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 2012  gennaio 30 Lunedì calendario

Il lato oscuro del miracolo Apple testa in Usa e cuore in Asia – Seduta nel palco degli ospiti vicino a Michelle Obama e alla segretaria di Warren Buffett, anche Laurene Powell Jobs, 49 anni, vedova del fondatore della Apple, ha ascoltato la settimana scorsa il discorso sullo stato dell’unione pronunciato dal presidente americano di fronte al Congresso

Il lato oscuro del miracolo Apple testa in Usa e cuore in Asia – Seduta nel palco degli ospiti vicino a Michelle Obama e alla segretaria di Warren Buffett, anche Laurene Powell Jobs, 49 anni, vedova del fondatore della Apple, ha ascoltato la settimana scorsa il discorso sullo stato dell’unione pronunciato dal presidente americano di fronte al Congresso. Barack Obama ha reso omaggio a Steve Jobs, ricordando le sue doti di imprenditore e le sue capacità di assumersi i rischi. Ma la presenza di Laurene al solenne appuntamento è servita al presidente per sollevare un tema che gli sta molto a cuore e di cui aveva discusso spesso con lo stesso Jobs: come riportare negli Stati Uniti quei milioni di posti di lavoro sacrificati alla delocalizzazione. Una questione resa sempre attuale anche dai ricorrenti allarmi sulle condizioni di lavoro in quei (tanti) Paesi asiatici, dalla Cina alla Malesia, dalle Filippine a Singapore, nei quali si concentra la produzione, ma dai quali arrivano periodicamente resoconti agghiaccianti. L’ultimo l’ha pubblicato la settimana scorsa il New York Times: turni di lavoro massacranti (fino a 24 ore), condizioni igienicosanitarie disastrose, salari da fame, suicidi in massa. L’azienda promette che vigilerà, controllerà, bloccherà le pratiche irregolari. Non può fare diversamente: buona parte dei 93 milioni di iPhone e dei 40 milioni di iPad venduti dalla Apple nel 2011 sono stati prodotti all’estero (per la precisione 70 milioni di iPhones, 39 milioni di iPad e 59 milioni di computer e altri prodotti). I semiconduttori per i telefonini arrivano dalla Germania e da Taiwan, le memorie dal Giappone e dalla Corea, i display e i circuiti interni da Taiwan e dalla Corea, alcuni chip dall’Europa, i metalli rari dall’Asia e dall’Africa. E il tutto è assemblato in Cina, negli immensi stabilimenti cinesi della Foxconn a Shenzhen, vicino a Hong Kong, dove lavorano 230mila dipendenti. «Sarebbe possible costruire gli iPhone negli Stati Uniti?», aveva chiesto Obama a Steve Jobs lo scorso febbraio, durante una cena con i maggiori esponenti della Silicon Valley. «Perché – aveva aggiunto il presidente – non si può riportare qui da noi il lavoro che è stato delocalizzato?» La risposta del mago della Apple era stata lapidaria: «Quei posti di lavoro non torneranno mai più». Le ragioni? Vanno ricercate non solo nel costo del lavoro, che all’estero è più basso che negli Stati Uniti (anche se la forbice si va restringendo), ma soprattutto nell’esistenza in altri paesi, a cominciare dalla Cina, di strutture produttive, canali di approvvigionamento e manodopera qualificata, disciplinata e flessibile. Sono tutti fattori che attirano le multinazionali, specie nel settore dell’hitech, e che surclassano l’organizzazione industriale dei paesi avanzati. Lo stesso New York Times ha svelato un episodio che la dice lunga sui vantaggi relativi della produzione in Cina e sulle difficoltà degli Stati Uniti di tenere il passo. Nel 2007, un mese prima del lancio dell’iPhone, Jobs convocò i suoi collaboratori più stretti. Per alcune settimane aveva usato un prototipo del telefonino tenendolo sempre nella tasca dei jeans assieme alle chiavi. Tirò fuori l’apparecchio e lo mostrò ai presenti con tono irritato: «Vedete: lo schermo di plastica si è tutto graffiato. Non posso vendere un iPhone che finisce in questo stato. Voglio che ci sia uno schermo di vetro e che sia pronto entro sei settimane». Uscito dalla riunione con Jobs uno degli executive prenotò un volo per Shenzhen: «Non c’era altro posto dove andare». La Apple aveva già individuato nell’americana Corning la migliore azienda per produrre le grandi lastre di vetro rafforzato, ma bisognava trovare in tempi record una impresa capace di ritagliare con precisione, e con l’aiuto di tecnici qualificati, milioni di piccoli schermi. Una fabbrica cinese a otto ore di camion da Shenzhen disponeva di tutto l’occorrente. Si aggiudicò il contratto e dopo qualche settimana, in piena notte, i primi pezzi arrivarono a Foxconn City. Un altro esempio del divario tra i sistemi produttivi in Cina e altrove. AIla Foxconn un quarto dei dipendenti vive nei dormitori attigui, lavorando sei giorni alla settimana, spesso per 12 ore, e con un salario che in molti casi non raggiunge i 13 euro al giorno. Nelle cucine delle mense aziendali vengono preparate ogni giorno 13 tonnellate di riso e 3 tonnellate di carne di maiale. La Foxconn riesce aumenta la sua manodopera come un organetto, assumendo fino a 3mila nuove persone in 24 ore per soddisfare le esigenze produttive. Mentre la Apple dei primi tempi si vantava di avere tutto made in Usa e gli iMac venivano assemblati a Elk Grove, in California, adesso l’attività manifatturiera è altrove. Il colosso degli iPhone ha 43mila dipendenti negli Stati Uniti e 20mila altrove, ma si occupano soprattutto di servizi, finanza, assistenza tecnica, marketing, progettazione, mentre la produzione è affidata a 700mila operai e tecnici di società all’estero. La delocalizzazione, che dal 2004 è stata accelerata da Tim Cook, attuale Ceo, il successore di Jobs, ha dato ottimi frutti economici. Anche dopo la morte nell’agosto scorso del fondatore, la Apple continua ad approfittare degli alti margini sui prodotti per guadagnare miliardi. Grazie alle vendite di iPhone4S, che hanno superato ogni aspettativa (e smentito i dubbi degli esperti), gli utili dell’ultimo trimestre 2011 sono raddoppiati: da 6 miliardi di dollari dell’analogo periodo del 2010, a 13,06 miliardi. Il fatturato è cresciuto del 73 per cento. E il gruppo, che dispone di contanti per quasi 100 miliardi di dollari, pronti per acquisizioni o pagamenti di dividendi, è la star di Wall Street. L’impennata delle quotazioni di mercoledì scorso, subito dopo i risultati di bilancio, ha permesso alla Apple di superare la Exxon e diventare la numero uno per capitalizzazione con 419 miliardi di dollari. Obama considera questi traguardi come la conferma della vitalità degli Stati Uniti. La performance finanziaria piace anche ai piccoli risparmiatori americani che, attraverso i fondi di investimento e di pensione, partecipano agli exploit di Cupertino. Resta però l’aspetto inquietante di una delocalizzazione strutturale, quindi non più legata a convenienze congiunturali, che riduce i posti di lavoro stabili e ben pagati con inevitabili conseguenze sociali. La Casa Bianca non si rassegna. Nel discorso di martedì di fronte alla vedova Jobs, Obama ha promesso il rilancio dell’attività manifatturiera negli States attraverso la leva fiscale, il controllo su importazioni sleali e la riqualificazione della manodopera. Ma l’esempio della Apple sta a ricordare che non sarà un compito né facile né di breve durata.