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 2012  gennaio 30 Lunedì calendario

«ITALIA, CI SONO 570 MILIARDI DA SFRUTTARE» - L’

Italia oggi può contare su una leadership competente e altamente rispettata, sia nella figura del suo presidente della Repubblica che del suo primo ministro. Le misure di liberalizzazione già annunciate, benché parziali (si è preferito aumentare le licenze per notai e farmacie, anziché abolirle) rappresentano un passo avanti dopo decenni di immobilismo. Inoltre, la Bce è intervenuta con la sua offerta di prestiti illimitati alle banche all’1% e va avanti nell’acquisto di titoli di Stato, tra cui anche quelli italiani.
Il mal di spread
Eppure il debito pubblico continua a essere scambiato a livelli pericolosamente bassi. Per esempio, i Btp che matureranno nel 2037 sono offerti a 72,459, il che significa ovviamente che le banche italiane ed estere che ne sono in possesso hanno perso il 27,5% del capitale investito. È questa la causa della loro profonda sofferenza. Il titolo a dieci anni oggi si scambia al 5,8% circa, un livello fin troppo alto per i tassi attuali.
È questo il motivo che spiega come mai una buona leadership, buone politiche, un’azione energica da parte della Bce, e persino la promessa di un’unione fiscale europea, hanno avuto così scarso impatto sulla mole del debito pubblico italiano. Secondo i calcoli della Banca d’Italia a dicembre 2010 era stimato in 1.843 miliardi quasi il 120% del Pil. Inoltre, mentre il tasso di crescita del Pil è stato dello 0,3% negli ultimi dieci anni — e certamente nel 2012 sarà di segno negativo — i tassi di interesse sul debito pubblico sono stati in media del 4,5% nel 2011, e oggi ancora più alti.
Ciò significa che occorre estrarre sempre più denaro dall’economia aumentando le tasse e/oppure tagliando la spesa pubblica per evitare di aggiungere altri 90 e rotti miliardi di euro alla montagna del debito pubblico ogni anno.
Ma come la Grecia ha dimostrato drammaticamente, è impossibile spremere ancor più denaro da un’economia che non cresce, senza il rischio di innestare la retromarcia e avviare la contrazione, aggravando così il fardello degli interessi sul debito pubblico e rendendolo ancor meno sostenibile.
Ed è quello che sta accadendo ora: l’Italia è ormai avviata sulla strada dell’insolvenza e del default a meno che la Germania o qualche altro Babbo Natale non vogliano pagare di tasca propria gli interessi sul debito pubblico italiano (cosa impossibile, poiché la Corte costituzionale tedesca ha dichiarato incostituzionali gli Eurobond).
Ricchezze
Ma l’Italia potrebbe evitare il destino della Grecia — e il mondo intero scansare conseguenze davvero catastrofiche — perché, a differenza della Grecia, gode di una situazione patrimoniale molto interessante: a fronte di 1.843 miliardi di euro di debiti, possiede beni stimati intorno ai 1.815 miliardi di euro dal ministero del Tesoro a settembre 2011. Perciò mentre il debito si aggira intorno al 120% del Pil, i suoi asset raggiungono quasi il 119% del Pil. Appare quindi ovvio che vendere parte del suo patrimonio — almeno 570 miliardi di euro in immobili, partecipazioni, concessioni — allo scopo di riscattare i buoni del Tesoro, rappresenti la soluzione definitiva della crisi. Una volta ridotto a meno del 90% del Pil, il debito pubblico italiano sarebbe gestibile, perché a quel punto i tassi di interesse scenderebbero drasticamente. Sfortunatamente, nell’attuale crisi una tale operazione equivale non a vendere, ma a svendere il patrimonio.
Esiste però una soluzione possibile: non vendere nulla, bensì cartolarizzare il patrimonio pubblico e utilizzarlo come garanzia per l’emissione di nuovi titoli che saranno garantiti non già da un governo pesantemente indebitato, bensì specificatamente da quegli stessi beni, e pertanto con rating da tripla A e bassi tassi. Il denaro incassato per i nuovi titoli servirà ad acquistare e cancellare i titoli di Stato esistenti. E questo a sua volta contribuirebbe ad abbassare considerevolmente i tassi di interesse su quei titoli ancora in emissione.
Percorso accidentato
Se la soluzione appare semplice, non così la sua attuazione. Gli investitori accetterebbero bassi tassi di interesse sui nuovi titoli garantiti, ma solo se fossero emessi sotto la normativa del mercato internazionale a Londra o a New York, con procedure chiare di liquidazione e valore di recupero. Pertanto gli asset corrispondenti dovrebbero essere innanzitutto trasferiti a una nuova società per azioni, interamente di proprietà del Tesoro, ma gestita secondo criteri commerciali e con l’ausilio di manager internazionali. Si procederebbe poi all’identificazione dei beni specifici, uno per uno, nella massa di immobili, partecipazioni e concessioni, per poi gestirli secondo i criteri più vantaggiosi, al fine di produrre rendimenti soddisfacenti. Gli studi del Tesoro calcolano che attualmente il rendimento di tutti gli asset pubblici arriva appena allo 0,9%. Non ci vorrebbe un genio della finanza per far innalzare il rendimento al 5% per la quota più appetibile, pari a 570 miliardi del totale.
In un paese dove la vendita di intere caserme vuote è stata bloccata per anni perché un sottoufficiale in pensione occupa una casetta nel cortile, prima ancora di affrontare il problema della gestione occorre rendersi conto che solo un enorme sforzo di leadership può realizzare il piano.
Ventidue ministeri e più di 9.000 enti locali faranno fronte comune per rifiutare il trasferimento di immobili (anche perché, poi, dovranno pagare l’affitto), partecipazioni e concessioni alla nuova SpA.
L’alternativa è quella di smaltire il debito lentamente: la nuova Unione fiscale prevede un 4% all’anno. Aggiungendo gli interessi si arriva a 160 miliardi di euro, che non si possono estrarre da una economia di 1.600 miliardi senza condannarla a un miserabile declino.
Simon E. Nocera
Edward Luttwak