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 2012  gennaio 30 Lunedì calendario

VENT’ANNI DI GUERRA COL CAVALIERE


Dalla Costituente ai sei governi di cui era stato ministro, il suo destino si era già compiuto nella Prima Repubblica. Per questo, Oscar Luigi Scalfaro forse non si aspettava che le prove più importanti di una vita politica lunghissima sarebbero arrivate dopo. La sera del 23 maggio 1992, a poche ore dalla strage di Capaci in cui erano stati uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, Giovanni Spadolini, candidato favorito, dovette rassegnarsi a malincuore a uscire dalla corsa per il Quirinale. «Pazienza, sarò il presidente dell’altra Italia», mormorò al telefono a chi gli stava spiegando che, a quel punto, la Dc non avrebbe più accettato che un laico diventasse Capo dello Stato mentre la mafia gli dichiarava guerra, dispiegando con quell’attentato la sua terribile strategia stragista.

Due giorni dopo, a sorpresa, il presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro diventò il nono Capo dello Stato. Era entrato come outsider nelle difficilissime presidenziali di quell’anno, che avevano visto andare a vuoto ventuno votazioni e cadere candidati del calibro di Forlani e Andreotti. Scalfaro era il candidato, nientemeno, di Pannella, che aveva apprezzato la sua campagna contro la partitocrazia e per il rilancio del ruolo del Parlamento svolta nella precedente legislatura. Anziano (73 anni), piemontese di Novara, figlio di un funzionario calabrese trasferitosi al Nord, si definiva per vezzo «figlio dell’Unità d’Italia». E come deputato dell’Assemblea Costituente, e prima ancora membro dei tribunali speciali insediati dai partigiani all’indomani della Liberazione, aveva tutte le carte in regola per candidarsi. Ma senza il trauma della strage e la svolta subitanea che ne seguì, non sarebbe mai stato eletto.

Anche Bettino Craxi, suo grande elettore (oltre che suo presidente del Consiglio negli anni, dal 1983 all’87, in cui Scalfaro era stato ministro dell’Interno) avrebbe dovuto dolersi di lì a poco della scelta. Come magistrato che si sentiva «la toga cucita sulla pelle» e come vecchio democristiano abituato a fiutare l’aria del cambiamento col solo ausilio del suo naso politico, Scalfaro aveva intuito che non era affatto da trascurare l’inchiesta, allora appena cominciata, dai magistrati della Procura di Milano, contro il sistema dilagante della corruzione politica. A guidarlo in questa direzione era stato anche il rapporto quasi familiare con il capo del pool milanese, Francesco Saverio Borrelli, del cui padre, Manlio, Scalfaro era stato uditore giudiziario agli inizi della carriera in magistratura. Il legame con Borrelli e la sostanziale adesione data all’opera degli uomini di Mani Pulite diventarono così il primo pilastro fondante del suo settennato.

Una presidenza destinata ad entrare nella storia contemporanea, segnando il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e l’inizio dell’infinita transizione italiana, essenzialmente per due ragioni. Innanzitutto la decisione di non opporsi, ed anzi inizialmente di favorire, la liquidazione giudiziaria di gran parte della classe dirigente, ad esclusione dei comunisti toccati solo di striscio dall’inchiesta milanese. Strategia confermata, poco dopo il «no» a Craxi al ritorno al governo, con il rifiuto di firmare il decreto, sbrigativamente definito «colpo di spugna», messo a punto dal governo Amato e dal ministro di giustizia Conso per limitare, e ove possibile cancellare, le accuse che coinvolgevano quasi tutti i leader politici inquisiti. La decimazione dei quali, accompagnata dalla celebrazione dei referendum elettorali promossi da Mario Segni, avrebbe È morto la scorsa notte a Roma l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, per un arresto cardiaco. Aveva 93 anni. Nato a Novara il 9 settembre 1918, fu presidente della Repubblica dal 1992 al 1999. I funerali avranno luogo in forma privata stamattina, alle ore 14.00 nella chiesa di Santa Maria in Trastevere in Roma. A Novara sua città natale, è stato proclamato per quest’oggi il lutto cittadino.

Il saluto al Presidente Emerito potrà essere reso nella chiesa di Sant’Egidio, accelerato il passaggio dalla Prima Repubblica dei partiti e della democrazia bloccata - in cui la Dc e i suoi alleati avevano governato per quasi cinquant’anni e il Pci era sempre rimasto all’opposizione - a quella delle coalizioni, del maggioritario e dei governi scelti dagli elettori.

Coerentemente con questo disegno, Scalfaro aveva sostituito, nel ‘93, subito dopo il voto referendario del 18 aprile, il morente governo Amato, azzoppato da nove ministri coinvolti in Tangentopoli, con quello tecnico guidatoda Ciampi, incalzandolo a favorire l’approvazione di una nuova legge elettorale, e licenziandolo, benché imbattuto in Parlamento, nel gennaio ‘94, per portare il Paese a nuove elezioni. Ma a questo punto, per uno di quegli imprevisti che cambiano la storia, sulla scena politica comparve Berlusconi. Non lo potevano prevedere, né Scalfaro, né Occhetto, il solo leader sopravvissuto alla tempesta di Tangentopoli, che lo aveva spinto a sciogliere le Camere convinto che il vento del cambiamento avrebbe soffiato nelle sue vele. E a parte loro, una volta scoperta la novità, non ci fu uno che fosse capace di valutarla. La rivoluzione che nel giro di tre mesi doveva portare il Cavaliere a fondare un nuovo partito, a vincere le elezioni e approdare al governo, doveva cominciare così, sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno riuscisse a fare qualcosa per non esserne travolto.

A dire la verità, sommersi dalla valanga berlusconiana furono soprattutto i comunisti, che nel frattempo avesita nella piazza omonima, sempre stamattina dalle 10.30 alle 13.30.

Oscar Luigi Scalfaro ha passato praticamente tutta la vita in politica. Lasciata la toga di magistrato, indossata per la prima volta nel 1943, nel 1946 fu eletto all’Assemblea Costituente. Da lì ebbe inizio un cursus honorum (nel quale fu più volte sottosegretario e ministro) culminato con il raggiungimento nel 1992, subito dopo la strage di Capaci, in cui a Palermo vennero uccisi i giudici Falcone e Morvillo e gli agenti della scorta, della Presidenza della Repubblica. All’Assemblea Costituente Scalfaro venne eletto nelle liste Dc, partito nel quale militò sempre. Dall’83 all’87 fu ministro dell’Interno nei due governi Craxi. Venne eletto presidente della Camera nell’aprile 1992 e un mese dopo fu eletto presidente della Repubblica, succedendo a Francesco Cossiga, con i voti espressi da Dc, Psdi, Psi, Pri, Pds, Verdi, Radicali e Rete.

Lasciato il Quirinale nel 1999, è diventato senatore di diritto a vita. vano cambiato il nome il nome da Pci in Pds (Partito democratico di sinistra) e i democristiani, che si erano ribattezzati con il marchio delle origini «popolari». E d’altra parte come avrebbero potuto fronteggiare un avversario che alla politica professionale e ai loro vecchi metodi partitici, alle sezioni, al notabilato e perfino allo scambio di voti clientelari, aveva contrapposto la modernità dei sondaggi, la rete commerciale di Publitalia e un massiccio uso promozionale della tv come strumento di convinzione?

Diversamente da comunisti e democristiani, Scalfaro vacillò, ma si riebbe presto dal trauma. Né ci volle molto, bastò il primo incontro al Quirinale, per capire che lui e Berlusconi si sarebbero cordialmente detestati per il resto della vita. E’ proprio questa sarà la seconda ragione per cui Scalfaro passerà alla storia: l’antiberlusconismo istintivo, allergico, cellulare, prima ancora che istituzionale e politico, che lo portò via via a schierarsi e a trovare intese con quelli che nella prima parte della sua vita erano stati gli avversari naturali di un democristiano moderato come lui.

Basta solo rivedere i giorni della nascita del primo governo Berlusconi per capire: il Cavaliere al Quirinale in doppiopetto, che appena uscito, invece di ringraziare per l’incarico, dichiara che lo ha ricevuto «conformemente al risultato elettorale», come dire che il Capo dello Stato non poteva far altro. E il Presidente, con al fianco l’inflessibile Segretario generale della Presidenza Gaetano Gifuni, che al momento di far nascere il governo solleva le sue obiezioni. Oltre a mettere le mani sulla lista, cancellando il nome di Previti dalla casella della Giustizia e spostandolo, dopo molte insistenze, alla Difesa, Scalfaro infatti accompagnò il decreto di nomina con una sorta di decalogo della democrazia, che Berlusconi doveva impegnarsi a rispettare e che faceva di lui una sorta di premier sotto osservazione, un po’ perché lo giudicava fuori dai canoni e un po’ perché aveva voluto portare al governo la destra postfascista che la Prima Repubblica aveva emarginato.

Con questo inizio, gli otto mesi di vita del primo governo berlusconiano furono un inferno. Scalfaro non si tratteneva dall’imporre al Cavaliere ogni tipo di controllo e subordinazione, a cominciare da un incontro settimanale a cui il presidente del consiglio si sottometteva con evidente fastidio, frenato solo dagli sforzi di Gianni Letta. C’era una sorta di incomunicabilità: Berlusconi ad esempio, invece di portare i testi dei decreti che intendeva proporre, si presentava con delle moderne cartelline trasparenti, piene zeppe di tabelle di sondaggi. E commentava: «Ha visto Presidente? Questa nuova legge sarebbe graditissima almeno al sessanta per cento dell’opinione pubblica!». Scalfaro per tutta risposta masticava amaro e invitava Letta ad inoltrare i documenti in via ufficiale, attendendo prima di ogni decisione il responso degli accigliati uffici del Quirinale. Così gran parte delle proposte venivano scartate perché considerate incostituzionali, o impraticabili, o inique. E il Cavaliere, per nulla domo, se ne lamentava settimanalmente con il Capo dello Stato, sostenendo che in questo modo gli si impediva di realizzare il programma sul quale era stato eletto e di accontentare i desideri dei suoi elettori: scientificamente testati, aggiungeva, nei «polls» che Scalfaro si ostinava a non leggere.

Dopo un’estate politicamente nevrotica - apertasi con l’invio a Berlusconi, impegnato a Napoli in un vertice Onu sulla criminalità, di una comunicazione giudiziaria che fu ricevuta comeuna dichiarazione di guerra dei giudici di Milano, e proseguita con un’emergenza economica in cui il marcoveniva cambiato a mille e quattrocento lire, con un incremento del quaranta per cento -, lo scontro con il Quirinale riesplose a settembre, quando il Presidente pretendeva di conoscere in anticipo le linee essenziali della legge finanziaria, e Palazzo Chigi tardava a presentarle, trovandosi manifestamente in difficoltà. Ci fu un primo richiamo ufficioso trapelato sui giornali; poi una nota ufficiale del Colle che suonava da ultimatum. Alla fine le carte presero la strada del Colle oltre il tempo massimo consentito.

Per uno come Scalfaro, abituato nella sua vita a vedere cadere uno dopo l’altro governi di qualsiasi tipo, anche quelli guidati dai «cavalli di razza» della Dc, la sensazione era che Berlusconi, già in poco tempo, fosse cotto. Per questo, ai primi di dicembre, accolse come un’evoluzione naturale delle cose l’annuncio che una parte dell’opposizione di centrosinistra e una parte della maggioranza di centrodestra avevano stipulato un patto per farlo fuori. Ai suoi occhi, la crisi di governo era una normale incombenza a cui il Capo dello Stato doveva porre rimedio seguendo le tipiche liturgie istituzionali di un Paese che ne aveva superate una cinquantina: consultazioni, mandato esplorativo, poi incarico a un nuovo premier che sarebbe risalito al Colle con la lista dei nuovi ministri pronti a giurare. Quale invece non fu la sua sorpresa, quando Berlusconi - un Berlusconi fuori di sé, irato e deciso a tutto -, gli annunciò che se cadeva il suo governo, un governo scelto dagli elettori, era a loro, e non altri, che bisognava ridare la parola.

Sebbene Letta si adoperasse a contenere, reprimere, silenziare la furia del suo premier, Scalfaro si rese conto di trovarsi di fronte a una situazione eccezionale, e in qualche modo extraistituzionale. Pur privo di una maggioranza (dopo una cena riservata con D’Alema a base di sardine in scatola, Bossi e la Lega avevano firmato con il centrosinistra la mozione di sfiducia al governo), il Cavaliere si rifiutava di dimettersi. Si comportava in modo incomprensibile. Era asserragliato a Palazzo Chigi e non voleva parlare con nessuno, men che mai con il Quirinale.

Scalfaro tuttavia non si perse d’animo. Alzò l’ingegno e si fece cercare al telefono Gianni Agnelli, in nome della comune consuetudine piemontese al rispetto delle istituzioni e al laticlavio di senatore a vita che ne faceva a suo giudizio l’ideale ambasciatore speciale del Quirinale al cospetto del ribelle Berlusconi.

La notte del 27 dicembre, quando il suo cellulare squillò d’improvviso attorno alle tre, l’Avvocato stava veleggiando al largo delle Virgin Islands in una splendida notte di luna caraibica. Più che parlare, ascoltò il Presidente e capì che la sua vacanza era finita. Il giorno dopo, in abito scuro, varcava il portone di Palazzo Chigi con il difficile compito di convincere il riottoso occupante a sloggiare. Si conoscevano da molto tempo. Berlusconi poco prima, visitando da premier lo stabilimento di Melfi della Fiat, si era perfino lasciato andare a dire che teneva sul comodino da notte una fotografia dell’Avvocato.

Cosa si dissero in quell’occasione, però, nessuno lo ha mai saputo. Forse parlarono da imprenditori, più che da politici, mettendo in ballo il loro diverso vissuto e le contrastanti valutazioni sul Paese. Certamente non fu un momento facile, né un incontro gradevole, e Agnelli, dopo aver speso tutto il suo prestigio per persuadere Berlusconi a riaprire la trattativa con il Quirinale, riferì al Presidente che il Cavaliere gli era apparso «nervoso e sgarbato». Scalfaro allora spiegò all’Avvocato che per la piega eccezionale che la crisi aveva preso non gli restava che una sola carta da giocare: avrebbe proposto a Berlusconi, sicuro che non avrebbe potuto opporvisi, un governo di transizione guidato dallo stesso Avvocato. L’ipotesi non andò in porto. Agnelli non se l’aspettava, ma declinò:pur onorato, spiegò che avrebbe potuto sostenere meglio l’iniziativa del Presidente restando al suo posto, e Scalfaro, amareggiato, ne prese atto.

Il successivo incontro tra la delegazione Berlusconi-Letta e Scalfaro assistito da Gifuni si svolse a inizio d’anno in un’atmosfera gelida. Il Capo dello Stato, suadente, illustrò le molte ragioni che sconsigliavano un ricorso alle elezioni, a cominciare da quella che in Parlamento esisteva una maggioranza in grado di dare l’appoggio a un altro governo. Poi ipotizzò di dar vita a un esecutivo tecnico, guidato dal ministro del Tesoro di Berlusconi, Lamberto Dini, e composto da non parlamentari vicini alle aree dei diversi partiti che dovevano sostenerlo, in una sorta di tregua politica che doveva consentire di rimettere in carreggiata il Paese. Il Cavaliere ascoltava seccato, lasciando a Letta il compito di approfondire e ribadendo, di tanto in tanto, di non capire perché non si potesse tornare alle urne. A un certo punto Gifuni, per spiegare che non c’era alcuna preclusione del Colle alle elezioni, e ciò di cui si stava parlando era solo un breve intervallo in attesa del ritorno alle urne, prese un’agenda, sfogliò pagina per pagina fino al mese di marzo, e poi la porse a Letta e al Cavaliere, dicendo: «Scegliete voi la domenica che preferite. E’ chiaro adesso?».

Così Berlusconi uscì dal Quirinale pensando già alla prossima campagna elettorale e all’anniversario del 27 marzo 1994, che avrebbe celebrato a distanza di un anno con una nuova straordinaria vittoria. E Scalfaro incaricò Dini di formare un governo composto di soli tecnici, che durò due anni, in cui, né Letta, né i principali ministri che Berlusconi avrebbe voluto far succedere a se stessi, riuscirono ad entrare, e di cui, in omaggio all’idea originaria del Presidente, Susanna Agnelli divenne invece ministro degli Esteri. Il centrodestra andò all’opposizione, e Dini dovette farsi sostenere anche da Bertinotti e da Rifondazione comunista: per questo si parlò di ribaltone. La lunga guerra durata vent’anni, che solo con la scomparsa di Scalfaro ieri ha avuto fine, cominciò quel giorno.