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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

“Quella nave all’isola del Giglio ha risvegliato i miei incubi” – Non ha più fatto un bagno in mare, non si è più liberato dagli psicofarmaci

“Quella nave all’isola del Giglio ha risvegliato i miei incubi” – Non ha più fatto un bagno in mare, non si è più liberato dagli psicofarmaci. Dopo vent’anni, dieci mesi e diciotto giorni, il mozzo della Moby Prince, Alessio Bertrand, è ancora in fuga dalle fiamme. Da se stesso in mutande, appeso al corrimano di poppa, con i piedi a picco sull’acqua, la maglietta in gola per difendersi dal fumo e il giubbotto di salvataggio strappato a un collega, appena stramazzato sotto i suoi occhi. Il mozzo è ancora lì che piange, soffia nel fischietto e chiama aiuto, mentre tutti gli altri passeggeri stanno morendo di morte lenta. A bordo del traghetto 141 persone, 65 sono membri dell’equipaggio. La maggior parte è chiusa dentro il Salone de luxe, oltre le porte stagne, da dove hanno assistito in diretta all’impatto con la petroliera Agip Abruzzo. «Non capisco perché i soccorsi siano arrivati così tardi - dice ancora adesso Bertrand, con uno sguardo di incredulità -, siamo rimasti alla deriva in mezzo al mare per un tempo infinito. Eppure eravamo attaccati al porto di Livorno. Ci potevamo salvare tutti...». Vi ricorda qualcosa? Non al mozzo Bertrand: «Non riesco a guardare la tragedia della Costa Concordia - dice -, soffro troppo, cambio canale». Il mozzo della Moby Prince abita sulla strada panoramica di Ercolano. Distributori di benzina presi d’assalto, botteghe in salita verso il Vesuvio. C’è Padre Pio alla parete. Un contorno di mobili finto rococò. La moglie Raffaella è al suo fianco come sempre, e prepara il caffè. Mentre i figli ragazzini, entrambi affetti da autismo, sono in camera a fare i loro discorsi imperscrutabili. La casa è senza riscaldamento. Il mozzo Bertrand è passato di moda. Lontanissimi i giorni in cui i politici locali si affollavano alla sua porta: «Dicevano che non mi avrebbero lasciato solo». Invece lo è stato e lo è ancora, l’unico sopravvissuto. Puoi considerarlo un miracolo o una maledizione. Bertrand oscilla: «Doveva salvarsi il capitano dice a un certo punto -, avrebbe potuto spiegare molte cose che io non so». La sera del 10 aprile del 1991 era la sua prima attraversata. Aveva 24 anni. Da Livorno a Olbia avrebbe dovuto occuparsi delle pulizie e delle commissioni. E infatti Bertrand aveva appena portato i panini in plancia di comando. Poi era tornato giù al suo posto, a guardare Barcellona-Juventus, in attesa di nuovi ordini. Ma c’era la petroliera sulla rotta. La prua si conficcò nella cisterna numero 7. Il greggio iranian light fuoruscì e incendiò la notte. Fiamme sui ponti, fumo ovunque, bruciava persino l’acqua del mare. Per dare l’idea dell’agonia. Alle 22,03 la Moby Prince molla gli ormeggi. Alle 22,20 qualcuno già si rende conto e urla alla radio: «The passenger ship, the passenger ship!». La nave passeggeri. Ma il mozzo Bertrand arriva in ospedale alle 4 del mattino. «Mi hanno salvato due ormeggiatori che si erano avvicinati al traghetto in fiamme. Avevano paura che esplodesse, io ero appeso e loro urlavano: “Buttati giù! Buttati giù!”. Alla fine mi sono buttato, trenta metri. E tante volte, in questi anni, ho pensato che sarei dovuto andare a ringraziarli. Ma Livorno per me è un supplizio. Ogni volta che mi hanno interrogato sono stato troppo male». Bertrand sbarca sconvolto. Non sarà mai più lui. Aggredisce un giornalista, anche il medico dell’ospedale. «Ancora oggi, quelle rare volte che ne parlo, alla fine piango a dirotto». Non lo dice per impietosire. Tiene lo sguardo obliquo. Ha un’invalidità riconosciuta dell’ottanta per cento. Le testimonianze confuse dell’inizio avevano fatto sollevare dei dubbi. Ma i magistrati hanno sempre lodato il suo contributo alle indagini. «Ho detto tutto quello che sapevo, oggi non potrei aggiungere nulla di diverso». Bertrand riferisce una frase importantissima. Mentre sta scappando dalle fiamme incrocia il timoniere. «Mi ha detto che c’era nebbia e che avevamo urtato un’altra nave». Questa resterà la storia. Nonostante tantissime supposizioni alternative. Un traffico d’armi in rada. Piccole imbarcazioni presenti sulla scena. Sospetti alimentati anche dall’impossibilità di ottenere i tracciati radar dalla vicina base militare americana di Camp Darby. Eppure, alla fine, la nebbia. Dopo il processo senza colpevoli e la riapertura del caso nel 2006, su richiesta dei figli del comandante della Moby Prince, si torna sempre alla testimonianza di Bertrand. Nel 2010 il gip di Livorno ha disposto l’archiviazione con parole che fanno male: «Anche se è doloroso affermarlo - ha scritto -, una causa della tragedia è individuabile in una condotta gravemente colposa, in termini di imprudenza e negligenza... Occorre tornare al quesito di base: comprendere fino in fondo come sia possibile che personale di bordo ritenuto preparato, al comando di una nave dotata degli impianti di sicurezza, possa avere così gravemente errato. E come sia possibile che una collisione con una nave alla fonda, avvenuta a così poca distanza dal porto di Livorno, abbia potuto avere così tragiche conseguenze». Certe volte la storia non serve a niente. Il mozzo Bertrand ancora oggi non sa spiegarsi come mai l’abbiano lasciato tanto a lungo a gridare. La sua pratica è stata liquidata nel 1993 con 300 milioni di lire: «173 per la casa, 17 all’avvocato, 13 al perito, 50 regalati a mia madre, il resto nel matrimonio e per la vita». Adesso è al verde. Soffre molto per i suoi figli, che vorrebbe poter curare meglio. Non guida, non va neppure in spiaggia, non ha più preso neanche un treno. Ogni tanto gioca a calcio da terzino e fa una partita a scopa. Il resto del tempo, il mozzo Bertrand lo passa ancora attaccato al corrimano di poppa. Che qualcuno lo aiuti a scendere, una volta per tutte, da quella maledetta nave.