Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  gennaio 30 Lunedì calendario

IL DELITTO POP CHE HA CAMBIATO LA TV


Un punto di non ritorno. O, quanto meno, un rilevantissimo punto di svolta. Ecco cosa significò, dal punto di vista della comunicazione, il delitto di Cogne, all’indomani della cui gigantesca copertura mediatica si può davvero dire che nulla sarebbe stato più come prima.

La tragica vicenda del piccolo Samuele Lorenzi dette inizio a un processo, fino a quel momento sconosciuto, di serializzazione dei programmi televisivi, che cominciarono a gemmare puntate su puntate su quell’unico evento, colorandosi di tinte sempre più noir (e splatter). La tv del dolore si fondeva così con il talk show, dando vita a una sorta di nuovo format di successo, fondato su una cronaca vera (e nera) che si convertiva in serial e veniva sceneggiata come un reality show. Tanti furono infatti i talk show che abbracciarono questa formula pulp di grande impatto emozionale (e un po’ ossessivo), dal Maurizio Costanzo show a Matrix, per non parlare di trasmissioni pomeridiane come Buona Domenica e tante altre.

Ma a fare da insuperabile laboratorio fu (e chi se lo dimentica più?) il Porta a Porta di Bruno Vespa, che ritornò su quel delitto per svariate decine di serate, conseguendo alcuni dei picchi di audience più alti della sua storia. Lo stesso salotto per antonomasia di un certo giornalismo che aveva fatto contribuito in Italia a creare e promuovere la «politica pop» (come l’hanno chiamata Gianpietro Mazzoleni e Anna Maria Sfardini) si inventava, di fatto, una formula di infotainment nella quale ogni alchimia equilibrata tra le parti saltava, e la dose di informazione veniva travolta da quella dell’intrattenimento (morboso e grandguignolesco). Il caso Cogne divenne, nella «versione di Vespa», un’ autentica palestra di (discutibile) innovazione del modo di fare tv. Fu proprio in quell’occasione che venne brevettato un «accessorio scenografico» destinato a notevole fortuna: il famoso (o famigerato, a seconda dei punti di vista) plastico, che riproduceva la villetta dove venne consumato l’infanticidio, antenato di futuri modellini per tragedie successive (dall’omicidio di Avetrana alla nave Concordia). E fu allora che a vivisezionare, da ogni immaginabile (e pure inimmaginabile) punto di vista, quei fatti così tristi, si formò una «squadra speciale» di criminologi, psicologi, opinionisti che avrebbe dato vita a una sorta di compagnia di giro pronta a macinare ospitate su ospitate, e a sbarcare, come una truppa d’occupazione, in altri palinsesti e programmi.

L’invenzione di una tradizione (televisiva): quel giornalismo popolare (e con punte trash) che, da noi (a differenza di quanto accaduto in altre nazioni), non si era mai tradotto in carta stampata, trovava il proprio perfetto habitat nel piccolo schermo. Non più informazione spettacolo, ma qualcosa che andava persino oltre: informazione spettacolista, potremmo dire, prendendo a prestito il termine da uno che se ne intendeva come l’intellettuale situazionista Guy Debord. Un «prodotto informativo» che dal tubo catodico rimbalzava sul web, dove i siti si riempivano delle discussioni accanite e feroci tra colpevolisti e innocentisti rispetto alla posizione di Annamaria Franzoni.

Dalla tv generalista alla «comunicazione personale di massa» dei blog, insomma, Cogne ha fatto scuola. E già, perché, non c’è niente da dire, il delitto, in termini di interesse del pubblico, paga sempre.