli Usa. Fu come saltare giù dal vagone in corsa. Nella vita è molto importante capire che cosa non si vuol fare e io non volevo fare l’elettricista. Tentai d’iscrivermi alla School of visual arts di New York, ma scoprii con raccapriccio che già allora costava 8.000 dollari solo di tasse. Oggi per un anno di corso in graphic design ce ne vogliono 50.000».
L’America è cara.
«Non avevo un centesimo in tasca. Dopo sei mesi tornai in Italia. La mattina facevo l’elettricista e il pomeriggio andavo a imparare nello studio fotografico Odeon di Brescia, specializzato in still life per aziende, cioè immagini di oggetti inanimati, dai bulloni alle sedie. Due anni dopo vendetti la Fiat Uno diesel e tornai a New York, deciso a rimanerci per sempre. All’aeroporto Kennedy ero talmente spaesato che a una ragazza italiana venne spontaneo chiedermi: “Hai un posto dove andare a dormire?”. Non ce l’avevo. Mi portò in una specie di comune. E lì conobbi il suo fidanzato, Peter Patanè, che fu il mio mentore. Era un pittore. In realtà campava scommettendo sui cavalli all’ippodromo di Bellmont. Mi diceva: “I soldi puoi sempre farli. Ma i sogni non puoi inventarli. Perciò, se ne hai uno, devi assecondarlo”».
Un po’ stravagante, come concetto.
«Non in America, dove se domandi a un tizio che lavoro fa, ti risponde: “Attore”. In realtà fa il lavapiatti per realizzare il suo sogno. Insomma, chi sei non dipende da ciò che fai. Ci ho messo un po’ di anni a capirlo. Nel 1985 andavo a bere al bar Lucy’s, nell’Upper West Side. Il barman era Bruce Willis. Proprio lui, il protagonista di Die hard, il secondo marito di Demi Moore. Matt, il primo fotografo di moda che mi diede lavoro, faceva il barista quattro sere la settimana al Saloon restaurant del Lincoln Center».
E lei?
«Passavo le giornate a telefonare ai fotografi, chiedendo se avessero bisogno di un assistente. All’inizio mi prendevano una volta al mese, poi una volta la settimana, dopo tre anni tutti i giorni. Andavo a fare i ritratti di personaggi famosi col giapponese Kei Ogata, che lavorava per il New York Times e il Washington Post. Nell’estate del 1992 venne a trovarmi un amico bresciano, Walter Pescara. A New York si moriva di caldo. “Perché non ce ne andiamo in vacanza in qualche posto più fresco?”, mi propose. Scelsi la Giamaica».
Dove nacque il suo primo libro.
«Fu come rivedermi bambino. I ragazzini andavano a vedere la televisione in negozio, come me che a Padenghe seguivo le avventure di Rin Tin Tin nel bar-drogheria di Callisto, con annessi campi di bocce. Giocavano con i copertoni e la domenica si vestivano a festa per andare a messa. Jah Pickney, che significa i bambini di Dio, è nato da questa similarità. Mi ha cambiato la vita, visto che ancor oggi curo le pubbliche relazioni a New York per il governo della Giamaica. Ma soprattutto mi ha fatto scoprire la mia vera vocazione: il ritratto».
Degli animali, oltre che degli uomini.
«Sul Garda vivevo nel bosco, giocavo con le rane e andavo in cerca di nidi. M’è venuto naturale fare la stessa cosa a Manhattan. In Zoo York c’è la foto di un falco dalla coda rossa che vive in cima al palazzo d’angolo fra la Fifth Avenue e la 74th Street dove abita l’attrice Mary Tyler Moore».
Che ci faceva un porco al Lincoln Center?
«Cornelius è un maiale malese. È l’animale da compagnia di una signora che ho conosciuto il 4 ottobre nella cattedrale di Saint John the Divine, dove per la festa di San Francesco, patrono degli animali, vengono benedetti cammelli, pinguini, gufi, di tutto. Lei lo porta anche negli ospedali e negli ospizi per svagare i ricoverati».
E l’elefante sulla 34th Street?
«Quando un circo si esibisce al Madison Square Garden, il treno che trasporta gli animali ferma nella stazione più vicina, nel Queens. All’una di notte la polizia blocca il traffico e sulle strade si assiste a questo spettacolo biblico, centinaia di animali in processione con i loro domatori, come se fossero diretti verso l’arca di Noè».
Il gatto alla finestra di un grattacielo dell’Est 75th Street stringe il cuore.
«New York non è Roma, dove le gattare si occupano delle colonie feline di Torre Argentina, tutelate dall’Ufficio diritti degli animali istituito dal Comune. Nella Grande Mela non si vede un solo gatto per strada. E come potrebbe? Finirebbe arrotato in dieci secondi. I poveri mici non hanno nemmeno i tetti, dove andare, perché i grattacieli ne sono privi. Devono vivere reclusi negli appartamenti».
Magari infestati da cockroach.
«Sono scarafaggi lunghi 5 centimetri che ho fotografato in Green Street, a Soho. Le case più vecchie ne sono piene. Ma puoi vedere le blatte che corrono anche sui muri dei ristoranti. E non parliamo dei topi, che a New York secondo le statistiche sarebbero 100 milioni, 10 per abitante».
E gli alligatori nelle fogne?
«Io non ne ho mai fotografati, però è un fatto che non frequento nemmeno le fogne. Di sicuro un piccolo di coccodrillo, lungo fra i 45 e i 60 centimetri, fu avvistato da almeno 20 persone nell’Harlem Meer, lo stagno nell’angolo a nord-est di Central Park».
Torniamo ai cristiani. Che cosa deve avere un volto per ispirarla?
«Niente. Siamo tutti interessanti, a modo nostro. Il mio soggetto preferito è il primo che accetta di farsi ritrarre».
Dov’era l’11 settembre 2001, quando ci fu l’attacco al World Trade Center?
«Stavo parcheggiando l’auto. Ho notato il fumo che usciva da una delle Torri gemelle. Poi è cominciato il viavai di ambulanze. L’ospedale più vicino alle Twin towers è a 200 metri da casa mia. Sono salito sul tetto. Ho visto la gente che si buttava dai due grattacieli. Traumatizzante. Ero così sopraffatto dal dolore che non ho neppure pensato di scattare qualche fotografia».
La densità di popolazione a Milano è di 6.500 abitanti per chilometro quadrato. A New York di 10.200 e a Manhattan di 26.000, eppure molti farebbero carte false per andarci a vivere. Perché?
«Perché è l’unica città al mondo dove non devi vestirti in un certo modo, parlare in un certo modo, comportarti in un certo modo. Ti senti anonimo e al tempo stesso apparentato col mondo intero. La gente dà del tu a tutti, non solo ai neri come avviene in Italia. A New York puoi fare tutto ciò che vuoi, all’ora che vuoi, dove vuoi, con chi vuoi. Desideri pranzare alle 10 di mattina o cenare alle 6 di sera? Lo fai. Nei bar di Padenghe, dopo le 12, era vietato chiedere il cappuccino: lo consideravano una bevanda per la mattina».
Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 55 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Visti da lontano.


LORENZETTO Stefano. 55 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto, Il Vittorioso e Visti da lontano i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.