Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  gennaio 28 Sabato calendario

Il vero dramma dei tedeschi: essere invidiosi degli italiani – Io sto con Goethe. «Kennst du das Land wo die Zitronen blühn?»

Il vero dramma dei tedeschi: essere invidiosi degli italiani – Io sto con Goethe. «Kennst du das Land wo die Zitronen blühn?». «Conosci tu il Paese dove fioriscono i limoni?/ Nel verde fogliame splendono arance d’oro/ un vento lieve spira dal cielo azzurro/ tran­quillo è il mirto, sereno l’allo­ro/ lo conosci tu bene? Lag­giù, laggiù vorrei con te, o mio amato, andare». Sono i versi del tempo del Viaggio in Italia e illuminano il perché di un’at­trazione più di un libro di sto­ria, un trattato di psicologia, un tomo di psicanalisi. Siamo sopravvissuti all’alleanza con Hitler, figuriamoci se non so­pravviveremo al miserabile ar­ticolo dello Spiegel . Il termine Germania viene da Tacito, e nel Medio Evo im­peratori come Ottone il Gran­de e Federico II, lo «Stupor Mundis», passarono più tem­po al di qua delle Alpi che in ca­sa propria. Quanto al Barba­rossa, «discese» in Italia per sei volte, prima di farsene una ragione e starsene tranquillo. Le partite di calcio ideologi­che fra nazioni ci fanno vomi­tare. Ciascuna ha le sue mise­rie e le sue grandezze, l’ignobi­le e il sublime. Tirarsele addos­so è roba da carrettieri dello spirito. Diceva Nietzsche a proposito della «profondità» tedesca: «È spesso soltanto una pesante,tardiva “digestio­ne”. E come tutti i malati croni­ci, come tutti i dispeptici han­no la tendenza alla comodità, così il tedesco ama la “fran­chezza” e la “dirittura”. Come è comodo essere franchi e pro­bi » . Se devo essere sincero, a me delle brume profonde del nord, del sangue e del suolo, dell’Ordnung muss sein non è mai fregato niente, e fra nord e sud scelgo il sud, il mare e il so­le, le pelli abbronzate e se la vo­gliamo dire tutta, visto che lo Spiegel parla di razze, i veri ariani, gli indoeuropei col bot­to, sono i curdi, mica i tede­schi. In Germania, più o meno travestiti da turchi, ce n’han­no a bizzeffe e quindi farebbe­ro meglio a «interagire» con lo­ro se proprio vogliono tornare alle radici. Perché i tedeschi, nonostan­te lo Spiegel , siano attratti dal­­l’Italia, e non viceversa (noi li rispettiamo, ci andiamo maga­ri a lavorare, ma è un’altra co­sa) è presto detto. Non c’è la convenzione, l’armonia artifi­ciale fatta passare per natura­le, il si fa così perché tutti fan­no cosi. Respirano, insomma, tornano a pensare con la testa più libera. Noi italiani ne dicia­mo talmente tante su noi stes­si, che non c’è critico in grado di starci alla pari. È il nostro sport nazionale, frutto del fat­to che sappiamo da dove ve­niamo. Siamo antichi, più che vecchi, troppo antichi. C’è quella frase del principe di Sa­lina nel Gattopardo che è una metafora dell’Italia, non della Sicilia: «Vengono per inse­gnarci le buone creanze, ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi». La nostra vani­tà, frutto della nostra storia, è più forte delle nostre miserie. Diceva il grande poeta tede­sco Heinrich Heine: «Anche quando fanno discorsi sulla li­bertà, i tedeschi in segreto amano essere in catene». Nel­lo stesso secolo, sullo stesso territorio e per un lungo perio­do nello stesso arco di tempo, sono riusciti a essere contem­poraneamente nazisti, comu­nisti e democratici. La chiama­no Sonderweg, peculiarità te­desca, ovvero una storia iden­titaria che nel susseguirsi di tracolli, riordinamenti e crolli sistemici non le ha mai per­messo un’autentica auto- per­cezione nazionale. C’è un’ec­cezionalità in tutto questo, ma il problema è che noi sap­piamo chi siamo, mentre i te­deschi debbono essere conti­nuamente rassicurati su chi si­ano veramente. Prendiamo Hitler, il Bunker, la cancelleria. Una tragedia wagneriana, non c’è dubbio, la discesa agli inferi accompagnata dal canto delle Walkirie. Volete paragonarla al 25 luglio, Mussolini sull’au­toambulanza, l’Otto settem­bre e il Processo di Verona, Dongo? Eppure, qui non ci sa­rà Wagner, grandissimo cer­to, ma c’è Shakespeare, c’è re Lear che ha perso il trono, un padre che deve far fucilare il marito della figlia e sa che per quel sangue lei lo maledirà, c’è un’amante che gli muore al fianco, c’è l’ubriacatura dei vincitori che appendono per i calcagni i vinti. C’è la vita, mentre di là c’è il cartone del­l’opera. Solo noi italiani, per quel difetto congenito di spu­tarsi addosso, ne abbiamo fat­to una tragica farsa. La vera tra­gedia è qui, lì c’è la messa in scena, la rappresentazione. Le critiche altrui sono sem­pre ben accette, in Italia, poi. E però viene in mente la rispo­sta di quell’aristocratico ro­mano a un diplomatico statu­nitense che lo infastidiva sulla poca moralità e la rilassatezza dei costumi al tempo della co­siddetta dolce vita. «Occorre più disciplina, più rigore, più senso dello Stato» gli diceva quello. «Ma veda, caro» lo in­terruppe il principe: «Quando voi eravate ancora a dipinger­vi sugli alberi, noi eravamo già froci » .