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 2012  gennaio 28 Sabato calendario

PERCHé I CAPITALI ESTERI FANNO BENE A EVITARCI

PERCHé I CAPITALI ESTERI FANNO BENE A EVITARCI –

La parola d´ordine è rilanciare la crescita in un´Italia da anni in stagnazione, e chiamata a uno sforzo ulteriore per ridurre il debito pubblico. Crescita significa produrre e vendere più beni e servizi, aumentando il reddito da distribuire a chi produce. Spesso però ci si dimentica l´ovvio: per produrre di più sono necessari l´incentivo e l´interesse a farlo. In Italia non è scontato: nell´inchiesta del World Investment Report dell´Unctad, sui Paesi in cui le multinazionali del mondo considerano interessante investire nel prossimo triennio, il nostro non è neppure menzionato. Eppure, fra i primi venti, non ci sono solo paesi emergenti, ma anche Francia, Germania e Gran Bretagna; gli Stati Uniti poi sono al secondo posto tra le destinazioni preferite degli investimenti diretti esteri (FDI).
Già da vent´anni, l´Italia attrae una quota risibile di FDI. Ma dall´inizio della crisi si è ulteriormente chiusa su se stessa: gli investimenti diretti nel triennio 2008-2010 ammontano a soli 18 miliardi, appena l´1,6% degli FDI affluiti nell´Unione Europea: 90 in Germania, 132 in Francia, 112 in Spagna, 208 in UK, 228 in Belgio, 52 in Svezia, 40 in Polonia. Il dato fa ancora più impressione se rapportato alla dimensione degli investimenti del Paese: in media, appena l´1,7% degli investimenti fissi italiani nel triennio, contro l´11,3% dell´Unione Europea, e il 10,4% del mondo. Già eravamo considerati un paese complicato e ostico al capitale; abbiamo reagito alla crisi chiudendoci a riccio.
Non è vero che i capitali internazionali vadano solo dove ci sono bassi costi di produzione, poche regole, e mercati in espansione. Anzi, nel triennio, l´Europa ha attratto 1.138 miliardi di FDI, contro i 686 degli Stati Uniti e i 1.039 dell´intera Asia (Cina e India comprese). Il capitale cerca anche competenze, opportunità, flessibilità, tecnologia, innovazione, trasparenza, regole certe e tutela dei diritti. In nessuno di questi ambiti rappresentiamo l´eccellenza.
Vero che da Europa e Stati Uniti escono anche capitali che vanno verso i paesi a maggiore crescita: il saldo netto nel triennio è stato di un flusso verso questi ultimi di 1.400 miliardi. Ma sono i dati lordi che contano: la dimensione dei FDI in entrata dà un´indicazione di quali siano le opportunità di crescita di un paese (non c´è crescita senza interesse a investire); quelli in uscita, della capacità delle sue imprese di svilupparsi ed espandersi nel mondo. Anche in questo l´Italia eccelle per difetto: contiamo per appena il 5% dei FDI in uscita dall´Unione Europea, pari all´8% dei nostri investimenti fissi, la metà della media europea.
Insomma l´Italia è un´economia sempre più insulare, chiusa su se stessa, dove solo gli italiani hanno convenienza a investire. Non riusciamo ad attirare capitali perché non offriamo opportunità di investimento adeguate. Ma è un errore madornale: non c´è crescita senza opportunità. La politica di sviluppo del Governo dovrebbe rimuovere gli impedimenti: riduzione della pressione fiscale, certezza del diritto, flessibilità del mercato e dell´organizzazione del lavoro, trasparenza nei rapporti con lo Stato, mercato dei capitali e sistema bancario efficienti. E siamo anche carenti delle competenze che interessano all´estero. La difesa dell´italianità serve solo a proteggere un sistema opaco di relazioni e interessi che l´apertura ai capitali stranieri rischierebbe di spazzare via.
Nell´ultimo decennio abbiamo usato i capitali esteri per collocare il nostro debito pubblico. Adesso ce lo stiamo ricomprando perché gli investitori esteri non lo vogliono più. Ma se lo Stato assorbirà più risparmio italiano, dovremmo fare maggior ricorso ai FDI per ricapitalizzare banche e sostenere le imprese. Infine, non c´è sviluppo se le imprese italiane continuano a investire solo qui la gran parte delle loro risorse, invece di investirle all´estero per accrescere la loro dimensione: dimostrando così un provincialismo tipici di un´economia di relazioni, che non promette bene per il futuro.