Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  gennaio 30 Lunedì calendario

Lo spirito liberale non soffia sul credito – Il decreto liberalizzazioni del governo Monti, che prevede alcune misure relative al settore bancario, ad alcuni non è piaciuto perché inciderebbe troppo poco sulle banche consentendo loro di continuare le loro pratiche anticoncorrenziali

Lo spirito liberale non soffia sul credito – Il decreto liberalizzazioni del governo Monti, che prevede alcune misure relative al settore bancario, ad alcuni non è piaciuto perché inciderebbe troppo poco sulle banche consentendo loro di continuare le loro pratiche anticoncorrenziali. Secondo altri le regole emanate dall’esecutivo si connotano più per un certo dirigismo proconsumatori che per un’effettiva spinta liberalizzatrice. Si potrebbe giungere alla conclusione che, viste le critiche di segno contrario, la norma ha scelto un giusto mezzo di aristotelica memoria. Vediamo allora di capirci qualcosa. Il decreto contiene tre disposizioni che interessano le banche. 1) L’Abi, le associazioni dei prestatori di servizi di pagamento, la Poste Italiane, il Consorzio Bancomat, le imprese che gestiscono circuiti di pagamento e le associazioni delle imprese più significative a livello nazionale, devono definire entro il prossimo 1° giugno, e applicare entro i tre mesi successivi, le regole generali per assicurare una riduzione delle commissioni interbancarie a carico degli esercenti in relazione alle transazioni effettuate mediante carte di pagamento "tenuto conto della necessità di assicurare trasparenza e chiarezza dei costi", nonché di promuovere l’efficienza economica nel rispetto delle regole di concorrenza.Entro i sei mesi successivi all’applicazione delle misure, i Ministeri dell’economia e quello dello sviluppo economico, sentite la Banca d’Italia e l’Antitrust, valutano l’efficacia delle misure. In caso di mancata definizione e applicazione delle misure, le stesse sono fissate con decreto ministeriale. La formulazione non è un granché. Si affida alle imprese di trovare il modo di ridurre i costi salvaguardando la concorrenza: peccato che un accordo di cartello di prezzi, anche al ribasso, difficilmente sia proconcorrenziale. Se poi il cartello tarda o emana misure che non piacciono al Ministero dell’economia (che si riserva il potere di "valutarle"), sarà quest’ultimo a emanare un bel decreto. Ora, poiché nelle passate versioni del decreto si proponeva semplicemente di mettere un tetto dell’1,5% alle commissioni pagate dagli esercenti, è auspicabile che vengano recepiti i suggerimenti contenuti nella comunicazione dell’Antitrust del 5 gennaio. Il Garante della concorrenza poneva in luce come interventi normativi che fissassero dei tetti di prezzo sarebbero distorcenti mentre bisognerebbe stimolare la concorrenza tra banche consentendo agli esercenti di negoziare prezzi diversi a seconda del mezzo di pagamento. Inoltre, le banche dovrebbero rendere trasparente ai negozianti il costo addebitato per ciascun circuito di pagamento anziché applicare una cosiddetta merchant fee unica. Tuttavia si cammina sul confine impalpabile tra regolamentazione dei comportamenti commerciali ed eliminazione di divieti: staremo a vedere quali saranno le scelte. 2) I contratti di apertura di credito e di conto corrente in corso, entro 90 giorni devono prevedere, quali unici oneri a carico del cliente, una commissione onnicomprensiva, calcolata in maniera proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del cliente e alla durata dell’affidamento, e un tasso di interesse debitore sulle somme prelevate. L’ammontare della commissione non può superare lo 0,5% per trimestre della somma messa a disposizione del cliente. Tuttavia, mentre il rendere trasparente gli oneri al cliente è una prescrizione sensata, stabilire un importo massimo non funziona, perlomeno dai tempi dell’editto di Diocleziano, che nonostante avesse stabilito la pena di morte per chi imboscava il pane a prezzo calmierato, alla fine fu costretto a rimangiarsi il provvedimento. Se le banche non incassano da chi prende a prestito, si rifaranno in altro modo, magari sui depositanti. 3) Le banche e gli intermediari finanziari, se condizionano l’erogazione del mutuo alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita sono tenuti a sottoporre al cliente almeno due preventivi di due differenti gruppi assicurativi. Non si capisce perché mai le banche dovrebbero proporre dei preventivi sgraditi. Anzi, si rischia di incoraggiare dei cartelli incrociati tra gruppi bancari ed assicurativi per una tacita ripartizione del mercato. L’Antitrust aveva invece raccomandato di agire sul lato della trasparenza da parte della banca nello spiegare i costi al cliente e la non obbligatorietà dell’abbinamento. Queste misure, in buona parte non sono delle vere e proprie liberalizzazioni in quanto non aprono nuovi spazi alla concorrenza, ma cercano di imporre agli istituti bancari dei comportamenti virtuosi, intendendosi per virtuoso una concessione di sconti a clienti ed esercenti, incuranti del rapporto costibenefici per la loro attuazione così come degli eventuali aggiramenti delle prescrizioni attraverso il trasferimento di costi da un servizio all’altro e da una tipologia di cliente all’altra. Cosa bisognerebbe fare, allora? A me sembra che il problema delle banche italiane consista nei loro costi (che poi ribaltano ai clienti); nella loro struttura proprietaria e di governance che o è intrecciata o non promuove il mercato dei capitali di rischio e nelle loro interazioni coi clienti caratterizzate da asimmetria informativa e ostacoli al cambiamento di fornitore. Partendo da quest’ultima caratteristica racconto un episodio recente: una giovane brillante professionista lavora a Londra ma ha un conto corrente in Italia. Volendolo chiudere, abituata come è in Inghilterra a fare tutto per telefono ed email, telefona alla propria filiale chiedendo cosa debba fare per terminare il rapporto. "Presentarsi di persona", le viene detto. La lontananza non commuove il funzionario della banca, il quale non avrebbe battuto ciglio se la correntista avesse svuotato il conto tramite operazione online, ma non le consente di chiuderlo anche a fronte di raccomandata, invio della mamma con procura, ordine per email, eccetera. Basterebbe introdurre un principio di portabilità del conto corrente al minimo costo e formalità per il cliente, per poi lasciare all’Antitrust punire i comportamenti devianti. Il che non vuole dire che la chiusura non comporti nessun esborso: se il correntista ordina un bonifico in Turkmenistan per svuotare tutto, è giusto che la banca si faccia pagare il servizio ma non che ponga ostacoli inutili. La trasparenza deve essere massima e concisa: occorre che i Patti Chiari rendano comparabili i costi dei servizi offerti, cosa che non è semplicissima. Passiamo alla struttura proprietaria. Da quando Draghi subentrò a Fazio, la difesa dell’italianità delle banche non è più un dogma e alcuni dei nuovi protagonisti francesi si sono dimostrati efficienti. Tuttavia, come aveva avvertito l’Antitrust, rimane molto da fare. In primis bisogna accentuare le norme sui conflitti di interesse impedendo che le stesse persone siedano non solo in consigli di più banche, ma di banche da una parte e Sgr o assicurazioni possedute da altri istituti. Poi bisogna mettere mano al capitolo degli assetti proprietari delle banche popolari, che con il principio una testa un voto rendono difficile la loro contendibilità e il controllo del mercato sull’operato dei manager. Infine, sarebbe utile allentare i poteri discrezionali che la stessa Banca d’Italia, in nome della stabilità, ancora ha nell’ammettere l’ingresso di soci all’interno delle compagini azionarie. Sarebbe necessaria altresì l’eliminazione delle norme che hanno consentito di allentare la passivity rule (obbligo per il management di non innalzare difese in caso di acquisizioni) e di rafforzare la presa degli azionisti di controllo portando dal 10 al 20% il tetto di acquisto di azioni proprie e dal 3 al 5% la percentuale di azioni che il socio con più del 30% può acquistare senza dover lanciare l’Opa. Il sistema paese impone dei costi al sistema bancario che poi si riversano sulla clientela. Oltre a quelli derivanti dalla rigidità del mercato del lavoro e degli accordi contrattuali con i lavoratori, che negli ultimi anni si sono un po’ allentate, basti pensare alle spese che si generano ogni qualvolta si deve aprire un conto corrente a causa di tutta la produzione documentale necessaria ai fini antiriciclaggio ed antifrode, quando sarebbe possibile evitarla se gli stessi dati fossero disponibili su un database pubblico come avviene in Gran Bretagna o negli USA. Da tempo è in corso un lavoro dell’Ufficio centrale antifrode del Ministero del Tesoro per costituire un archivio informatizzato: prima ci si arriverà, meglio sarà. Altri costi di sistema tutti italiani sono la lentezza assurda della giustizia civile e…le rapine in banca. Esatto, il 50% delle rapine in Europa avviene in Italia. Insomma, cercando di non cadere nel famoso benaltrismo, per il sistema bancario le ricette per una maggior efficienza e benefici per il consumatore non sono diverse dal solito: trasparenza, concorrenza tra banche, concorrenza per la proprietà, ordinamento giuridico flessibile e una pubblica amministrazione efficace.