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 2012  gennaio 30 Lunedì calendario

Ritorno all’antico, la cura indiana della Pepsi – E’ la sconfitta del politically correct, ma per chi fa business è un incontrovertibile e preciso indicatore della direzione in cui andare con investimenti e sforzi di marketing: appena il 10% degli americani evita accuratamente di mangiare le famigerate "merendine" confezionate ritenendole (giustamente) poco salubri, mentre il 25% è "in conflitto con se stesso" per cui cerca in linea di massima i cibi naturali ma spesso e volentieri "indulge", e il 65% una schiacciante maggioranza non si preoccupa per nulla di quello che contengono ma cerca solo sapore e buon prezzo

Ritorno all’antico, la cura indiana della Pepsi – E’ la sconfitta del politically correct, ma per chi fa business è un incontrovertibile e preciso indicatore della direzione in cui andare con investimenti e sforzi di marketing: appena il 10% degli americani evita accuratamente di mangiare le famigerate "merendine" confezionate ritenendole (giustamente) poco salubri, mentre il 25% è "in conflitto con se stesso" per cui cerca in linea di massima i cibi naturali ma spesso e volentieri "indulge", e il 65% una schiacciante maggioranza non si preoccupa per nulla di quello che contengono ma cerca solo sapore e buon prezzo. Insomma, si abbuffa di snack gustosi senza preoccuparsi assolutamente delle troppe calorie o dei grassi insaturi. Risultati molto simili per quanto riguarda le bevande, dove oltre la metà beve tranquillamente le "soda" più gassate, zuccherose e si diceva dannose e creatrici di bimbi obesi. Tutto questo è uscito da un convegno a New York nello scorso dicembre, organizzato dalla rivista Beverage Digest. Ad ascoltare in prima fila i sondaggisti che hanno tratto queste conclusioni c’erano proprio due pezzi da novanta dell’industria "incriminata": Albert Carey, responsabile della divisione "Americas Beverages" della PepsiCola, ma soprattutto Indra Nooyi, Ceo dell’intero gruppo PepsiCo, un gigante da 63 miliardi di dollari di fatturato e 285mila dipendenti, in piena crisi d’identità e di profitti. Per Carey è stata una soddisfazione epocale: da anni conduce una battaglia all’interno del gruppo contro la linea imposta dalla Nooyi, indiana, 56 anni, dal 2006 al vertice della Pepsi. La quale, fin da quando si è insediata, stava cercando saggiamente di virare verso i cibi "salutisti", la linea Good for you a base di frutta, verdura, ortaggi, latte. Niente da fare. «Ma non lo vedi anche tu che i Doritos (una specie di tacos aromatizzati col peperoncino, il chili e chissà che altro, ndr) e i Crinklecutting Ruffles (le famose patatine fritte "ondulate", ndr) volano via in un minuto dagli scaffali del supermercato mentre i tuoi yougurt o il Sabra Hummus ("crema di ceci") ci restano per settimane? E vogliamo parlare degli sciroppi di frutta?», ha detto alla Nooyi la mattina del convegno con un’improntitudine che non aveva mai avuto ma che gli veniva da quello che stavano ascoltando. Alla fine, con saggezza tutta indiana e con la calma carismatica che tutti le riconoscono, la Nooyi si è arresa all’evidenza. In tutta fretta ha imposto una nuova virata alle scelte del gruppo: si torna all’antico, cioè a quello che piace agli americani, e verosimilmente ai cittadini degli altri 201 Paesi (in pratica tutti quelli riconosciuti dall’Onu) nei quali la Pepsi vende i suoi prodotti. E ha già impostato in questo mese e mezzo una serie di massicci investimenti in tutto il mondo che la Bernstein Research quantifica in 400 milioni di dollari nel solo 2012. Tutti per ricostituirsi l’immagine di leader nei soft drink. Una leadership che la Pepsi aveva conquistato nel 2000 a danno dell’eterna rivale CocaCola, ma aveva perso nel 2006, quando aveva cominciato a "distrarsi" a favore dell’healthy food and beverage. Finché l’anno scorso l’umiliazione: la Pepsi Cola è stata battuta non solo dalla Coca ma anche dalla Diet Coke. Questi i risultati (mondiali) dell’anno scorso in casse da 12 lattine o equivalenti: CocaCola 1,6 miliardi, Diet Coke 927 milioni, PepsiCola 892 milioni. Un terzo posto che stava per costare il posto alla Nooyi. Per tutta la seconda parte dell’anno scorso, il board è stato spazzato da discussioni accesissime sui risultati che non sono arrivati dalla campagna salutista, ovviamente dalle richieste di estromissione della Ceo, infine dalle incertezze sulla direzione da scegliere. Fino al famoso convegno del Beverage Digest e alla condizione finale: tu resti, cara Nooyi, purché riveda in fretta le strategie ribaltando la tua posizione. Ed è quello che sta facendo. Ai nuovi investimenti si accompagnerà il taglio di 4mila posti e una serie di risparmi di spesa che andranno a colpire, appunto, le nuove linee produttive "salutari" che la Nooyi aveva voluto. Tutto questo sarà reso noto il 7 febbraio in un’attesa conferenza con gli analisti, durante la quale saranno anche ufficializzati i dati del bilancio 2011: l’azienda, pur avendo ridimensionato ben due volte la guidance per i risultati annuali, si attende comunque un pur limitato aumento del fatturato (che era salito da 61 a 63 miliardi fra il 2009 e l’anno successivo) e forse anche degli utili operativi, che nel 2010 erano di 8,3 miliardi. In effetti, nel terzo trimestre 2011 il fatturato è salito del 13% sullo stesso periodo del 2010 fino a 17,6 miliardi e gli utili operativi del 4%. Ma il periodo estivo, appunto lugliosettembre, è quello in cui la Pepsi ovviamente si vende di più. Si vedrà se avrà saputo tenere le posizioni. Del resto, tutta la lunga storia della PepsiCola, creata nel 1898 da un farmacista della North Carolina, Caleb Bradham, e "incorporata" nel 1902, è un concitato susseguirsi di fusioni, acquisizioni, smobilizzi, strategie elaborate e poi capovolte, e via dicendo. E perfino di fallimenti: è successo all’inizio del 1931, ma poi nell’agosto dello stesso anno il marchio e la ricetta della Pepsi furono rilevate da un certo Charles Guth, proprietario di una fabbrica di sciroppi a Baltimora, che ricreò la società con lo stesso nome. Nel ‘35, la Pepsi assorbì la Loft, che gestiva una fabbrica di caramelle e aveva una catena di ristoranti: qui si cominciarono a montare i primi distributori "alla spina" di Pepsi che oggi sono nei memorabilia dell’America prewar. Già nel 1961 nacque la Diet Pepsi, poi nel ’65 nuova fusione con FritoLay, produttore di merendine, snack, fritos di ogni genere, che ora come si è visto il gruppo cerca di rilanciare. Negli anni ’70 le acquisizioni si fecero forsennate, salvo poi alla fine degli anni ’90 avviare un’altrettanto serrata campagna di disinvestimenti. Sono entrati e usciti in quegli anni da casa Pepsi marchi noti e meno noti, da Pizza Hut a Taco Bell, da KFC (Kentucky Fried Chicken) a California Pizza Kitchen, fino alla vodka Stolichnaya e partecipazioni diversificate come le racchette da tennis Wilson o le linee di pullman North American Van Lines. Ma più qualcosa della vocazione a diversificare è rimasto, tanto che oggi oltre il 50% del fatturato viene da prodotti al di fuori dei soft drink: intanto la FritoLay, poi i succhi di frutta Tropicana ma soprattutto la Quaker Oats Company, rilevata nel 2001, che ha portato con sé il marchio Gatorade e la più costosa sponsorizzazione della storia della Pepsi, quella di Usain Bolt, re giamaicano della velocità. Proprio il Gatorade è stato oggetto dell’ennesima disputa fra il board e la Ceo soprattutto perché la Nooyi è stata accusata di aver lanciato così tante variazioni della bevanda, aromatizzata, personalizzata e "colorata" talmente in tanti modi da aver confuso le idee ai consumatori. Non a caso, in questi giorni è uscita la nuova versione del Gatorade, che dichiara a chiare lettere di non avere "né aromi né coloranti o dolcificanti artificiali". Per una volta, almeno fra la popolazione degli sportivi, la linea naturale ha vinto. Ma il grosso del business, se ne è convinta anche la Nooyi, non viene da lì bensì dalla vecchia, calorica ma rinfrescante, politically uncorrect, Pepsi.