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 2012  gennaio 30 Lunedì calendario

Cdp, un cavaliere bianco per il quarto capitalismo – Il "quarto capitalismo" rilanciato dallo Stato

Cdp, un cavaliere bianco per il quarto capitalismo – Il "quarto capitalismo" rilanciato dallo Stato. Nell’epoca in cui vince il capitalismo degli Stati — quello cinese, quello indiano o brasiliano ma ormai anche quello americano — non è più un paradosso. Certo solo quindici anni fa, quando, sotto i riflettori di Mediobanca, le medie imprese del profondo nord e delle dorsale adriatica uscivano dai distretti per conquistare quote di mercato mondiale puntando sulla qualità e sull’innovazione, senza assistenza e aiuti pubblici, nessuno avrebbe potuto immaginare uno scenario di questo tipo. Eppure oggi basta andare a Roma in Via Goito, dove ha sede la Cassa Depositi e Prestiti con i suoi 160 anni di storia, per capire che un nuovo capitolo sulla trasformazione del nostro modello capitalistico potrebbe essere scritto proprio qui. O, passando da qui. Perché la Cassa (70 per cento del ministero dell’Economia, 30 per cento delle Fondazioni bancarie) è diventata il crocevia obbligatorio per il riassetto del sistema produttivo, troppo sottocapitalizzato e troppo dipendente dalle banche. Ma non solo. Qui si gioca il futuro di un pezzo del nostro sistema del credito, colpito dai nuovi parametri dell’Eba (l’autorità europea per le banche) e dalle sue rendite di posizione (vedi il caso Montepaschi); da qui, infine, potrebbe passare una parziale (azzardata?) riduzione dell’enorme debito pubblico italiano. Perché la Cassa ha i soldi e anche gli strumenti tecnici per sollevarci. Quelle risorse sono fuori dal perimetro della pubblica amministrazione all’interno del quale, invece, i movimenti consentiti dalle regole europee sono praticamente nulli. La Cassa è quasi una via di fuga, mentre l’Europa prova a innalzare i firewall per difendere i debiti sovrani. Ci sono quasi 160 aziende di dimensioni mediograndi (su un numero potenziale stimato in 750) che, da settembre ad oggi, hanno chiesto al Fondo Strategico Italiano (Fsi) come possa diventare loro partner. Una sorta di manifestazione di interesse. Nulla di concreto, per ora, ma in ogni caso un comportamento molto significativo, probabilmente propedeutico a un cambiamento di scenario. Perché è chiaro che se non si vuole passare dalla quotazione in Borsa o dalle integrazioni con altre aziende per non perdere il controllo della propria, l’azionista pubblico in quota minoritaria può rappresentare un’opportunità per restare con piedi solidi sul mercato e diventare più grandi. Il Fondo nasce per questo nell’estate dello scorso anno, durante l’"impero" tremontiano, quando solo comprimendo le regole del gioco concorrenziale si riuscì a preservare l’italianità dell’Alitalia, mentre l’antimercatismo si piegò davanti ai casi Parmalat, Edison e anche Bulgari. Il Fondo è partito con una dotazione iniziale di un miliardo di euro, a novembre la Cassa si è poi impegnata a sottoscrivere aumenti di capitale fino a 4 miliardi di euro. Ma può andare anche oltre. Sta costruendo lentamente una potenza di fuoco, sul modello del KfW tedesco, nato nel dopoguerra insieme al piano Marshall, che, con più di 400 miliardi di euro di attività e quasi 13 mila operatori, continua ad essere uno degli elementi per spiegare la potenza dell’industria della Germania. E il fatto che il Fondo Strategico possa entrare solo come azionista di minoranza, senza indicare gli amministratori, non per salvare aziende decotte bensì imprese strategiche con potenzialità di crescita e di redditività, dovrebbe evitare il rischio di una "deriva Iri". Sulla carta, però, perché siamo in Italia, e non in Germania. Vedremo. Intanto, i numeri dicono che la Cassa nel 2011 ha mobilitato risorse per un ammontare complessivo di 16,5 miliardi di euro, in aumento del 41 per cento rispetto all’anno precedente; che 40 mila piccole imprese hanno beneficiato del plafond di 8 miliardi lanciato nel 2009; che, infine, la raccolta postale netta è risultata positiva per circa 7 miliardi di euro. L’esordio del Fondo Strategico potrebbe realizzarsi con l’Avio. La Cassa non ha mai smentito un possibile intervento per acquistare una quota del gruppo che produce motori aerospaziali e che il fondo britannico Cinven (è suo l’81 per cento, con un 14 per cento in mano a Finmeccanica) ha deciso di cedere. Della partita è già il gruppo francese Safran, controllato dallo Stato, che ha detto di essere interessato. Una piccola conferma che le nuove sfide industriali sullo scenario globale saranno sempre più competizioni tra capitalisti statali. C’è poi il secondo corno dell’azione potenziale della Cassa: quello sul debito pubblico. L’ipotesi, nata tra i tecnici dell’Economia e discussa anche all’interno della Cassa, è davvero suggestiva: alcuni asset ora controllati dal Tesoro (Sace e Fintecna, di sicuro visto che non sono indebitate e che già operano con la Cdp) potrebbero essere acquistati da Via Goito fino a 50 miliardi di euro. La quota del debito pubblico da rifinanziare scenderebbe e inizierebbe la discesa dello stock del debito (complessivamente a quota 1.900 miliardi) così da evitare che l’Italia possa essere strangolata nei prossimi anni dalle nuove regole europee che potrebbero obbligarla (se non si dovesse tener conto del ciclo negativo dell’economia, dell’alta quota del risparmio privato e dell’attuale sostenibilità del sistema pensionistico) a manovre annue correttive nell’ordine di 4045 miliardi. Interventi socialmente insostenibili. Con il "parcheggio" nei suoi bilanci di aziende pubbliche, la Cassa diventerebbe pro tempore il nostro "Cavaliere bianco". Ma forse sarebbe solo un’illusione. Gli economisti di rigorosa militanza liberal sono convinti che per ridurre davvero il nostro debito pubblico ci sia solo una strada: vendere il patrimonio che ancora appartiene allo Stato. Senza escamotage. E forse anche in Via Goito non sono del tutto convinti di questa nuova, possibile mission.